IL
LINGUAGGIO DEL FOGAZZARO
Non altrettanto si potrebbe dire del Fogazzaro, che fra
i due esempi insigni del Manzoni e del Verga, esempi non
solo di due personalità poetiche, ma di due momenti
singolarmente importanti della storia della nostra
lingua letteraria, meglio rivela, se non m'inganno, una
intrinseca incertezza, che si fa palese ad un esame
anche sommario della sua lingua, anzi di qualcuna
soltanto delle sue caratteristiche. Basti per tutte
ricordare le battute dialettali che così frequenti
ricorrono nei suoi romanzi, non già che esse siano
difettose per l'uso del dialetto (uno scrittore può
attingere alle diverse tradizioni linguistiche che gli
stanno innanzi fino al caso estremo del maccheronico),
ma perché fan spicco nel contesto, e attirando su di sé
per la loro singolarità l'attenzione del lettore,
esauriscono la loro efficacia in questo troppo facile
effetto: rimangono, in una parola, «battute dialettali»,
non diventano un elemento fuso con gli altri della
lingua fogazzariana. Sono, ad esempio, artisticamente
immotivate e mirano evidentemente ad una
caratterizzazione del personaggio, non altrimenti
riuscita, le parole in dialetto piemontese di quel prete
che aveva prestato a Franco la Summa di San Tommaso,
invano tentando di avviarlo allo studio della teologia:
«Ca s'araccómmanda al Sgnour e sperouma ca fassa Chiel».
Talora anzi diremmo, se l'accostamento non sembrasse
poco rispettoso, che il romanziere dimostri un gusto
assai simile a quello del suo Pasotti, che si compiaceva
per divertire i commensali di rifare caricaturalmente la
parlata veneta di un personaggio: ma anche se non si
risolvono in una caricatura tutta esteriore, le battute
in dialetto, e così l'insistenza su qualche difetto
fisico o tic di un personaggio, vengono sempre a svelare
una scoperta ricerca di effetto, un'attenzione volta se
non all'estrinseco al particolare singolo, curioso o
dilettevole, con risultati che non vanno, nei casi
felici, al di là di una vivacità bozzettistica. Perciò
assai opportunamente il Donadoni si è soffermato su
questo aspetto dell'arte fogazzariana, riconoscendovi
uno dei segni della sua debolezza, e felicemente, anche
se il suo giudizio non vorrebbe essere negativo, il
Devoto ha parlato del valore di «illustrazione» proprio
di queste battute in dialetto, «illustrazioni che non
sono fotografie ma provengono da una specie di discoteca
dialettale o paradialettale». Il che vale ad indicare
per noi non tanto «l'evasione da un istituto
linguistico» quanto un'evasione, se così vogliamo
chiamarla, da un serio e coerente impegno d'arte: ché
certo è proprio del Fogazzaro, come finemente ha
rivelato ancora il Devoto, un interesse per quel che è
di particolare e di peculiare nel suo mondo, evocato con
nomi e voci locali, ma, se per questo, lontano dal
Manzoni, partecipa al gusto della sua età, egli tende,
come ci avvertono i suoi passi in dialetto, alle
soluzioni più facili, alla illustrazione e non alla
rappresentazione, alla giustapposizione di elementi
diversi che possono dilettare con la loro varietà il
lettore, ma a cui manca una interiore coesione. E i
dialetto nella prosa fogazzariana ci par degno
d'attenzione, perché l'atteggiamento dello scrittore,
che ci è palesato in quei passi, è poi il medesimo di
tutte le altre pagine, anche delle più patetiche e
solenni, un atteggiamento, mi si permetta la parola, di
fondamentale dilettantismo. Altrettanto dilettantesca è
ad esempio la pagina in cui una voce (col V maiuscolo)
annuncia a Luisa la sua nuova maternità con parole tutte
enfasi melodrammatica: e come attinge alla sua discoteca
dialettale (ma almeno qui egli sembra più padrone della
sua lingua), così lo scrittore attinge per i momenti e
le situazioni «tragiche» al repertorio di tutte le frasi
fatte, senza preoccuparsi di saggiarne la consistenza e
di risolverle in un discorso suo, riuscendo ad un
linguaggio sempre provvisorio e approssimativo e troppe
volte stonato sino alla volgarità. Vien fatto di
chiedersi leggendo oggi i suoi romanzi, che ci offrono
in ogni pagina testimonianze così vistose di un'assoluta
insensibilità linguistica, come egli abbia potuto essere
per tanto tempo considerato uno dei maggiori artisti
nostri dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento, non
soltanto da una vasta cerchia di lettori ma anche da
critici assai fini, i quali, quand'erano più severi, pur
facevano un'eccezione almeno per Piccolo mondo antico.
Non è qui il luogo per un saggio critico su Fogazzaro
(noi lo abbiamo già del resto nel libro del Donadoni,
appassionata disamina dello scrittore, delle sue
contraddizioni, delle sue debolezze, della sua
superficialità), ma penso convenga dire esplicitamente
che il Fogazzaro fu un gentiluomo, dilettante di
problemi religiosi, dilettante di casistica erotica, ed
anche dilettante scrittore. Né farei eccezione per
Piccolo mondo antico, dal quale, non a caso, ho tratto
gli esempi di questa nota: poiché quel romanzo si
distingue dagli altri, a me pare, non come opera di
poesia, ma come opera gradevole (il Donadoni, pur non
nascondendone le manchevolezze, ne parla come di un
«libro buono»), in quanto veniva incontro ai gusti dei
lettori con la rievocazione di un'età a loro cara (un
Risorgimento, a dire il vero, un poco oleografico), con
un'accorta dosatura di comico e di patetico, con un
dramma ideale enunciato peraltro piuttosto che
sviluppato, con un contrasto sempre commovente tra buoni
e cattivi, con la rinuncia, soprattutto, alle
contraddizioni, così stridenti in altri suoi romanzi, di
misticismo e di erotismo e alle più scoperte velleità
ideologiche. Se poi gradevole riesca anche ai lettori di
oggi, non saprei dire: forse la fama è sopravvissuta al
libro. |