Introduzione alla poesia della
"Commedia"
Sono pagine felicemente riassuntive dei più sicuri risultati
raggiunti dalla critica dantesca nel delineare i caratteri
che distinguono ciascuna cantica della Commedia. Ma in esse
il critico immette altresí efficaci proposte e prospettive:
nell'Inferno. la voluta rappresentazione realistica del
peccato che trova il suo equilibrio nella presenza di grandi
e complessi esempi di umanità; nel Purgatorio, la tensione
verso la conoscenza e la nostalgica memoria del mondo
terreno; nel Paradiso, la prova suprema del linguaggio di
Dante nel conflitto con l'ineffabilità della visione.
Nella prima cantica si rappresenta il peccato nelle sue
rispettive pene. È l'umanità fermata allo stato bruto,
quando s'è fatta immemore della natura celeste da cui
proviene l'anima dei singoli individui. Sono qui raccolte e
distinte «le genti dolorose / c'hanno perduto il ben de
l'intelletto». L'Inferno impersona l'eternità negativa, il
male immortalato nel giudizio di Dio: e, pertanto, anch'esso
specchio della giustizia coeterna al creato.
L'Inferno per la sua stessa struttura risulta la cantica più
realistica del Poema. I peccatori e le pene hanno un'estrema
evidenza fisica. Si può dire che Dante rappresenti la realtà
intensificata, esasperata, come continuo oltraggio di se
stessa. In rapporto al grado del peccato e della pena, il
realismo dantesco s'accentua da un cerchio all'altro, a mano
a mano che si scende nel fondo dell'abisso. Il suo
atteggiamento, e con esso lo stile, si fa sempre più
spietato, impassibile, quasi sadico. Il suo linguaggio tocca
nell'Inferno le punte estreme del verismo. E' il trionfo
espressivo della fisicità, della corporeità, della carne
colpita, fustigata, strappata, dilaniata, snaturata, alla
fine congelata, inerte, spenta. L'umanità si fa pura
animalità, confina Nella natura vegetale e minerale.
Se Dante si fosse limitato a questa sola sceneggiatura
avrebbe espresso la più potente poesia realistica. Ma per
aumentare il contrasto e ribadire l'irreparabile perdizione
del peccato, Dante ha collocato in mezzo a questa materia in
disfacimento gigantesche individualità, che continuano a
conservare massicci retaggi d'umanità e saldi simulacri
spirituali. Esse s'innalzano dai loro tormenti ancora
intatte, con la propria esperienza precisa e lucidissima,
quasi a rivendicare la loro origine immortale, la loro
somiglianza all'effige divina. Può sembrare un controsenso,
ma nell'Inferno si sconta il peccato e insieme si celebra il
peccatore. Molte figure di dannati hanno una statura
esemplare e una tempra psichica di spessore granitico. Quel
che sorprende è che ciascuna d'esse (Francesca da Rimini,
Farinata degli Uberti, ser Brunetto Latini, Pier delle
Vigne, Ulisse, il conte Ugolino, ecc.) non è rappresentata
nell'atto del peccato e dell'errore, cioè nella sua interna
maledizione, bensí nel fiore della propria esperienza, al
colmo della vitalità; nell'acceso valore della coscienza. E,
tuttavia, anche questo è un monito: nessuno si salva, se il
peccato lo acceca, se l'errore lo trascina. Qualsiasi azione
della propria vita, anche se generosa e solenne (l'amore,
l'ardimento, il dolore, la pietà, la cortesia, ecc.), non
può compensare un costume di vizi, non può illuminare la
tenebre interiore. Questa legge assoluta, categorica,
imparziale ha una sua verità terrificante. Se Dante avesse
posto nella prima cantica soltanto gli esponenti del peccato
nel loro contegno spregevole, senza nessuna luce
d'intelletto, l'Inferno non avrebbe l'efficacia ammonitrice
che possiede. È la presenza di personalità come Francesca,
Farinata, ser Brunetto, Pier delle Vigne, Ulisse, il conte
Ugolino, che crea l'immensa disperazione dell'Inferno. E,
perciò, considerarli a parte, come rappresentanti di questa
o quella passione e vicenda, senza lo sfondo e la
prospettiva dell'intero Poema, è un grave errore critico.
