GOLDONI NELLE
SUE MEMORIE
È stato
ripetuto dai critici del Goldoni, sulla scorta del famoso
giudizio del Gibbon, che le Memorie costituiscono una
lettura più interessante delle stesse commedie. Il
protagonista vi appare sempre sorridente e tranquillo dalla
nascita agli ottant'anni, sempre piacevole e compito attore
di una commedia varia, leggera e gaia, curioso osservatore
del mondo, concepito anch'esso come un immenso meraviglioso
scenario mobile, entro il quale circolano i più curiosi e
simpatici caratteri, che sembrano fatti apposta per servire
di modello ai personaggi del teatro. La superficie levigata
e piana del racconto non si incrina mai nell'asperità di una
inquietudine o nel tormento di un dubbio o nell'ansia di una
ricerca; ché il «morale» dello scrittore - stando a quanto
ama ripetere egli stesso - è perfettamente analogo al suo
«fisico»: come non teme né il caldo né il freddo, così non
si lascia accendere dalla collera, né inebriare dalla gioia
(Mem., III, 38). E se qualche critico, a malgrado di queste
buone disposizioni, si metterà in testa di dargli
«inquietudine» perderebbe certamente il suo tempo; perché -
rincalza l'autore a mo' di conclusione delle Memorie - . «io
son nato pacifico e ho sempre conservato il mio sangue
freddo».
E veramente egli si dipinge come se avesse attraversato il
dramma della vita con un eterno sorriso, dolce e benevolo,
sacrificando ogni slancio appassionato a quella sua serena
tranquillità, in cui soleva attutire e obliare ogni
contrasto, e ogni violenza della cruda vita; veramente
sembra che egli sia riuscito a ovattare le asperità, a
dolcificare le amarezze, a ignorare la tragedia delle cose
per vivere in un mondo tutto serenità e pace, in cui non
penetra neppure l'eco della malinconia per una rinunzia o di
un rimpianto per un mondo ideale solamente e inutilmente
sognato.
Eppure tale levità sorridente di carattere finisce col
lasciare il lettore perplesso e un poco deluso. Uno studioso
del Goldoni, il Brognoligo, colpito da questa straordinaria
tranquillità arriva addirittura a una «anormalità»
psicologica del Goldoni nel quale «si potrebbe vedere fino a
un certo punto un esempio della teoria lombrosiana». Il
giudizio, a parte l'accenno di moda nel tempo in cui fu
scritto, rivela però una reale difficoltà d'interpretazione
dell'anima goldoniana. Perché quella stessa mancanza di
rancore e di speranze, quel narrare i fatti più gravi e le
avventure più insignificanti sempre con la stessa aria di
innocenza candida e di sincerità inoffensiva, finiscono col
renderci meno umana e quindi meno intelligibile la figura
del Goldoni. I casi della sua vita, infatti, venendo a
mancare di quel particolare rilievo che dovrebbe esser dato
da un giudizio preciso di valore o da un tono particolare di
commozione, si confondono in un unico indistinto panorama
nel quale sfumano i colori, le luci, le ombre; e tutto viene
adeguato in uno stesso grigiore un poco freddo e lontano.
Per vincere questa impressione e per accostarsi alquanto
all'anima del Goldoni, alla vita più reale dei suoi affetti,
è necessario cogliere da vicino il momento psicologico in
cui furono scritte le Memorie. In quel momento non domina la
serena allegria che il Goldoni amava ostentare; o, almeno,
se si ha da parlare di allegria, è necessario aggiungere che
non si tratta di un sentimento primitivo e irriflesso, di
un'allegrezza di natura, ma di un atteggiamento voluto
consapevolmente, e però ricco di certa complessità
spirituale e di umana esperienza. È l'atteggiamento di chi,
arrivato ormai agli ottant'anni di età, sentendosi
all'estremo della vita, vuole fare una specie di bilancio
spirituale del proprio passato e particolarmente del teatro
in cui si riassume il più di quel passato: lo fa con la
rassegnata indulgenza dell'uomo che sta per allontanarsi
definitivamente dalla scena del mondo. Amori e inimicizie,
gioie e avvilimenti, trionfi e dolori: tutto viene, in
quelle notazioni biografiche, mitigato e adeguato da un
sentimento diffuso di pacata rinunzia, da una sapienza di
vita troppo sperimentata per dimenticarsi delle cose, per
poter risalire, oltre il puro racconto, nella sfera dei
disinteressati ideali. Vista alla luce di questo sentimento
pare che tutta la narrazione si illumini di un significato
più ricco e più umano. La modestia stessa con cui lo
scrittore dà giudizi intorno a se stesso o ad altri acquista
un valore direi quasi malizioso o lievemente umoristico.
