VITA E POESIA
DEL FOSCOLO NEL PERIODO FIORENTINO
Nello
stesso inverno 1812-13, in cui sostanzialmente si concludeva
il lavoro sterniano e la Ricciarda, il Foscolo, mentre
rafforzava, dopo lo sfogo della tragedia e il ritratto
didimeo, la propria aspirazione ad un'armonia più sicura e
luminosa, poteva aprire di nuovo e più chiaramente il suo
animo all'eco delle passioni lontane e vive, alle notizie da
Milano delle sventure, della scomparsa di giovani amici e di
vecchi compagni d'arme nella campagna di Russia, dei
pericoli dell'Italia minacciata dalla guerra. E quegli echi
di una realtà dolorosa e a cui non poteva essere
indifferente e che gli ricordavano i suoi amori, le sue
amicizie, i suoi impegni e i suoi ideali politici, i suoi
rapporti di uomo vivo nella storia del proprio tempo,
vengono a rifluire in lui sollecitanti, ma non turbatori,
proprio quando egli riprende con nuova forza l'elaborazione
delle Grazie in quell'inizio di primavera del '13 in cui era
salito a vivere a Bellosguardo in una pace serena ed
armonica sottraendo il suo lavoro ad ogni pur minimo
disturbo, regolando a suo piacere le essenziali occasioni
socievoli, i rari affetti (la Quirina, il salotto del
Lungarno) che lo riscaldavano in un presente privo di ansie
e di crucci immediati.
Condizioni biografiche ed esigenze intime della poesia si
aiutano in un momento di suprema energia creativa, passioni
e serenità si equilibrano in un rapporto singolarmente
propizio. In quell'aprile indimenticabile per lui («né il
vago rito - oblieremo di Firenze ai poggi, quando ritorni
April» dirà nel finale delle Grazie) e poi sino al luglio,
in quella zona di serenità e di vitalità pura e profonda, in
cui il respiro della poesia si confonde con il respiro della
vita del poeta e del paesaggio («nelle convalli fra gli
aerei poggi», fra le «quete ombre di mille giovìnetti
cipressi»), in quella disposizione dell'armonia che vive in
ogni ora della sua giornata, in quel cerchio purificatore
sensibile e resistente come il velo stesso delle Grazie,
tornano da lontano e lo tendono senza spezzarlo, le passioni
e gli echi della dolorosa realtà. E le voci del «passionato»
contemporaneo penetrano nella perfezione del «mirabile»
mitico e tutto l'animo foscoliano esprime le sue note più
profonde e universali. Più armonia e più tensione, più
purezza e più complessità, più altezza di distacco poetico e
più impegno nella interpretazione della vita umana.
Ché in quell'accordo supremo di tensione e di serenità,
riaffiora, privo di ogni polemica eloquente, di ogni enfasi
violenta, tutto il dramma degli uomini e della storia, e una
potente elegia dolente e luminosa, senza la minima traccia
di languore, forma un essenziale chiaroscuro così foscoliano
con l'aspirazione all'armonia, con il sentimento di
un'umanità superiore libera e fraterna, con il Iperuranio,
in cui sono «senza brina i fiori e verdi i prati, ed aureo
il giorno - sempre stellate e limpide le notti» ma che pure
idealmente è un'esperienza dell'animo che poi con rinnovata
forza torna ad immergersi nella vita minacciata dalle impure
passioni, dagli atavici istinti ferini e fratricidi.
Al di là dell'Ajace, in cui la preghiera di Tecmessa di far
crescere il figlio non «disumano», libero di eredità di odio
e di colpe, l'eroe della tragedia rispondeva ancora con la
soluzione suicida dell'Ortis («o uomini infelici, nati ad
amarvi e a trucidarvi, addio!»), il Foscolo delle Grazie
raggiunge un punto più alto e conclusivo per il suo animo, e
così importante nella storia di quel tragico momento della
civiltà (fra crollo napoleonico, ritorno della reazione e
religione incipiente della libertà e della patria: egli
poeta ora di tutte le patrie offese ed invase e non solo
dell'Italia «afflitta di regali ire straniere»). Non con la
morte sdegnosa ma con l'esercizio intimo di una vita più
pura e superiore egli risponde all'orrore della «fraterna
strage» e lo stesso compianto del «giovinetti per la patria
estinti», dei «principi» quando sventura di alloro li
«corona», dei condottieri in lotta per la difesa e non per
l'offesa (in contrasto con la ferma, alta condanna per
«l'avido re» che «ad innocenti popoli appresta ceppi e lutto
ai suoi» o dei violenti che «alla divina libertà dànno
impuri ostie di sangue», è come l'alba malinconica e lieta
di un'umanità ingentilita dalle grazie, viva di affetti
intensi e disacerbati come quelli dipinti nel velo tessuto
nell'Iperuranio.
