Giudizi e testimonianze attraverso i
secoli
Partendo dalla pura notizia di cronaca che ci dà il Villani,
intendiamo testimoniare il diverso modo con cui scrittori e
letterati dei vari secoli hanno guardato a Dante: dalla
prima idealizzazione del Boccaccio alle riserve puristiche
del Bembo; dalla lunga tradizione esegetica toscana dei
Gelli, dei Borghini, dei Galilei, che presentano anche
intuizioni geniali, all'irriverente e corrosivo spirito
volterriano del Bettinelli, per concludere con il rinnovato
entusiasmo romantico e risorgimentale del Mazzini e del
Gioberti.
1.
Nel detto anno 1321, del mese di luglio, morì Dante
Alighieri di Firenze nella città di Ravenna in Romagna,
essendo tornato d'ambasceria da Vinegia in servizio de'
signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna, dinanzi
alla porta della chiesa maggiore, fu seppellito a grande
onore, in abito di poeta e di grande filosafo.
Mori in esilio del Comune di Firenze in età circa
cinquantasei anni. Questi fu grande letterato quasi in ogni
scienza, tutto fosse laico: fu sommo poeta e filosafo, e
rettorico perfetto tanto in dittare e versificare, come in
arringa parlare nobilissimo dicitore, in rima sommo, col pia
pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino
al suo tempo e pia innanzi. Fece in sua giovanezza il libro
della Vita nova d'amore. E fece la Commedia, ove in pulita
rima e con grandi e sottili questioni morali, naturali e
astrolaghe, filosofiche e teologhe, con belle e nuove figure
comparazioni e poetrie, compuose e trattò in cento capitoli
ovvero canti, dell'essere e stato del ninferno, purgatorio e
paradiso, cosí altamente come dire se ne possa, siccome per
lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di
sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Commedia di
garrire e sciamare a guisa di. poeta, forse in parte piú che
non si convenia, ma forse il suo esilio gliele fece fare.
GIOVANNI VILLANI
2.
Abitò dunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di
ritornare mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio)
più anni sotto la protezione del grazioso signore; e quivi
con le sue dimostrazioni fece più scolari in poesia e
massimamente nella volgare; la quale, secondo il mio
giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e
recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra'
latini. Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si
creda che innanzi trovata fosse, niuno fu che ardire o
sentimento avesse di farla essere strumento d'alcuna
artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose
d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con effetto
con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso
sopra ogni altro fece il volgar nostro.
GIOVANNI BOCCACCIO
3.
Chi legge la Commedia di Dante vi troverrà molte cose
teologiche e naturali essere con gran destrezza e facilità
espresse; troverrà ancora molto attamente nello scrivere suo
quelle tre generazioni di stili che sono dagli oratori
laudate, cioè umile, mediocre ed alto; ed in effetto, in uno
solo, Dante ha assai perfettamente assoluto quello che in
diversi autori, cosí greci come latini, si truova. Chi
negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e
dolce., e queste cose amorose con tanta gravità e venustà
trattare, quanta sanza dubbio non si trova in Ovidio,
Tibullo, Catullo e Properzio o alcun altro latino? Le
canzoni e sonetti di Dante sono di tanta gravità, sottilità
ed ornato, che quasi non hanno comparazione in prosa e
orazione soluta.
LORENZO DE' MEDICI
4.
Il vostro Dante, Giuliano, quando volle far comperazione
degli scabbiosi, meglio avrebbe fatto ad aver del tutto
quelle comperazioni taciute, che a scriverle nella maniera
che egli fece:
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E non
vidi giamai menare stregghia
a ragazzo aspettato da signorso; |
|
e poco
appresso:
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E si
traevan gíù l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglíe. |
|
Come che
molte altre cose di questa maniera si sarebbono potute
tralasciar dallui senza biasimo, ché nessuna necessità lo
strignea più a scriverle che a non scriverle; là dove non
senza biasimo si son dette. Il qual poeta non solamente se
taciuto avesse quello che dire acconciamente non si potea,
meglio avrebbe fatto e in questo e in molti altri luoghi
delle composizioni sue, ma ancora se egli avesse voluto
pigliar fatica di dire con più vaghe e più onorate voci
quello che dire si sarebbe potuto, chi pensato v'avesse, et
egli detto ha con rozze e disonorate, si sarebbe egli di
molto maggior loda e grido, che egli non è; come che egli
nondimeno sia di molto. Che quando e' disse:
Bíscazza, e fonde la sua facultate,
Consuma o Disperde avrebbe detto, non Biscazza, voce del
tutto dura e spiacevole; oltra che ella non è voce usata, e
forse ancora non mai tocca dagli scrittori. Non fece cosí il
Petrarca, il quale, lasciamo stare che non togliesse a dire
di ciò che dire non si potesse acconciamente, ma, tra le
cose dette bene, se alcuna minuta voce era, che potesse
meglio dirsi, egli la mutava e rimutava, infino attanto che
dire meglio non si potesse a modo alcuno.