Essi raffigurano al vivo e nell'urgenza della storia il
duplice destino dell'uomo, il suo bivio pitagorico nato per
le virtù ed esposto al peccato. Il terribile fascino che ne
discende, consiste, appunto, nell'esperienza bifronte degli
uomini: di non essere, cioè, né soltanto peccatori né
soltanto virtuosi, ma di nutrire dentro all'animo il vizio e
la qualità, la violenza e l'intelletto, il fato e la scelta,
la prigione e la libertà: e di non averne saputo riconoscere
la frontiera, di essere mancati al cimento dell'elezione, al
privilegio del libero arbitrio.
Nessuno ha intuito come Dante questa dialettica interna
dell'eticità umana. L'ammirazione che egli strappa al
lettore per la sostanza psicologica di siffatti
temperamenti, è forse l'impresa più audace e rischiosa della
sua fantasia. Solo a questa condizione, cioè nella
coesistenza del bene e del male, nell'incessante possibilità
della perdizione e della salvezza, Dante ha potuto
riprodurre la più vera dimora dell'uomo. La terribile
fatalità della sorte umana non è tanto nel vizio assoluto,
quanto in questa mistione di virtù e di peccato, nella sua
periclitante disponibilità. Per questi esemplari umani di
rara potenza intellettuale e psicologica, la prima cantica
acquista un significato disperato e irredimibile.
Con il Purgatorio si ritorna alla vita che è ancora un bene,
o piuttosto una possibilità di bene: là dove l'esperienza
corre su una pista che rasenta il male, e se ne contagia e
alla fine se ne riscatta. E' come camminare portando nel
cuore il segno della giusta meta senza tuttavia rinvenire le
strade che vi giungono direttamente. Fra le tre cantiche del
Poema, questa del Purgatorio rappresenta la più verace resa
della condizione umana. L'eccesso del peccato,
dell'arbitrio, dell'orgoglio individuale che materia
l'Inferno, dà già al vivere un senso abnorme, d'oltranza. La
maggior parte dei dannati sono degli «eroi» alla rovescia.
Ciascuno d'essi può essere assunto come fenomeno
d'aberrazione.
Viceversa, nelle anime del Purgatorio l'esistenza terrena è
già un ricordo che la sconta, una presenza che si va sempre
più redimendo e distanziando, una nostalgia di cose
intentate, di pensieri non formulati, di sentimenti
inespressi, di coscienze mancate o lacunose. È tutto ciò che
rende più vero il volto della vita. E questa non risulta più
come incontenibile e frenetica esplosione di forze
istintive, bensì come lenta, recondita e dolcissima
preparazione della personalità morale, come calvario di
ambizioni e disincanti, di affetti e di solitudini, di
programmi e di fallimenti, di fiducie e di smentite. Le
anime del Purgatorio esplicano una situazione che è la più
vicina al sentimento comune della vita e della realtà. Nella
concezione cristiana è la vita stessa un purgatorio. C'è di
essa, nella seconda cantica del Poema, la malinconia che
accompagna l'esperienza degli uomini, e quel suo progressivo
mutarsi in consapevolezza e in meditazione, e quel costante,
per quanto impercettibile, distacco e dileguo: e, tuttavia,
l'indimenticabile fascino ch'essa continua a esercitare, con
i suoi mille grandi e minimi vincoli che non è mai possibile
recidere interamente.
Il Poeta ha localizzato il Purgatorio nell'isola posta al di
là delle colonne d'Ercole, lungo le pendici e i balzi della
montagna che si eleva verso il cielo, massiccia e ardua, ma
già fuori del tempo. Eppure la sua vera topografia è dentro
l'animo di ciascun uomo che ad ogni istante della propria
esistenza sperimenta la lusinga e l'amarezza del vivere.