«Dio mi guardi», egli dice dopo una fine disgressione a
proposito di una certa «virtù eroica e commovente» la quale
può costituire un divertimento «per i cuori sensibili» ma
non è adatta alla sua Commedia, «Dio mi guardi dalla folle
pretesa di erigermi qui a precettore. Io faccio parte ai
lettori di quel poco che ho appreso, quel poco che so: e
d'altronde, anche nei libri di poco pregio si trova pure
talvolta qualcosa che merita la nostra attenzione» (Mem., II,
3). Il Goldoni che intorno alla scena aveva spesa l'intera
vita doveva pur saperne qualche cosa di teatro; ma la sua
lunga esperienza lo ha fatto anche consapevole di quanto
bisogna cedere del proprio orgoglio per non suscitare
malevolenze e invidia, di quanto sia necessario umiliarsi
per farsi benvolere o almeno compatire. Ora che è vecchio e
stanco vorrebbe, negli ultimi anni di vita, non patire nuove
malignità. Tanto più che viva ancora doveva essere in lui
qualche ombra di quella malinconia un poco amara aleggiante
nell'Addio dell'ultima sera del Carnevale 1761, che egli
scrisse per congedarsi dal suo pubblico veneziano, quando -
dopo la furiosa lotta col Gozzi - già maturo e duramente
provato dalla vita, dovette rifarsi l'esistenza altrove,
lontano dalla sua laguna.
Di questa malinconia è nello stesso racconto delle Memorie (II,
45) come un brevissimo spiraglio («La platea risonava tutta
quanta di applausi, fra i quali si udiva distintamente
gridare: Buon viaggio! Ritornate! Non mancate di parola'
Confesso che mi sentivo dentro commosso fino alle lacrime»)
: spiraglio che si chiude subito nella solita cautela un
poco fredda e guardinga, propria di chi non vuole sperperare
il suo cuore nel tormento di vani rimpianti.
Della stessa lotta aspra, maligna, velenosa che s'era
conclusa con quella dura sconfitta, non c'è nelle Memorie
che una debole eco lontana. Secondo il Goldoni, la colpa
dell'incostanza di molti dei suoi concittadini fu tutta di
certi amici, che per «malinteso zelo» avevano innalzato
troppo il merito delle sue commedie, sicché le «persone
colte» non avevano condannato lui, il Goldoni, ma il
fanatismo dei suoi fautori (Mem., II, 3). Quanto poi alle
grosse e furibonde villanie del Gozzi egli si difende colla
più grave delle armi polemiche che abbia mai adoperata nelle
Memorie: non nomina le persone «che vollero fargli del
male». Non più. Forse il Goldoni pensava scrivendo queste
parole, che anche il più feroce partigiano del Gozzi al
leggere l'espressione di una bontà e di una modestia così
lontana da tutte le bassezze e le volgarità che avevano
avvelenata la battaglia letteraria, avrebbe aperto il cuore
a una più benevola comprensione delle sue commedie o,
almeno, non gli avrebbe più aggiunto altre «inquietudini»
oltre a quelle sofferte a Venezia.
E così assolvendo tutti e ascrivendo solo alle proprie
deficienze la colpa dei guai sofferti, poteva deporre la
penna e aspettare serenamente la morte.
Ma il desiderio di pace non si compì: prima della morte egli
fu colpito ancora dalla cecità. Di ciò ci dà notizia nel
poscritto a una lettera del 26 marzo 1791 in cui dice
semplicemente: «Vorrei leggere, vorrei correggere ma non ci
vedo». E nell'altra lettera che di lui possediamo in data 3
settembre 1792, tra le miserie della vecchiaia e gli orrori
del Terrore, trova ancora modo di far dell'umorismo sulle
sue stesse disgrazie fisiche: «L'incuria mia... sarà
perdonata ad un uomo di ottantacinque anni, a cui non è
restato di buono che uno stomaco valoroso e un cuore
sensibile».
Anche all'estremo della vita egli non disarma: e qui
veramente pare che la sua apatia tocchi le soglie di una
specie di stoicismo.
Tale atteggiamento di distacco sorridente dalle cose,
illuminato dalla bontà di una larga comprensione umana si
lega, nello spirito del Goldoni, a un altro motivo
psicologico e morale che è stato forse meno avvertito dagli
studiosi: cioè a una positiva fiducia che i valori umani
s'impongono nel mondo per la loro intrinseca forza di
persuasione: e che è vano schermeggiare di astuzia o farsi
avanti con la prepotenza, e comunque tentare di barare nel
gioco della vita, la quale, in ultimo, finisce per assegnare
a ognuno il suo, anche a chi s'è ritirato signorilmente dal
tumulto delle passioni, a far la propria parte di lavoro e a
sopportare il proprio carico di tormento e di pena.
Da tale fiducia è in fondo sorretto tutto il racconto della
sua vita, compreso il punto culminante della battaglia
letteraria col Chiari e col Gozzi, pur nell'intonazione
generale un poco stinta e lontana della narrazione. Il
Goldoni del resto condensa espressamente questa sua
convinzione in una massima precisa, esposta ai lettori come
morale della propria vita: «Dappertutto» - egli afferma -
«l'uomo tranquillo e di sangue freddo finisce col farsi
amare e stancare la perfidia dei suoi nemici» (Mem.,
Prefazione). La quale massima è uno dei rarissimi precetti
generali di tutta l'opera, seppure sia velata anch'essa di
una decorosa modestia, che riduce tutti i meriti di una vita
nobilmente operosa alla semplice virtù della «tranquillità»
e del «sangue freddo» , vale a dire di una specie di saggia
imperturbabilità che avrebbe un riflesso nella stessa
costituzione fisica. |