PIETRO BEMBO
5.
Di maniera ch'ei si può dire, ch'ei sia stato il primo il
qual abbia scritto nella nostra lingua di cose scientifiche,
e abbia espresso in quella la maggior parte delle cose
umane, e che abbia sadisfatto a tutte le belle imitazioni,
e, oltre a di questo, scritto poi delle divine con tanta
dottrina e maiestà e leggiadria insieme, ch'egli ha
dimostrato al mondo come ei si può esser poeta, e trattar
delle cose divine, senza parlar favolosamente di Dio, e
senza attribuirgli di quelle cose e di quegli affetti, che
avevano fatto prima gli altri.
GIAMBATTISTA GELLI
6.
Potiamo ben dire, che quanto all'esteriore e alla superficie
delle parole in questo Poema si tratti dell'Inferno
essenziale dopo questa vita, e cosí del Purgatorio e
Paradiso, de' quali l'Autore va con diverse finzioni, come
poeta parlando, adornando questa sua opera con tutta l'arte,
e facendola ricca di altissimi concetti di tutte le scienze,
e bene spesso colla più profonda teologia spiegando in versi
quello che solo a pensare e imaginare è difficilissimo; la
principal sua intenzione (come si è detto) è di trattare
dell'Inferno, Purgatorio e Paradiso morali che sono in
questa vita, cioè prima dello stato di quelli che vivono
morti nel peccato, acconsentendo alli loro disordinati
affetti, e non cercando altro che di sodisfare all'appetito
sensuale; secondo, di quelli che per contrario s'aiutano
quanto possono per vincere i mali abiti dalli quali si
sentono tirare al male, e in questa maniera si vanno
purgando da essi; terzo, di coloro che già purgati godono la
sicurissima pace della lor buona conscienza illuminati
internamente da Dio, e a esso solo con la lor volontà
perfettamente uniti. Di modo che tutto quello che ei
descrive secondo la prima apparenza, non è per altro che per
ricoprire il bellissimo e vero ritratto della felicità e
perfezione umana, non di quella sola che ci hanno insegnato
i filosofi, ma di tutta quella ancora che per divina
rivelazione ci si è fatta conoscere.
VINCENZO BORGHINI
7.
Se è stata cosa difficile e mirabile l'aver potuto gli
uomini per lunghe osservazioni, con vigilie continue, per
perigliose navigazioni, misurare e determinare gl'intervalli
dei cieli, i moti veloci e i tardi, e le loro proporzioni,
le grandezze delle stelle, non meno delle vicine che delle
lontane ancora, i siti della terra e dei mari, cose che, o
in tutto o nella maggior parte, sotto il senso ci caggiono;
quanto piú maravigliosa deviamo noi stimare
l'investigazione, e descrizione del sito e figura
dell'Inferno, il quale sepolto nelle viscere della terra,
nascosto a tutti i sensi, è da nessuno per niuna esperienza
conosciuto, dove se bene è facile il discendere, è però
tanto difficile l'uscirne, come bene c'insegna il nostro
Poeta in quel detto:
|
Uscite
di speranza, voi ch'entrate; |
|
e la sua
guida in quell'altro:
|
È
facile il discendere all'Inferno,
ma 'l piè ritrarne, e fuor dell'aura morta
il poter ritornare all'aura pura,
questo, quest'è impres'alta, impresa dura: |
|
che dal
mancamento dell'altrui relazione viene sommamente
accresciuta la difficoltà della sua descrizione. Per lo che
era necessario allo spiegamento di questo infernal teatro
corografo e architetto di più sublime giudizio, quale
finalmente è stato il nostro Dante: onde se quegli, che sí
accortamente svelò la mirabil fabbrica del cielo, e si
esquisitamente disegnò il sito della terra, fu reputato
degno del nome di Divino, non doverà già il medesimo nome
essere per le già dette ragioni al nostro Poeta conteso.
