La rima nella
Divina commedia
Dante sovra gli altri poeti « com'aquila vola »; che mentre
negli uni il disegno predomina sul colore e il pensiero
quasi si ribella alle esigenze della forma, e negli altri,
come l'Hugo, altamente poetica e colorita è l'espressione,
ma difettoso il disegno e scarso il contenuto, egli invece
con la nettezza della linea e colla profondità del pensiero
e del sentimento accoppia le più potenti facoltà
dell'immaginazione, creatrice non solo d'una architettura
solida e severa, di situazioni e di caratteri, ma delle più
vigorose e originali espressioni, delle più plastiche e più
luminose imagini, che sieno scaturite da mente umana. La
potenza inventiva della frase è in Dante senza confini, ed è
essa la grande produttrice di rime; ma dalla rima attinge a
sua volta continuamente nuova materia e nuovi impulsi,
cosicché è fra loro un incessante dare e ricevere. Che la
rima non traesse mai Dante a dire quello che non voleva,
potremmo credere anche senza l'antico commentatore; poiché
veramente il suo pensiero « sta come torre fermo », ma dal
nudo tronco di esso germogliano in copia e foglie e fiori,
che lo rivestono, senza nasconderlo mai. Chi ci dirà dove la
rima gli abbia suggerito l'imagine, o dove da questa sia
sgorgata la rima? Certo anche in Dante, come in qualunque
poeta, la parola usata in rima è usata per la rima, giacché
solo di rado avviene che la parola necessaria cada
naturalmente proprio là dove dovrebbe; ma le cose,
interrogate dal suo cuore o dal suo pensiero, rispondono con
una varietà immensa di suoni, e fra questi ve n'è sempre
uno, che rende, con mirabile felicità, l'eco voluta. Egli
vede e sente per imagini, e anche una semplice parola e
anche il pensiero più astruso o più impalpabile e il
ragionamento più astratto assume subito nella sua mente una
forma concreta di cosa sottoposta ai sensi, e, per
esprimerci al modo antico, s'incarna; o parli dell'anima
beata, che potendo negare all'altrui sete «il vin della sua
fiala», cioè potendo rifiutarsi di compiacere a giusto
desiderio,
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in
libertà non fora,
Se non com'acqua che al mar non si cala, |
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o del
raggio riflesso che si parte dal «raggio primo» e risale in
su,
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Pur
come peregrin che tornar vuole, |
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o del corpo
solido della luna che accoglie in sé un altro corpo,
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com'acqua recepe
Raggio di luce, permanendo unita, |
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(dove la
felicità dell'imagine è tale, che c'illudiamo di comprendere
quello che è per sua natura incomprensibile); o ragioni
infine degli errori a cui l'uomo va incontro, giudicando
senza maturo consiglio:
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Non
sien le genti ancor troppo sicure
A giudicar, sì come quei che stima
Le biade in campo, pria che sien mature,
Ch'io ho veduto tutto il verno prima
Il prun mostrarsi rigido e feroce,
Poscia portar la rosa in sulla cima,
E legno vidi già dritto e veloce
Correr lo mar per tutto suo cammino,
Perire al fine all'entrar della foce. |
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E che
larghezza di movimento, che pienezza e che esuberanza di
accordi! Chi non ricorda il principio del ventesimo canto
del Paradiso, il sole, «colui che tutto il mondo alluma»,
che diventa una persona viva, il giorno «che d'ogni parte si
consuma», quasi nello struggimento dell'abbandono, l'aquila
«il segno del mondo e de' suoi duci», espressione così larga
e solenne, e l'amore «che s'ammanta di riso», e le anime,
divini flauti, «c'avieno spirto sol di pensier santi», e il
torrente d'imagini che segue?
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Poscia che i cari e lucidi lapilli,
Ond'io vidi ingemmato il sesto lume,
Poser silenzio agli angelici squilli,
Udir mi parve un mormorar di fiume,
Che scende chiaro giù di pietra in pietra,
Mostrando l'ubertà del suo cacume.
E come suono al collo della cetra
Prende sua forma, e sì come al pertugio
Della sampogna vento che penetra,
Così, rimosso d'aspettare indugio,
Quel mormorar dell'aquila salissi
Su per lo collo, come fosse bugio. |
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Rapide,
plastiche e luminose, tutte le frasi sono segnate
dell'interna stampa di Dante, l'ubertà del cacume, il suono
che prende sua forma al collo della cetra; e ci mostrano
fuse in indissolubile accordo la potenza fantastica e la
potenza creatrice della rima.
E così sempre le imagini di Dante, o sia quella del villano,
che
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Come la mosca cede alla zanzara,
Vede lucciole giù per la vallea,
Forse colà dove vendemmia ed ara, |
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o quella
notissima del tizzo,
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che
arde dall'uno dei capi e
dall'altro geme
E cigola per vento che va via, |
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o quella
della carta, che abbrucia:
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Come procede innanzi dall'ardore
Per lo papiro suso un color bruno,
Che non è nero ancora e il bianco muore, |
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o quella
dei beati, che si soffermano dalla danza, per attendere le
nuove note:
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Donne mi parver, non da ballo sciolte,
Ma che s'arrestin tacite, ascoltando
Fin che le nuove note hanno ricolte, |
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o anche
quella, pur adoperata innanzi a lui, della fronda
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che
flette la cima
Nel transito del vento, e poi si leva
Per la propria virtù che la sublima, |
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o cento e
cento altre. La rima scaturisce insieme coll'espressione
nuova ed immortale, e la visione dantesca, nella sua
incredibile intensità, si fissa senza sforzo apparente, in
modo immediato, nella parola, con frasi di maravigliosa
evidenza, come geme e cigola per vento che va via, oppure
che non è nero ancora e il bianco muore, e con vocaboli,
anche se non nuovi, ripieni d'un'anima nuova e impressi
d'indelebile suggello, come da ballo sciolte, e le note
ricolte, e quell'incomparabile ardore. L'imagine della
fronda non è nuova, di certo; ma l'ultimo verso della
terzina, che pur si direbbe suggerito dalla rima, balza ad
un tratto dall'anima fiera di Dante, e fa della povera
fronda inanimata, esposta ai capricci del vento, un essere
vivo, che tende con irresistibile forza verso l'alto.
