IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: DANTE

Il paesaggio del purgatorio


La fine dell' «Inferno» e il principio del «Purgatorio», anche come motivo paesistico, sono una cosa sola. Dal ruscelletto all'agile ascesa su per le ultime viscere della nera terra, a quel pezzo di cielo - «le cose belle» - che si schiude sul tenebroso foro, alla tranquilla immensità della volta stellata e del mare, il tema è uno, solenne come un sorger di sole. La serenità si allarga via via, nella rappresentazione della notte che tramonta, dell'alba che fa tremolar di lontano la marina, del sole che saetta oramai da tutte le parti il giorno. Quella solitudine sconfinata e indisturbata sale come una musica sommessa su dalle pagine del poema, canta e dipinge la serenità nuova dell'anima, che move fiduciosa verso una nuova vita.
La maggior intimità del «Purgatorio» in confronto con l'«Inferno incomincia proprio con questa scena di isola che emerge silenziosa dal mare e dal cielo, con la pittura appena sfumata di questa contrada remota, dove l'aspetto del suolo - uniforme, senza lussuria di vegetazione e senza accidenti che distraggano e allettino - e i confini sterminati ed uguali dell'acqua e del cielo invitano al raccoglimento e sembrano già la prefigurazione d'un mondo immateriale. Sempre possiamo dire che il paesaggio dei tre regni è il paesaggio stesso dell'anima di Dante: ma nelle tenebre dell'inferno c'è, sostanzialmente, meno novità e meno intimità; e la luce del paradiso è, sì, uno spettacolo d'infinita letizia, ma è anch'essa meno intima del monte del purgatorio, dove tutto ci richiama senza posa all'anima che si scruta e si riconosce. Il viaggio su per il purgatorio è continuamente infuso di una malinconia fiduciosa che nasce dal tema stesso di questa cantica: e i particolari di quel cammino lungo strade deserte e su per le salite faticose, in cospetto sempre del cielo, hanno una poesia spirituale superiore ai paesaggi, più pittoreschi e meno intimi, dell'inferno e del paradiso. Conseguenza anche questa della materia stessa. Gli spettacoli tenebrosi dell'inferno sono la naturale continuazione della selva scura in cui Dante s'accorge di essersi smarrito; ma quello che di intimo e di personale c'era nella selva, non poteva più esserci nella stessa misura dentro l'inferno. Nello stesso modo, il paradiso assume in confronto con il purgatorio un aspetto più pittoresco, più esteriore: come se la graduazione del paradiso fosse più di luce che di beatitudine.

L'orizzonte del primo canto del « Purgatorio » ha una vastità nuova in confronto con l'angustia dell'inferno: e anche questa vastità, come il riposo che spira dal mare e dal cielo, induce il lettore in uno stato d'animo insolito. E come se si allargasse insieme l'orizzonte dello spirito, e il pensiero vi spaziasse più liberamente. Sotto questo cielo, Virgilio può dire di Dante: « Libertà va cercando »; e designare Dante vivo con il verso « Questi non vide mai l'ultima sera », che nella selva selvaggia sarebbe troppo pieno di luce e di speranza. In questo regno che sorge in mezzo ad un indisturbato silenzio, anche le incertezze e gli smarrimenti hanno un significato diverso. La strada si cerca senza ansie e senza spaventi:

 
  Noi andavam per lo solingo piano
com'om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire invano.
 

Un sospiro muto, un'aspirazione accompagna quest'attesa lungo la spiaggia deserta; e chi cerca la strada non è più il corpo minacciato dagli uncini dei diavoli o dai precipizi, ma l'anima.
Atmosfera e sentimenti mutano insieme: un senso d'aria libera e d'orizzonte sgombro allarga il respiro dei primi due canti, calma improvvisamente il ritmo spirituale del viaggio di Dante, dà alle prime schiere di purganti una fisionomia riposata:

 
  La turba che rimase li, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia:
 

sentite un osservare tranquillo, che non sarebbe possibile nell'Inferno dove le linee del paesaggio sono nascoste e come soffocate nelle tenebre.
E tutto - scene, personaggi, affetti - sembra nascere oramai da quel luogo uniforme e solitario in mezzo al mare e al cielo immenso.
L'atmosfera che circonda i pellegrini e le anime è diversa, e questa diversità è un elemento costante di questa nuova poesia. L'Inferno pare senza spazio; il « Purgatorio » pare tutto spazio. 1 personaggi del primo risultano sullo sfondo e vi spadroneggiano, come gruppi di figure tumultuanti in un sotterraneo angusto; quelli del secondo sfumano nello sfondo, come isole lontane nel mare tranquillo.
Comincia l'ascesa del monte:

 
  Tra Lerici e Turbìa, la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
 

La fatica è molta; ma su quest'impressione un'altra domina sovrana: la solitudine, un improvviso silenzio. Poco dopo:

 
  Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su Bismantova in cacume... ;
 

e poi:
  restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti
 

In questi altri canti al deserto della spiaggia succede il deserto della montagna; il mare non è ancora dimenticato: dall'alto lo sguardo vi corre àncora, e il ricordo del silenzio marino accresce il silenzio del monte « Li occhi prima drizzai a' bassi liti... ». La poesia, di apparenze descrittive, si mantiene fortemente spirituale. Potete pensare a due pellegrini che salgono per un'erta rupestre, avendo davanti a sé il mare, sempre più basso e lontano: ma quel silenzio che vi accompagna, vi mantiene in uno stato meditativo; e la fatica ha una meta che, in tanto raccoglimento, sembra più ideale che materiale: « Lo sommo er'alto che vincea la vista ». Ogni ora che passa nel purgatorio, ha il suo significato, contribuisce a rasserenare e ad elevare il protagonista: ogni ora, cioè non solo gli avvenimenti che la misurano, ma anche essa stessa, con la luce che aumenta e scema, con l'ombra dei luoghi che s'accorcia o s'allunga. La maestà della terra, a cui è legata ogni ora della nostra vita, da cui si colora ogni pensiero ogni sentimento della nostra esistenza, ritorna, dopo l'atroce assenza dell'inferno: e si direbbe che Dante se ne ricordi con un senso tanto più presente e più sacro, quanto più quel non poter misurare il tempo sugli aspetti dell'universo lo aveva soffocato e disumanato. Ma c'è di più: nel purgatorio albe, meriggi, e tramonti, notti sono già più belli e più solenni che nella terra; le ore che trapassano sul purgatorio, sono più sante.

 
  E già 'l poeta innanzi mi saliva, e dicea:
« Vienne omai: vedi ch'è tòcco meridian dal sole ed a la riva
cuopre la Notte già col piè Morrocco ».
 

Chi ha a mente il contesto deve pensare che Dante non descriverebbe con un tono così alto un mezzogiorno, un tramonto, un'aurora della terra. Le ore del purgatorio hanno un valore diverso: si sente che ognuna conta, ognuna pesa nella storia eterna dell'anima.
Siamo lontani dalla terra; e questo non si avverte solo per qualche verso isolato, in cui Dante sembra avere più immediato il senso della prodigiosa distanza che lo separa dalla scena della vita - «Deh, quando tu sarai tornato al mondo, E riposato de la lunga via »; « Quando sarai di là da le larghe onde »; « Vespero è già colà dov'è sepolto Lo corpo dentro al quale io facea ombra »: com'è remoto il sepolcro di Virgilio! - Si avverte per una ragione più forte : tutte le ore del purgatorio sembrano segnate sopra una meridiana che porti scritto in fronte un austero insegnamento. La luce che s'alza, l'ombra che sopraggiunge, non mutano soltanto l'aspetto del monte e del cielo: la bellezza dell'ora che passa è più morale che materiale: « Fugit irrevocabile tempus ». Mentre Dante guarda la curva del sole, la sua parola solenne tradisce il senso dell'eterno verso cui confluisce ogni ora.

Il tramonto del purgatorio è una cosa diversa da quello della terra. Dante ne ha fatto, senz'ombra di riflessioni, una melodia di raccoglimento e di fiducioso abbandono. Dentro il silenzio e le ombre che scendono, l'anima si ripiega su se stessa: e Dante non ha bisogno di dire cosa essa pensi e senta. Già nel canto settimo si alza questa nota grave e solitaria, che diventerà sinfonia nel principio del canto ottavo e nella scena della preghiera:

 
  Ma vedi già come dichina 'l giorno...
Anime sono a destra qua remote...
 

Sola questa riga

 
  non varcheresti dopo 'l sol partito ...
...Mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso.
 

La legge, spiegata da Sordello, che di notte non si può salire nel purgatorio, non fa impressione per sé, ma per quest'ombra che le parole di Sordello diffondono, perché sembra che il passo del pellegrino s'arresti, avviluppato nel misterioso impedimento delle tenebre che già sommergono il monte.

Il canto settimo e l'ottavo segnano un momento d'arresto nel R Purgatorio ». La fatica del salire è sospesa: e, apparentemente, nulla la sostituisce; si pensa che il motivo della cantica sia interrotto. Invece quei due canti sono una lunga sosta contemplativa. Alla loro fisionomia non importano, o importano poco, la descrizione dei principi e l'incontro con Nino e Corrado: importano invece molto quello sfondo di sera che cade e di stelle che spuntano, e quell'oscura ma affascinante scena degli angeli che fugano il serpente. Quella sera è piena di abbandono e di fede e per un'irresistibile illusione l'anima che leva le palme ed alza la preghiera fissando gli occhi verso l'oriente ci pare già un angelo, e le anime che le si uniscono in coro tenendo sempre gli occhi « a le superne rote » ci paiono già un coro del paradiso. Calano due veri angeli in attesa del serpente; Sordello, Virgilio e Dante scendono nella valletta, e al poeta si fa incontro Nino, l'amico amatissimo; Nino gli si raccomanda: Dante ascolta affettuosamente; ma i suoi occhi stan sempre fissi al cielo: le quattro stelle del mattino sono tramontate, tre altre al loro posto splendono. I commentatori dicono: - Le stelle che rappresentano le virtù cardinali, le virtù della vita attiva, sono apparse allo spuntar del giorno, che è il tempo di operare; quelle che rappresentano le virtù teologali, spuntano quando viene la notte, quando è tempo di meditare. - È vero ma noi non abbiamo bisogno di saperlo per sentire la solennità di quella notte, l'attrazione del cielo stellato sul pellegrino sacro. Dante, se anche non parla di sé, è in tutto questo canto in un atteggiamento contemplativo a cui lo inducono naturalmente la luce che scema nel silenzio e le stelle che si accendono in alto. In questo canto, più che in altri del « Purgatorio », la poesia viene dal cielo, da un cielo che infonde in chi lo guarda una religiosità più grave che quella della terra: non ci meraviglia che da esso scendano gli angeli che difendono la valle dalla mala striscia...