Ugualmente l'elegia degli uomini «dopo brevi dì sacri alla
morte», mentre è componente essenziale di un inno
all'armonia, tanto più alta perché consapevole del suo
difficile possesso e della sua delicata fragilità, è a sua
volta superiormente rasserenata non da orgogliose o
ultraterrene speranze, ma proprio dall'esercizio attivo dei
sentimenti della compassione, della ospitalità, del casto
amore, della fruizione della poesia, delle arti,
dell'armonia che vive nell'universo come la stessa coscienza
dolorosa dei suoi possibili limiti e per la quale gli uomini
son resi «men tremanti al grido che li promette a morte»; e
«dalla fonte del duol sorge il conforto», dal seno stesso
del dolore nasce la gioia. Una gioia profonda e malinconica,
fiduciosa e consapevole, che il Foscolo nutrì nel suo animo
in quei mesi supremi della sua vita poetica ed espresse in
altissimi miti perfetti e vibranti, luminosi ed intensi,
nitidi e mobili e segreti come l'armonia e la musica, alle
cui condizioni l'aspirazione delle Grazie meglio corrisponde
superando, nei suoi momenti più veri, ogni possibile
paragone con colorismo sensuale, con una ferinezza di
bassorilievo, e raggiungendo il segno di quella arcana
armoniosa melodia pittrice, viva davvero nella musica della
vergine romita o nel inisterioso alitare della fiamma di
Vesta.
In quei mesi di eccezionale fervore creativo e di equilibrio
fra tensione e serenità, mentre l'inno iniziale si
articolava in un carme in tre inni e il disegno se ne
allargava continuamente, il Foscolo operava un
approfondimento del suo iniziale fantasma poetico. E se
sarebbe assurdo precisare in termini assoluti un vero e
proprio contrasto fra le Grazie iniziate nel 1812 e il
lavoro del 1813 che sulla via delle prime si svolge e ne
accetta le prime stesure e ne utilizza schemi e intenzioni,
a me sembra fondamentale quella constatazione, che implica
una correzione intima - anche se non sempre felicemente
attuata e complicata rischiosamente dalla volontà di una
completezza particolareggiata degli elementi più
esternamente didascalici del carme neoclassico - dei
pericoli insiti in una inclinazione più facile ed elegante,
in un significato più immediato del rifugio e dell'evasione
dal «mare furente» di cui parlava nella lettera citata
all'Araldi, in un vagheggiamento più compiaciuto del vago,
dell'amabile, del grazioso, di quell'armonia che nel
successivo e più intenso lavoro della primavera venne meglio
assicurata nei suoi valori arcani, nella sua luce profonda.
Approfondimento e ricerca di toni sempre più musicali e
intimi che (pur nella presenza di episodi e frammenti meno
intensi e più letterari e didascalici, specie nel II inno)
io penso si potranno sostanzialmente precisare nello
svolgimento dei cicli elaborativi del carme, fissati, fra
l'inizio della primavera e il luglio, dall'introduzione che
Francesco Pagliai ha premesso al suo anticipo del testo
critico delle Grazie, ormai vicino a completa attuazione e
che, ad ogni modo, confermerà risolutamente la quasi totale
fiorentinità delle Grazie e l'eccezionale fervore creativo
di quella prìinavera di Bellosguardo.
Si potrà anche dire che all'arricchimento e approfondimento
corrispose una maggiore difficoltà di concludere il poema,
che le nuove occasioni poetiche, mentre sollecitavano il
poeta ad ampliare il suo carme e a dargli un valore tanto
più universale e superiore a quello dell'inno del rito delle
tre sacerdotesse delle arti, e dell'omaggio a Canova, lo
inducevano ad un lavoro tormentoso di accomodamenti e di
spostamenti per adattare i nuovi nuclei lirici e le nuove
elaborazioni di quelli precedenti ad uno schema sempre più
complesso. Ma è chiaro comunque che la poesia foscoliana in
quel periodo raggiunse le sue punte più intense e più
profonde proprio perché i motivi più segreti, le voci più
vere della sua anima trovano in quei mesi un felice accordo
- e al culmine di un lavoro artistico che unifica tutto il
periodo fiorentino - fra tensione e serenità, agevolato
dalla singolare condizione del Foscolo, nella calma di un
presente confortato di suggestioni e di affetti tranquilli e
nella tensione eccitante, ma non agitante di passioni e di
echi della realtà contemporanea mediati e illimpiditi in
quel cerchio perfetto e catartico. |