E si noti. La padronanza assoluta, che Dante ha della rima,
si manifesta pure nel confronto delle immagini col loro
contesto; giacché esse non sono mai un puro ornamento, ma
piuttosto una determinazione e un'illustrazione del
pensiero, o fanno parte del ragionamento, che ora conducono
più in là del punto di partenza, ora forniscono di nuovi
addentellati, per procedere più oltre. Come nei globi di
fuoco, che sfavillano e danzano davanti al poeta per gli
spazi dei cieli, si nascondono le anime dei beati, così nel
fulgore delle imagini dantesche è sempre racchiuso il
pensiero, del quale sono come la luce naturale. E questo è
vero anche nei pochi casi, in cui possiamo tenerci sicuri,
che furono suggerite direttamente dalla rima. Quando Dante
narra della seconda gerarchia angelica, che gira cantando
intorno al punto luminoso, simbolo e segno della Divinità,
dalla rima voglia scaturisce la comparazione del ternaro
degli angeli con un albero, che germoglia in mezzo ad
un'eterna primavera:
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L'altro ternaro, che così germoglia
In questa primavera sempiterna,
Che notturno Ariete non dispoglia,
Perpetualemente Osanna sverna
Con tre melode. . . |
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L'imagine
riesce alquanto inattesa, e non sgorga necessariamente dal
contesto né illustra o continua il pensiero fondamentale, ma
si svolge, per così dire, a fianco di esso, lumeggiando
particolari, ai quali l'attenzione non si sarebbe rivolta. E
tuttavia non è ridondante, poiché ad un tratto codesti
particolari si confondono nell'insieme, facendo lampeggiare
d'un riso primaverile tutta la scena; e il terzo verso « Che
notturno Ariete non dispoglia >, è uno dei più bei versi di
Dante, compie in noi la visione, coll'evocazione magica
della notte e il confronto della primavera terrena.
A chi legga l'Ariosto, poeta di così fluido e tosi florido
verso, può facilmente accadere, che da una rima indovini
quale sarà la rima e la frase del verso corrispondente; in
Dante invece, quando non è rara o inaspettata la rima, rara
e inaspettata è l'imagine. Un illustre critico francese, il
Brunetière, ha recentemente ricordato un motto del
Fontanelle, singolare pel tempo in cui fu pronunciato: « (la
rime) est d'autant plus parfaite que les deux mots qui la
forment sont plus étonnés de se trouver ensemble n. Di
codesti vocaboli, stupiti di farsi così tuona compagnia, ve
n'è in Dante un gran numero, e tutti ricordano, quasi direi,
come preziosità tecniche, «Del no per li danar vi si fa ita»,
o la singolare terzina:
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Vedrassi al Ciotto di Gerusalemme
Segnata con un I la sua bontate,
Quando il contrario segnerà un emme |
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o l'ardita
immagine:
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Vidi moversi un altro roteando,
E letizia era ferza del paleo. |
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Ma se è
rima preziosa cruna, nei versi dove il poeta narra del suo
incontro con Brunetto Latini, meno preziose sono forse,
considerate nel loro contesto, sera e runa, pur tosi comuni
per sé stesse?
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incontrammo d'anime una schiera,
Che venia lungo (argine, e ciascuna
Ci riguardava, come suol da sera
Guardar l'un l'altro sotto nuova luna,
E si ver noi aguzzavan le ciglia,
Come vecchio sartor fa nelle cruna. |
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O la rima
nodo d'una terzina del Paradiso, sebbene così ovvia che
sarebbe balenata anche al più infelice dei rimatori, è forse
meno nuova, quando fiorisce in un 'immagine, strettamente
legata coll'insieme e di singolare evidenza?
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Se
li tuoi diti non sono a tal nodo
Sufficienti, non è maraviglia,
Tanto, per non tentare, è fatto sodo. |
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La
ricchezza della rima non consiste, come spesso vogliono i
tecnici, nelle novità del vocabolo, o nelle consonanti
d'appoggio e nel maggior numero degli elementi, che si
corrispondono; tutto ciò contribuisce naturalmente
all'eleganza e alla robustezza del verso, ma non è in fondo
che qualcosa di materiale e d'esteriore, la cornice del
quadro, alla quale possiamo attribuire più o meno grande
importanza, secondo i nostri gusti e secondo le tendenze del
momento. Ma la vera ricchezza, che sfida le rivoluzioni del
gusto e dei tempi, è tutta interiore, e si confonde col
contenuto ideale del vocabolo e della frase in rima. Senza
dubbio, quanto più vario e pieno è il contenuto, più vari,
più numerosi, più nuovi riescono necessariamente i vocaboli
che lo esprimono; ma non conviene riguardar come principale
quello che è secondario, secondoché hanno fatto,
specialmente in Francia, le moderne scuole poetiche, né come
uno scopo o almeno non come il più alto scopo da raggiungere
quella ricchezza esteriore, che dev'essere un efetto
spontaneo della potenza imagin ativa. |