A SE STESSO
Consalvo è
un prestanome e un ritratto accarezzato e romantico del
Leopardi stesso.
Ma nel brevissimo canto A se stesso queste concessioni
psicologiche, di fantasticheria erotica, vengono
risolutamente annullate e dopo tante cadenze patetiche nel
Consalvo, si ritorna con uno strappo potente alta seria
intensità e alla poetica più cosciente del Pensiero
dominante e di Amore e Morte. Ed anzi in questi sedici
versi, che troppo spesso sono stati scambiati con una forma
travestita di prosa e quasi di appunto diaristico, la
poetica eroica dell'ultimo periodo leopardiano trova un
esempio perfetto ed estremo. Il torbido fantasticare di
Consalvo, suggerito evidentemente da sogni di compenso in
una vicenda amorosa sfortunata ed incerta, viene
provvidenzialmente spazzato da una nuova presa di coscienza
personale, da una affermazione dura e sicura, il cui
appoggio biografico è naturalmente assai incerto nella sua
precisione di cronaca. A noi basta sapere che l'amore
fiorentino finì in un tragico disinganno che poi vivrà
poeticamente nell'estremo tentativo platonico di Aspasia: ma
guai a voler dedurre il tono della poesia dal tono di una
avventura biografica! Ben lungi da una poesia gelida o
esteriormente disperata come si potrebbe ricostruire
partendo dalla vicenda del disinganno amoroso. Perché ciò
che si deve subito chiarire è il tono di questa poesia: il
tono della persuasione e dell'affermazione personale, vivo e
forte contro ogni condizione di bruta realtà o di frivola
stoltezza umana che per il Leopardi vengono a coincidere in
un disvalore unico. Non si tratta di un momento di
disperazione amara e cattiva non solubile nella vera poesia
leopardiana generosa e nobile.
La persuasione della bruttezza della vita, della malvagità
della natura, della stoltezza degli uomini e della loro
infelicità ineliminabile è sempre più chiara e decisa, come
decisa è la coscienza della propria grandezza e della
propria «verità». Soprattutto coscienza di altezza e verità,
e coincidenza di persuasione del proprio valore e del valore
delle proprie idee.
Ma anche qui il tono combattivo e affermativo non cambia e
la delusione amorosa fa cadere sì un motivo che fu capace di
vita, ma non quel centro intimo di forza risoluta che in
quel motivo aveva trovato un pretesto di affermazione. E
lungi dal rinchiudersi, come negli idilli, nella nostalgia
del passato o in una pacificazione di armonia e canto, e
comunque in un rifiuto dell'amaro presente, il Leopardi di A
se stesso assume un atteggiamento anche più deciso e la
separazione fra tutto ciò che è disvalore e il centro più
sicuro di giudizio e di affermazione si fa sempre più
violenta raggiungendo limiti estremi.
Il «te» che è coinvolto nel disprezzo di ogni realtà bruta e
di ogni mondana stoltezza è quasi la parte di sé che ha
ceduto agli inganni e che viene separata dal centro più
intatto. Ma evidentemente l'oggetto della violenta protesta
contro ogni retorica è la natura, il suo potere malvagio,
contro cui si svolgerà tutta la polemica dell'ultimo
Leopardi. E si ricordi che è di questo periodo, forse di
poco anteriore a questo canto, l'abbozzo dell'inno ad
Arimane che, al di là di quello che può apparire uno sfogo
momentaneo, allarga e consolida l'impressione della rivolta
«titanica» (secondo la terminologia romantica che, più
esteriore, si addice pure a questo Leopardi come a De Vigny
o a Shelley) :
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«Re
delle cose, autor del mondo, arcana
malvagità, sommo potere e somma
intelligenza, eterno
dator de' mali e reggitor del moto». |
|
Anche il
disprezzo per la tragica potenza del « brutto potere » e la
tipica bestemmia romantica («ben mille volte dal mio labbro
il tuo nome maledetto sarà») e le dichiarazioni di
resistenza («ma io non mi rassegnerò»). Così in A se stesso
una rivolta e un rifiuto energico sorreggono una
concentrazione poetica di motivi essenziali e non
momentanei.
Ciò che infatti più colpisce un lettore non prevenuto da un
giudizio in funzione di schemi esterni, è l'estrema
essenzialità di motivi e di espressione. La delusione
sofferta (per la cronaca il rifiuto di Fanny, per la storia
intima, che solo conta in questo caso, la caduta del mito
Fanny, la rottura della coincidenza fra la donna e
l'immagine che il poeta se ne era creata) è ridotta alla
replicata parola «inganno» , «estremo inganno», «cari
inganni»; e se la seconda volta la parola è resa come più
affettuosa e nostalgica, il motivo tragico (il motivo
dell'inganno estremo e del suo inesorabile «perire») si
presenta col tono di una sventura universale, sentita ben al
di là delle sue condizioni di cronaca. E tale senso solenne,
assoluto (come nel giovanile Infinito quell'impressione di
smarrimento e di estasi assume un tono religioso e
universale) è realizzato potentemente mercé lo strumento
della nuova poetica, di cui questo canto è un esempio
veramente estremo.
