Il programma
del "caffè"
Fin dal
titolo, che si richiama a un luogo tipico di incontri e di
discussioni della vita settecentesca, quale fu la «bottega
del caffè», il «Caffè» rivela uno dei caratteri fondamentali
del suo programma: l'intenzione di parlare con prontezza e
con vivacità dei temi più attuali, dei problemi più vivi
della società contemporanea, delle novità più significative
della politica, della scienza, della tecnica. Ciò che
impegna profondamente Pietro Verri e gli altri compilatori
del «Caffè» è il raggiungimento di uno scopo morale e
sociale insieme: l'utilità dei lettori, che consiste
nell'informazione intorno alle nuove idee elaborate in
Inghilterra e in Francia, e il rinnovamento della società
anche in Italia, con profonde riforme che devono trasformare
radicalmente le vecchie strutture economiche e sociali dando
inizio a un progresso civile stabilito sui principi della
scienza e della, ragione.
Il Caffè, in effetti, nacque in un momento in cui
s'avvertiva nell'Italia settentrionale la stanchezza di
certe formule giornalistiche; l'aridità delle gazzette da
una parte, strumenti dell'amministrazione pubblica, e
l'inefficacia, dall'altra, per una larga azione culturale,
quale i tempi tendevano a promuovere, del giornalismo
erudito. Già il nome del periodico verriano era un indice
della sua novità, se non addirittura «un facile simbolo
settecentesco di modernità attiva e disinvolta nelle volute
del suo profumo di moda esotica», volendo esso indicare la
trattazione di cose varie, che toccassero delle scienze,
delle arti, della vita sociale nei suoi aspetti morali,
politici ed economici, di cose veramente disparatissime,
come può succedere d'ascoltare e di discutere e di chiarire
a sé e agli altri entro una bottega di caffè, per
l'immediatezza con cui le questioni vengono poste, per la
spregiudicatezza degli argomenti, che dovrebbero scaturire
dall'osservazione della vita medesima e da una vivace
reazione ai fatti, per la spontaneità con cui si possono
sviluppare le discussioni, per l'assenza necessaria d'ogni
paludamento erudito: «una bottega di caffè è una vera
enciclopedia all'occasione, tanto è universalissima la serie
delle cose sulle quali accade di ragionare», verrà fatto
dire a Demetrio alla fine del primo tomo. Questo salotto
moderno, questo nuovo foro della vita civile, gradevole e
libero luogo d'incontro della più varia gente, - lodato già
nei fogli inglesi e soprattutto nello Spectator di Joseph
Addison, che il Verri ricorda come progenitore del Caffè
insieme ad altri simili fogli, e ad altre simili iniziative
di diffusione culturale, dello Swift, dello Steele, del
Pope, intuito come istituzione di blando e cordiale
rinnovamento anche dal Goldoni proprio perché vi si offre in
libera comunione una bevanda universale accetta sia al
gentiluomo don Marzio sia a gente «che si alza di buon
mattino», lodato con tenue ironia da Gasparo Gozzi, che
amava rappresentarsi «rincantucciato in una bottega da
caffè», interpretata come «liberale abitazione per
dimenticarsi le percosse della fortuna, fuggire la
malinconia, e addottrinarsi in molte cose che non si
apprendono ad altre scuole, o s'imparano con soverchia
lentezza», sta, dunque, qui, con la funzione di leggera
cornice a racchiudere articoli freschi d'ingegno e
d'inchiostro, e tutti diretti alla pubblica utilità, cioè
diretti a migliorare la generazione presente per
consentirle, come dirà Pietro Verri, di partecipare
attivamente al progresso dei tempi e ai nuovi compiti civili
di tutta l'Europa, al fine di trarre l'Italia dalla
decadenza in cui la vedeva giacere.
Pietro Verri rimase fedele a questo modo di presentazione
più di quanto non si avverta ad una prima lettura; si
rifletta, infatti, a quanto spesso gli articoli siano
introdotti dal gorgoglio delle cuccume bollenti e
dall'acciottolio delle tazze da caffè, e come egli finga
alcuni suoi scritti in forma dialogica con il caffettiere
Demetrio, nel quale, del resto, s'avverte quasi lo
sdoppiamento della personalità dello scrittore, quasi il
personaggio assuma l'aspetto di specchio della coscienza
obiettivata del Verri, ne sia l'alter ego, oltre che
l'ideale di una popolana dignità di costumi e di educazione
civile. Del resto anche Gian Rinaldo Carli, formatosi negli
studi classici e devoto della bella tradizione letteraria,
evidentemente attratto dalla suggestione artistica di tale
finzione e dall'invito umanistico del dialogo, porrà, nel
suo unico articolo, i suoi pensieri intorno alla Patria
degli Italiani, sulle labbra di un cliente forestiero
entrato per caso nella bottega milanese di Demetrio. Ma
questa bottega non è solo artificio per introdurre più
familiarmente il lettore nella trattazione dei vari
argomenti; essa svolge ancora, se volessimo addentrarci nel
difficile esame dei sostrati umorali degli autori,
determinati tanto spesso dall'ambiente sociale e culturale
in cui operavano, una funzione che potrebbe corrispondere,
di volta in volta, alle situazioni di isolamento o di
apertura rispetto al pubblico, che si verificarono lungo
tutto l'arco di vita del Caffè: dal giugno 1764 a tutto il
maggio 1765 e dal giugno 1765 «per un anno seguente», cioè a
tutto il maggio 1766, con una somma totale di
settantaquattro numeri, trentasei, nel primo, trentotto nel
secondo Tomo.