GALILEO GALILEI
8.
Per cotal povertà di volgar favella Dante a spiegare la sua
Comedia dovette raccogliere una lingua da tutti i popoli
dell'Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero
aveva raccolta la sua da tutti quelli di Grecia. Cosí Dante
fornito di poetici favellari impiegò il colerico ingegno
nella sua Comedia; nel cui Inferno spiegò tutto il grande
della sua fantasia, in narrando ire implacabili ed in
membrando quantità di spietatissimi tormenti, come appunto
nella fierezza di Grecia barbara Omero descrisse tante varie
atroci forme di fierissime morti avvenute ne' combattimenti
de' troiani co' greci, che rendono inimitabile la sua
Iliade.
Ma nel suo Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene
con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode
infinita gioia con una somma pace dell'animo, quanto in
questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto
a que' tempi impazienti di offesa o di dolore era
meravigliosissimo Dante; appunto come per lo concorso delle
stesse cagioni, l'Odissea, ove si celebra l'eroica pazienza
d'Ulisse, è appresa ora minor dell'Iliade, la quale a' tempi
barbari d'Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di
Dante, dovette recare altissima meraviglia.
GIAMBATTISTA VICO
9.
Pur de' bellissimi versi, che a quando a quando
incontravansi, mi facean tal piacere che quasi gli
perdonava. Ma giunto poi, saltando assai carte senza
leggerle, a Francesca d'Arimino, al conte Ugolino, a qualche
altro passo siffatto: oh che peccato, gridai, che si bei
pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian
condannati! Amico caro, diss'io rivolgendomi verso Omero,
guai a noi se questo poema fosse più regolare e scritto
tutto di questo stile. Si lesse più d'una volta Ugolino; chi
piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo
in greco od in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno
squarcio sí originale e sí poetico, per colorito insieme e
per passione, non cedeva ad alcuno d'alcuna lingua, e che
l'italiana mostrava in esso una tal robustezza e gemeva in
un tuono cosí pietoso che potrebbe in un caso vincere ogni
altra.
E buon per noi, che lungamente si lesse e si gustò questo
tratto, perché tutto il resto ci fastidí senza misura. Il
Purgatorio e il Paradiso molto peggio si stan dell'Inferno,
che neppur una di tali bellezze non hanno, la qual si
sostenga per qualche tempo con nobile poesia. Oh che
sfinimento non fu per noi lo strascinarci, per cento canti e
per quattordici mille versi, in tanti cerchi e bolge, tra
mille abissi e precipizi con Dante, il qual tramortiva ad
ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e
noiava me, suo duca e condottiere, delle più nuove e più
strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui
divenuto or maestro di cattolica teologia, or dottore della
religione degl'idoli, insieme le favole de' poeti e gli
articoli della fede cristiana, la filosofia di Platone e
quella degli arabi mescolando, sicché mi pareva essere
troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto che
non sia stato vivendo e poetando. Oh che dannate e purganti
e beate anime son mai quelle, e in qual Inferno, in qual
Purgatorio, in qual Paradiso collocate? Mille grottesche
positure e bizzarri tormenti non fanno certo gran credito a
quell'Inferno né all'immaginazione del poeta. Tutti poi
quanti sono ciarlieri e loquacissimi di mezzo ai tormenti, o
alla beatitudine, e non mai stanchi in raccontare le strane
loro venture, in risolvere dubbi teologici o in domandar le
novelle di mille toscani loro amici o nemici, e che so io.
Nulla dico de' papi e de' cardinali posti in luogo di poco
rispetto per verità, mentre Traiano imperatore e Rifeo
guerrier di Troia sono nel Paradiso. Rileggete con questa
riflessione quell'imbroglio non definibile, e poi mi direte
che ve ne sembri.