Il rifiuto da parte dell'ultimo Leopardi di ogni
armonizzazione di immagini idilliche, paesistiche è qui
portato al massimo e nei 16 versi non risuona un'eco blanda
come non affiora l'accenno di un'immagine. Per questa
mancanza A se stesso è sembrato a molti una prosa gelida, da
appunto. Masi guardi attentamente il movimento interno del
canto le brevissime frasi non sono fredde e riassuntive, ma
rappresentano degli slanci contenuti da una forza stilistica
superiore, movimenti lirici (e si sfugga una lettura
drammatica enfatica e singhiozzante!) rappresi in una
estrema concentrazione. Non dunque appunti o frasi da
recitazione: il solito ritmo ascendente tende i singoli
membri ed aumenta la forza delle pause, mentre l'uso
abbondante di legame fra i versi, di tipici enjambements
supera l'eccessiva frattura del periodo costituendo quasi
una linea più vasta e mossa solo da stacchi potenti e da
pause profonde intrinseche a questo canto senza dolcezza e
senza compensi immaginosi o di alone musicale. La ricchezza
di mezzi stilistici, la consumata esperienza di effetti
fonici sono completamente adibite al movimento di negazione
e di denuncia della natura e quel solito colore interno,
quella forte musica spirituale e personale quasi senza
riferimenti sensuosi, che è tipica dell'ultimo Leopardi (e
che è troppo comodo ridurre a non poesia, mentre è una
poesia che risponde a particolari condizioni ed è retta da
una cosciente poetica), domina senza pericoli in questa
poesia battuta e insistente, fatta di parole essenziali a
indicare separazione ed energia, ricca di avverbi più che di
aggettivi, di forme vigorose e secche.
Come l'inizio, che sembra la conclusione di precedenti
meditazioni nel distacco di un presente sicuro e cosciente
da un passato di turbamento:
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Or
poserai per sempre,
stanco mio cor. |
|
Il presente
è in questi canti sempre la posizione della affermazione
personale e il passato viene respinto come momento inferiore
nel suono cupo ed assorto, nel perentorio distacco operato
dalle due forme avverbiali: «or», «per sempre».
Tono perentorio, assoluto, accresciuto dalle forme senza
meditazione: «inganno estremo», «eterno», «perì». La
formidabile forza di sentimento si traduce in ritmo, in un
ritmo contenuto e in tensione, non frammentario ed
epigrafico: un ritmo che la traduzione diretta di una
indomita coscienza personale in una espressione
spregiudicata ed originale. Ritmo che si serve di brevi
frasi, di membri che ferma appena si svolgono, per
mantenerli in tutta la loro intera potenza: come quel «peri»
che, nella ripetizione più assoluta e nuda dell'inizio del
movimento precedente, porta una forza di decisione piena e
una sottolineatura di estrema energia.
Il quarto movimento, dopo una conclusione così risoluta,
propone un tema nuovo in una forma più complessa e pausata
|
(Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento) |
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e prepara
con la sua ampiezza maggiore una nuova serie di membri brevi
e violenti
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(Posa per sempre. Assai palpitasti). |
|
in cui dal
consiglio iniziale si passa ad un comando più reciso, mentre
il secondo membro con il suo legame tra i due versi e la
ricchezza di vocali che lo allungano quasi in un intenso
sospiro, apre la serie delle amare conclusioni sulla vita,
in cui le parole più leopardiane e più nude (e prive, si
noti bene, di aggettivi capaci di colorire e di variare una
musica così essenziale) si raccolgono in un movimento
martellato e ripetuto, con l'energia di certe battute degli
ultimi quartetti beethoveniani. Poi con una certa simmetria
rispetto ai due membri già notati ai vv. 6-7, due nuove
battute ugualmente impostate
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(T'acqueta
ormai. Dispera
l'ultima volta) |
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e uno di
quei comandi leopardiani che in questo canto risuonano in
accordo con questo tono di giudizio assoluto, con questo
cupo tono di «sempre», di «mai», di «ultima volta». E infine
l'ultima frase, la più lunga del canto, ma anch'essa tutta
irta di stacchi e di accenti senza abbandono, di pause che
riproducono la linea rotta e a blocchi del canto, anche nel
grave suono d'organo dell'ultimo verso :
|
...
(Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto). |
|
Verso
grandioso in cui le grandi, nude parole leopardiane (e
dietro la suggestione non casuale del «vanitas vanitatum»
dell'Ecclesiaste) riassumono, nella conclusione più vasta,
il ritmo scandito di tutto il canto.
Esempio estremo della nuova poetica abbiamo detto: e
veramente mai il Leopardi aveva raggiunto una espressione
così romantica, un tipo di discorso lirico così nuovo e
spregiudicato e pur così poeticamente essenziale. Ritmo e
forza suggestiva delle parole coincidono in questo sforzo di
espressione integrale della personalità in tensione. |