È una cornice leggera, dicevamo, che riappare di quando in
quando per sparire di nuovo nei momenti in cui risulterebbe
soltanto un espediente letterario, cioè nei momenti in cui
l'urgenza della battaglia ideologica si fa più pressante,
giacché tale cornice pareva esser nata con il fine cordiale
di presentare « in tal guisa i soggetti, e gli stili che
potessero esser letti e dal grave magistrato, e dalla vivace
donzella, e dagl'intelletti incalliti e prevenuti, e dalle
menti tenere e nuove ». Se dobbiamo credere che questa
cornice sia stata regolata sempre da Pietro Verri, dobbiamo
riconoscere che egli la regolò con misura, saggiamente
proporzionata alla propria ed altrui debolezza artistica a
reggere una più grande e ornata finzione letteraria.
D'altronde nel Caffè l'intenzione di un «bello stile», sia
pur nuovo e inconsueto, («siamo pur sempre in mezzo a dei
letterati. Ribelli si, amanti del concreto e della
statistica, precursori della più ambrosiana praticità, ma
letterati che amano un'aria di gusto intorno ai loro
articoli e che perfino al loro linguaggio efficace (cose e
non parole) adibiscono inflessioni poetiche proprio nella
sua rapidità spregiudicata», che si affaccia nelle prime
pagine, mostra presto cavilli e crepe.
Alla fine del primo anno un avviso Al lettore, dinanzi al
tomo che riuniva i fogli, proseguiva l'enunciazione del
programma. È prosa di Pietro Verri, non priva di quella
segreta baldanza che le donava la sicurezza di un bilancio
positivo. Si nota il vanto che il lavoro fosse stato
intrapreso da una piccola società di amici per il piacere di
scrivere, per l'amore della lode e soprattutto per la
confessata ambizione di promuovere e di spingere sempre più
gli uomini italiani «allo spirito della lettura, alla stima
delle scienze, e delle belle arti, e ciò che è più
importante, all'amore delle virtù, dell'onestà,
dell'adempimento de' propri doveri». Come si vede, un
intento morale soprintendeva saldamente all'entusiasmo degli
scrittori, un entusiasmo lievitato dall'amor proprio, ,ma da
un amor proprio utile al pubblico.
Tuttavia, di fronte a questo consuntivo, che annunziava al
contempo la prosecuzione dell'impresa, si levavano le ombre
delle diffidenze e dei pericoli fra i quali era stato
attuato sino a quel momento il programma e che si
prospettavano forse maggiori per il futuro. L'ostilità della
società milanese che il Verri aveva avvertito intorno a sé e
di cui aveva informato il Carli nel 1762, era, se mai,
cresciuta, non diminuita di fronte alle più autorevoli
espressioni di indipendenza e di spregiudicatezza dei
giovani accademici dei Pugni. Il Verri, infatti, continuava
dichiarando che « una onesta libertà degna di cittadini
italiani ha retta la penna. Una profonda sommissione alle
divine leggi ha fatto serbare un perfetto silenzio su i
soggetti sacri, e non si è mai dimenticato il rispetto che
merita ogni principe, ogni governo, ed ogni nazione ». Non è
la sola dichiarazione d'omaggio alle autorità costituite che
incontreremo nel Caffè, necessaria a sollevare gli autori
dall'accusa, sempre pronta nella società contemporanea, di
ribelli di fronte ai poteri laici e religiosi. Parole tutte,
queste dell'avviso Al lettore, che ci conducono a intendere
come per la «dolce compagnia di buoni amici» la battaglia
che veniva svolgendo sui fogli del Caffè non coincideva
necessariamente con l'eversione dei grandi istituti
religiosi o civili, con la negazione delle strutture
fondamentali della società organizzata contemporanea, ma
come per essa la battaglia delle idee avesse ancora tante
trincee colme di neghittosità, d'inerzia civile, morale e
culturale, da espugnare, e avrebbe dovuto agire nel tessuto
compatto dell'umanità - assonnata vittima dell'ignoranza,
del pregiudizio, dell'intolleranza, dell'accidia nella sua
vita giornaliera - prima di giungere a scalzare altari e
troni; compito non necessario, se si fosse potuto attuare la
rinnovazione civile nella continuità storica delle
istituzioni.