Quello che avviene nel primo giorno, si ripete nel secondo. Sempre quella contemplativa attenzione alle vicende del cielo e agli astri che accompagnano il viaggio e ne accrescono la grandiosità solitaria - il sole è alto (IX, 43-45), il corno pallido, della luna si nasconde di là dell'orizzonte (X, z3-z5), rispuntano le prime stelle e di nuovo la capacità di salire si arresta misteriosamente e solennemente (XVII, 73-78) e ritornano il magico sonno e il magico sogno (XVIII, 76-77, 139-i45; XIX, -33) -. Ma questa volta il sonno spunta in un'atmosfera dove l'in canto è più forte. È notte alta: Dante e Virgilio, sulla soglia del quarto girone, hanno passato alcune ore discutendo intorno alla natura dell'amore che è il principio di ogni virtù e di ogni vizio; Virgilio ha finito di chiarire i dubbi di Dante; la luna, salendo all'orizzonte, fa impallidire le stelle: Dante è preso dal sonno. Mentre sta per addormentarsi, sopraggiunge una schiera di accidiosi, e Dante riapre gli occhi; ma quando essa è scomparsa, il sonno lo riprende:

 
  Poi quando fuor da noi tanto divise
quell'ombre, che veder più non potersi,
novo pensiero dentro a me si mise;
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto d'uno in altro. vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e 'l pensamento in sogno trasmutai.
 

Il canto seguente, il XIX, s'inizia con una descrizione astronomica e geomantica dell'alba. Su questo sfondo è naturale che si apra un altro sogno miracoloso: quello della femmina balba, guercia e storta. La preparazione di questo sogno è più lunga del primo; si può dire che essa comprenda tutto il canto XVII e il XVIII: il passo che s'arresta con il calar del sole, quei ragionamenti gravi sul monte deserto e sotto le stelle, quel sorger di luna - così spazieggiato e sottolineato a mezzo il canto, che dà il senso della notte giunta al suo colmo, del silenzio dell'universo, del cielo che corre intorno alla terra trascinando nella sua corsa gli astri:

 
  La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com'un secchion che tutto arda;
e correa contra 'l ciel...
 

In questi canti sembra che il sonno discenda dal cielo. Nel purgatorio il sole diviene veramente, come Dante aveva invano sperato nella selva selvaggia, « il pianeta Che mena dritto altrui per ogni calle »la norma del suo viaggio; e gli astri della notte sono le scolte che vigilano il suo sonno e gli piovono nella mente assopita le immagini del cani, mino che ancora lo attende.
Quello che avviene il secondo giorno, si ripete ancora nel terzo. Ma la notte del terzo giorno è l'ultima di quelle che Dante passa nel purgatorio: e il lettore già prima di saperlo avverte nella descrizione delle tenebre che avvolgono l'orizzonte, nell'assopimento profondo, nella veglia di Virgilio e di Stazio accanto al pellegrino sacro che dorme, nello splendore più ampio delle stelle, nel sogno sereno, nell'alba sterminata e trionfante come oricalchi di vittoria:

 
  - E già per li splendori antelucani,
che tanto a' peregrin surgon più grati,
quando, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutt'i lati... -
 

un respiro più largo, un'anima nuova, il senso della meta vicina.

Dopo questa notte di vigilia, dominata da tanto silenzio contemplativo, viene il giorno che Dante mette piede nel paradiso terrestre e su quel giorno non cala più la sera. Giorno e notte si sono alternati nell'inferno e nel purgatorio: ma dal paradiso terrestre all'empireo non c'è più che un varco infinito di luce. Immaginare che anche sul regno dove Dio domina solo, discendano le tenebre della notte, non si potrebbe. Dante domanda alla sua esperienza terrestre di contemplatore di notti stellate e di stelle che impallidiscono sotto la luna d'argento un raggio per illuminare agli occhi dei lettori inesperti la visione che ha goduto ascendendo via via in cieli sempre più vasti: ma toglie - senz'avvedersene - alle nostre notti terrene l'ombra che ne avvolge le luci lontane, e fa risplendere gli astri in un cielo incandescente ignoto ai nostri occhi mortali.

Attilio Momigliano

© 2009 - Luigi De Bellis