Nella Divina Commedia la geografia reale e quella ideale si
sovrappongono, anzi si rispecchiano l'una nell'altra. Dante
ha intuito il Purgatorio come la vita stessa che si fa
autocoscienza e responsabilità. E pertanto è la cantica che
ha due dimensioni. Per un verso, la vita è avviata verso la
conoscenza, il sapere, la cognizione di sé e delle leggi
dell'universo e, d'altro canto, è rappresentata come
nostalgia, rimembranza, rievocazione. Amore e dottrina sono
le due componenti dialettiche del Purgatorio e della vita
medesima.
E mentre l'Inferno era stato costruito sull'etica
aristotelica, il Purgatorio è ordinato secondo la teoria
cristiano-platonica dell'amore. Il primo si fonda
sull'incontinenza, la violenza e la malizia, che si
scatenano come forze brute e incontrollabili nel mondo
sotterraneo degl'individui, il secondo si articola nel
rapporto con l'amore elettivo, che può difettare o eccedere,
che s'inceppa o si svia. Dante sa che la sua presenza nel
mondo e nello spirito è essenziale e inalienabile: «Né
creator né creatura mai fu sanza amore».
Nessun poeta al pari di Dante ci dà il senso della realtà
spirituale che sembra creata esclusivamente dal potere
evocatore della parola. Forse il limite più delicato il
poeta lo raggiunge nel Purgatorio, che da questo punto di
vista rimane la cantica di tessitura più omogenea. È la
dimora dove le anime sono veramente ombre e le loro parvenze
hanno una profondità vaneggiante: in bilico fra terra e
cielo, fra dolore e attesa, con il corpo pesante e
imprigionato nella pena e l'anima che si è fatta già leggera
e pregusta, ogni attimo di più, la propria libertà eterna.
Una rappresentazione, questa, che sembra irrealizzabile,
tanto è costituita da un'intima contraddizione: per cui le
cose, le figure, !e memorie, tutto il passato deve essere
presente e insieme dileguante, vivo e impellente, ma nel
contempo scontato e come pretermesso, e la coscienza
degl'individui deve conservare la propria qualità
distintiva, ancora immanente, e nello stesso tempo deve
spersonalizzarsi e sentirsi solidale con il popolo immenso
degli altri ed educare all'interno di sé i pensieri e le
brame e le ansie comuni. Basterebbe a rendere ineguagliabile
la scrittura dantesca questa sua capacità à creare climi
morali ed esistenziali di qualità assoluta.
La terza cantica trova la sua, prima emozione lirica nella
stessa premessa dell'insufficienza espressiva del Poeta. Il
Paradiso non si può rappresentare, è ineffabile. È possibile
intuirlo nel colmo della fede, come mistica aspirazione, ma
la sua realtà è sovrasensibile, esclude la comprensione e la
raffigurazione. Il Poeta è qui chiamato a sceneggiare la
trascendenza divina e l'ineffabilità dei suoi misteri. Ma
com'è possibile figurarla nei termini del linguaggio umano
se essa per definizione ne è il superamento e la
sublimazione? In questa antinomia risiede la fondamentale
difficoltà e insieme la qualità linguistica della terza
cantica. Al Poeta toccherà esprimere l'incomunicabile.
L'impresa dello stile che ora Dante progetta sembra assurda,
è al di fuori d'ogni realizzazione. Perché non appena
l'intelletto e la parola presumeranno di descrivere il
Paradiso e di ridurlo in termini espositivi, il Paradiso
stesso cesserà di fruire della sua natura trascendente,
sovrumana, misteriosa. Al Poeta resterà questo compito: non
già di rappresentare il Paradiso nella sua inattingibile
verità, ma di farne intravedere l'intatta eternità e
l'immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la
parola dell'uomo. Il nodo lirico del Paradiso e del suo
linguaggio consiste nell'esprimere questa situazione, che
prima di essere stilistica è morale: cioè, l'interna
intuizione del Paradiso come simulacro esemplare dell'anima,
e, nello stesso tempo, la struggente incapacità a
raffigurarne realmente l'essenza.