E questo è un poema, un esemplare, un'opera divina? Poema
tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza
azioni o con azioni soltanto di cadute, di passaggi, di
salite, di andate e di ritorni, e tanto peggio quanto più
avanti ne gite? Quattordici mille versi di tal sermoni, chi
può leggerli senza svenir d'affanno o di sonno? Quale idea
debbono aver della poesia que' giovani che si vedono a par
d'Omero e degli altri maestri lodar Dante, tanto da quelli
diverso?
SAVERIO BETTINELLI
10.
Qual passione maggiore e più nobile vorremmo noi cercare nel
suo poema (giacché si dice essere il suo poema privo di
passione), che quella veemente continua collera, e quell'invincibile
odio contro al vizio, e quel grande, insuperabile affetto
alla virtú, che per tutto ardono e risplendono in esso, e
l'animo de' leggitori or ad orrore, or a compassione, or a
sdegno, e talora a schernire i malfattori commovono? Anzi
non v'ha altro poema antico né moderno che faccia in te gli
effetti dell'epico, della tragedia, della satira, della
poesia lirica, o di quant'altre mai poesie fossero al mondo
inventate, quanto quel solo di Dante.
GASPARO GOZZI
11.
Dante può riguardarsi come il padre della nostra Lingua: ei
la trovò povera, incerta, fanciulla, e la lasciò adulta,
ricca, franca, poetica: scelse il fiore delle voci e dei
modi da tutti i dialetti e ne formò una Lingua comune che
rappresenterà un giorno fra tutti noi l'Unità Nazionale, e
la rappresentò in tutti questi secoli di divisione in faccia
alle nazioni straniere. Dante fu grande come poeta, grande
come pensatore, grande come politico ne' tempi suoi: grande
oltr'a tutti i grandi, perché, intendendo meglio d'ogni
altro la missione dell'uomo Italiano, riunì teorica e
pratica, potenza e virtú: - Pensiero ed Azione. Scrisse per
la Patria, congiurò per la Patria: trattò la penna e la
spada. Costante nell'Amore, adorò fino all'ultimo giorno la
memoria della donna che gl'insegnò prima ad amare.
Irremovibile nella Fede, patì miseria, esilio, persecuzioni,
né mai tradì la riverenza alla Patria, la dignità
dell'anima, la credenza ne' suoi principii. Le madri
Italiane un giorno ne trasmetteranno la vita, come
insegnamento, ai fanciulli Italiani.
GIUSEPPE MAZZINI
12.
Il merito sovrano di Dante è di essere stato il primo a
cogliere le potenziali bellezze della parola evangelica e ad
improntarle in una nuova lingua; onde il suo poema è
veramente la Bibbia umana del nuovo incivilimento, essendo,
per ragion di tempo e di pregio, il primo riverbero della
divina. La sua preminenza deriva obbiettivamente dal
principio di creazione, che, avendo trovato nel robusto
ingegno del gran poeta un terreno proporzionato, vi produsse
tali frutti di miracolo, cui la mente umana non potrà forse
uguagliare giammai. Da tal principio nasce l'ampiezza del
lavoro, cosmopolitico, anzi immenso ed eterno, quanto ai
confini, e veramente infinito, non di quella infinità
panteistica che nel discreto consiste, ma di quella che
emerge dal continuo, e importa la semplicità e l'ímmanenza;
enciclopedico e polistorico, perché abbraccia tutte le
specie di concetti, di fatti, di fenomeni, di cognizioni:
universale nella poesia, nell'eloquenza e nelle gentili
arti, come quello che è subbiettivo ed obbiettivo ad un
tempo, acchiude germinalmente le varie sorti dei parti
immaginativi, comprende i modelli ideali ed individuali in
cui s'incarnano tali lavori, e ha verso le altre maniere di
poesia e di facondia l'attinenza del genere verso le specie,
abbracciando potenzialmente le lettere avvenire e le arti
del mondo cristiano. Da ciò nasce che il lavoro di Dante,
propriamente parlando, non ha protagonista; o piú tosto il
suo protagonista è l'Idea, che ad ogni passo traluce sotto
il diafano velo delle imagini, e poeticamente s'impronta ed
incorpora nell'universo.
VINCENZO GIOBERTI. |