Per gli uomini del Caffè la battaglia - ché di battaglia si
trattò - si restringeva, o meglio si concretava - con
consapevolezza della novità del proprio compito, e con un
sofferente senso dell'imminenza delle sciagure, se non fosse
giunto presto il soccorso - nella necessità di risvegliare
il torpido corpo della società italiana, prima che fosse
tardi, per congiungerlo a quel progresso culturale,
scientifico, produttivo, mercantile, più vastamente civile
quindi, che si verificava nei . grandi paesi europei. Ogni
forma di cultura che rallentasse o addirittura inceppasse la
loro impresa, era perciò considerata come impedimento al-
risorgimento generale che era nei loro voti. Le vecchie
accademie, che sopravvivevano a se stesse o che tentavano di
,riprendere nuova lena senza mutare i loro principi, e che
apparivano a quegli. inquieti giovani quali baluardi di una
tradizione letteraria e linguistica sentita come fedeltà del
tutto formale all'antica civiltà letteraria italiana; le
vecchie strutture scolastiche insufficienti e aride, adatte
ad una società costruita su chiusi privilegi, non scuole,
cioè, adatte a promuovere lo sviluppo di ingegni pronti, ma
adatte a creare una media e convenzionale cultura di casta,
e sorde di fronte alla necessità impellente di addestrare
con nuove tecniche le classi artigianali e impiegatizie,
rappresentavano, quindi, un aspetto non trascurabile di quel
vecchio mondo che il piccolo gruppo di amici si era
impegnato ad avversare. Anche l'Accademia dei Trasformati,
nella quale avevano pur recitato e dissertato Pietro Verri e
Cesare Beccaria prima di staccarsene definitivamente nel
1761; anche, cioè, quell'Accademia che, accogliendo e
onorando Giuseppe Parini, e dedicando molte tornate ad
argomenti di viva contemporaneità, aveva mostrato di non
dover essere confusa con altre consimili istituzioni -
divenute per davvero, alla metà del secolo, rifugio di
divertimenti in rima o di inutili esibizioni d'eruditi - era
considerata estranea e perciò nemica di quel moto di
rinnovamento auspicato e condotto dai giovani filosofi
milanesi. D'altronde essi non si sentivano soli; a
confortarli nella loro impresa vi erano le testimonianze di
tutta l'Europa civile, il perfezionamento delle scienze dopo
le grandi scoperte del secolo XVII, le applicazioni di esse
alla tecnica del lavoro, gli studi e le discussioni intorno
all'economia pubblica tanto fiorenti in Inghilterra e in
Francia, che si tramutavano anche in Italia in trattati di
tecnica finanziaria, in esami di bilance commerciali, in
libelli auspicanti la liberalizzazíone degli scambi per
sviluppare sempre più i commerci europei, per favorire
l'agricoltura e le nuove colture necessarie all'incremento
demografico e alla sempre più complessa ed esigente società.
I rinnovatori delle teorie economiche volgevano la loro
attenzione alla ricchezza industriale, attirati anche dalla
possibilità di dare applicazione, appunto, per il pubblico
bene, agli ultimi risultati delle scienze moderne, dalla
meccanica alla chimica alla elettrologia.
Le cognizioni poi della fisica grandissima influenza hanno a
perfezionare tutte le manifatture e i comodi della vita; di
più, rendono, per cosí dire, più dilicato e fino il gusto in
ogni cosa. L'arte de' tintori deve tutt'i suoi avvanzamenti
alla fisica; la farmaceutica, tanto interessante il nostro
ben essere, dalla medesima pure riceve lume; in somma lo
spirito della buona fisica si adatta a tutte le cose, che
servono all'uso dell'uomo, ed ivi sono sempre più eleganti e
più comode, dove quella scienza abbia fatti progressi.
La scienza, ancora alla metà del Settecento, serbava per i
suoi ammiratori una veste domestica, e appariva al contempo
come una sorprendente avventura dell'intelletto, alla quale
accostarsi quasi godendone come d'un fatto d'arte. Il
fervore, che i giovani milanesi avvertivano nell'Europa
oltremontana, s'era manifestato con tanta autorità, e si
manifestava tuttavia, attraverso la voce dei filosofi che
avevano gettato le basi dei nuovi metodi scientifici e delle
nuove esigenze politiche, che da quel pensiero e da quella
scienza ci si attendeva lo sviluppo di una società
organizzata dalla ragione umana, volta tutta alla felicità
delle nazioni. |