Nel Paradiso è la stessa realtà che dovrebbe risultare
abolita o superata. Il Poeta si trova, pertanto, al limite
del reale. Immateriale, invisibile, assolutamente mistico;
il Paradiso è il regno della pura intuizione, che si
realizza unicamente nei silenzi incommensurabili ed
essenziali dello spirito: «Lí si
vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per
sé noto / a guisa del ver primo che l'uom crede».
Questo dramma stilistico è forse la componente piú lirica
della terza cantica. Rimane il mistero di ciò che si è
contemplato nell'interiorità spirituale: «...
e vidi cose che ridire / né sa né può
chi di lassú discende». Perché accostarsi al
Paradiso e alla sua visione equivale ad uscire dalla natura
umana e rompere l'involucro dei sensi: «trasumanar
significar per verba / non si poría». Infatti il
trapasso dal mondo terreno è istantaneo, fulmineo: «Tu
non s'e 'n terra, sí come tu credi: / ma folgore, fuggendo
il proprio sito, / non corse come tu ch'ad esso riedi».
Il cimento espressivo è strenuo, estremo, al limite delle
possibilità del linguaggio. È già mirabile la poesia del
primo canto del Paradiso per la folgorante rapidità con cui
questa terza fase dell'itinerario dantesco è giustificata
nell'ordine divino dell'universo, per il quale tutte le
creature umane «c'hanno intelletto
ed amore» si muovono secondo le loro essenziali
disposizioni: «Ne l'ordine ch'io
dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più
al principio loro e men vicino: / onde si movono a diversi
porti / per lo gran mar de l'essere, e ciascuna / con
istinto a lei dato che la porti».
La disposizione strutturale del Paradiso è analogica a
quella dell'Inferno e del Purgatorio. Le anime dei beati
portano anch'esse il segno della loro biografia terrena. Per
quanto trasfigurata dalla fruizione di Dio, ciascuna serba
il proprio volto. Questa è la prova. più sorprendente della
fantasia dantesca, che anche nel Paradiso trasferisce la
memoria individuale degli spiriti. Ed era anche presumibile:
perché ciascuno si fa degno della beatitudine eterna
attraverso la personale liberazione dalla propria esperienza
terrena. Nel Paradiso è restaurato il valore della vita,
anzi più fortemente che nello stesso Inferno e nello stesso
Purgatorio, dove le anime risultano quasi imprigionate nella
loro memoria autobiografica. Ed anche nel Paradiso gli
spiriti osservano una gerarchia, che, al pari dell'Inferno e
del Purgatorio, li distingue nell'istante irripetibile della
loro individualità, ma li accomuna alla sorte generale. Un
coro immenso di cui si percepiscono le singole voci.
E di fronte all'angustia terrestre dei primi due regni, il
Paradiso si dispone nella prospettiva delle sfere celesti,
occupando l'intero sistema planetario: paesaggi immacolati e
senza limiti, il cui linguaggio è luce e moto, musica e
coro, ordine e armonia. Il Paradiso s'identifica con il
firmamento, si converte nell'universo: partecipa
dell'infinita presenza di Dio nel cosmo. E, pertanto, il
viaggio di Dante si sviluppa nella successione ascensionale
dello zodiaco, dal cielo della luna fino all'Empireo, dove
fiorisce la candida rosa dei beati. Qui sono tutte le anime
del Paradiso, raccolte nel mistico fiore, in un unico
consesso, di cui nei singoli cieli Dante ha conosciuto le
postille, le loro trasparenze individuali. Ma ora tutte
concorrono al trionfo supremo e inesauribile di Dio, che
Dante concepisce in un'essenza totale, illimite,
inattingibile. Forse questa di Dante è la concezione più
austera della divinità unica e incommensurabile, universa e
inestimabile. Il Poeta l'ha resa nella sua più sgomenta
profondità, nel suo mistero insondabile. |