IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Giacomo Leopardi

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: GIACOMO LEOPARDI

A SE STESSO

Consalvo è un prestanome e un ritratto accarezzato e romantico del Leopardi stesso.
Ma nel brevissimo canto A se stesso queste concessioni psicologiche, di fantasticheria erotica, vengono risolutamente annullate e dopo tante cadenze patetiche nel Consalvo, si ritorna con uno strappo potente alta seria intensità e alla poetica più cosciente del Pensiero dominante e di Amore e Morte. Ed anzi in questi sedici versi, che troppo spesso sono stati scambiati con una forma travestita di prosa e quasi di appunto diaristico, la poetica eroica dell'ultimo periodo leopardiano trova un esempio perfetto ed estremo. Il torbido fantasticare di Consalvo, suggerito evidentemente da sogni di compenso in una vicenda amorosa sfortunata ed incerta, viene provvidenzialmente spazzato da una nuova presa di coscienza personale, da una affermazione dura e sicura, il cui appoggio biografico è naturalmente assai incerto nella sua precisione di cronaca. A noi basta sapere che l'amore fiorentino finì in un tragico disinganno che poi vivrà poeticamente nell'estremo tentativo platonico di Aspasia: ma guai a voler dedurre il tono della poesia dal tono di una avventura biografica! Ben lungi da una poesia gelida o esteriormente disperata come si potrebbe ricostruire partendo dalla vicenda del disinganno amoroso. Perché ciò che si deve subito chiarire è il tono di questa poesia: il tono della persuasione e dell'affermazione personale, vivo e forte contro ogni condizione di bruta realtà o di frivola stoltezza umana che per il Leopardi vengono a coincidere in un disvalore unico. Non si tratta di un momento di disperazione amara e cattiva non solubile nella vera poesia leopardiana generosa e nobile.
La persuasione della bruttezza della vita, della malvagità della natura, della stoltezza degli uomini e della loro infelicità ineliminabile è sempre più chiara e decisa, come decisa è la coscienza della propria grandezza e della propria «verità». Soprattutto coscienza di altezza e verità, e coincidenza di persuasione del proprio valore e del valore delle proprie idee.
Ma anche qui il tono combattivo e affermativo non cambia e la delusione amorosa fa cadere sì un motivo che fu capace di vita, ma non quel centro intimo di forza risoluta che in quel motivo aveva trovato un pretesto di affermazione. E lungi dal rinchiudersi, come negli idilli, nella nostalgia del passato o in una pacificazione di armonia e canto, e comunque in un rifiuto dell'amaro presente, il Leopardi di A se stesso assume un atteggiamento anche più deciso e la separazione fra tutto ciò che è disvalore e il centro più sicuro di giudizio e di affermazione si fa sempre più violenta raggiungendo limiti estremi.

Il «te» che è coinvolto nel disprezzo di ogni realtà bruta e di ogni mondana stoltezza è quasi la parte di sé che ha ceduto agli inganni e che viene separata dal centro più intatto. Ma evidentemente l'oggetto della violenta protesta contro ogni retorica è la natura, il suo potere malvagio, contro cui si svolgerà tutta la polemica dell'ultimo Leopardi. E si ricordi che è di questo periodo, forse di poco anteriore a questo canto, l'abbozzo dell'inno ad Arimane che, al di là di quello che può apparire uno sfogo momentaneo, allarga e consolida l'impressione della rivolta «titanica» (secondo la terminologia romantica che, più esteriore, si addice pure a questo Leopardi come a De Vigny o a Shelley) :
 
  «Re delle cose, autor del mondo, arcana
malvagità, sommo potere e somma
intelligenza, eterno
dator de' mali e reggitor del moto».
 

Anche il disprezzo per la tragica potenza del « brutto potere » e la tipica bestemmia romantica («ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà») e le dichiarazioni di resistenza («ma io non mi rassegnerò»). Così in A se stesso una rivolta e un rifiuto energico sorreggono una concentrazione poetica di motivi essenziali e non momentanei.
Ciò che infatti più colpisce un lettore non prevenuto da un giudizio in funzione di schemi esterni, è l'estrema essenzialità di motivi e di espressione. La delusione sofferta (per la cronaca il rifiuto di Fanny, per la storia intima, che solo conta in questo caso, la caduta del mito Fanny, la rottura della coincidenza fra la donna e l'immagine che il poeta se ne era creata) è ridotta alla replicata parola «inganno» , «estremo inganno», «cari inganni»; e se la seconda volta la parola è resa come più affettuosa e nostalgica, il motivo tragico (il motivo dell'inganno estremo e del suo inesorabile «perire») si presenta col tono di una sventura universale, sentita ben al di là delle sue condizioni di cronaca. E tale senso solenne, assoluto (come nel giovanile Infinito quell'impressione di smarrimento e di estasi assume un tono religioso e universale) è realizzato potentemente mercé lo strumento della nuova poetica, di cui questo canto è un esempio veramente estremo.

Il rifiuto da parte dell'ultimo Leopardi di ogni armonizzazione di immagini idilliche, paesistiche è qui portato al massimo e nei 16 versi non risuona un'eco blanda come non affiora l'accenno di un'immagine. Per questa mancanza A se stesso è sembrato a molti una prosa gelida, da appunto. Masi guardi attentamente il movimento interno del canto le brevissime frasi non sono fredde e riassuntive, ma rappresentano degli slanci contenuti da una forza stilistica superiore, movimenti lirici (e si sfugga una lettura drammatica enfatica e singhiozzante!) rappresi in una estrema concentrazione. Non dunque appunti o frasi da recitazione: il solito ritmo ascendente tende i singoli membri ed aumenta la forza delle pause, mentre l'uso abbondante di legame fra i versi, di tipici enjambements supera l'eccessiva frattura del periodo costituendo quasi una linea più vasta e mossa solo da stacchi potenti e da pause profonde intrinseche a questo canto senza dolcezza e senza compensi immaginosi o di alone musicale. La ricchezza di mezzi stilistici, la consumata esperienza di effetti fonici sono completamente adibite al movimento di negazione e di denuncia della natura e quel solito colore interno, quella forte musica spirituale e personale quasi senza riferimenti sensuosi, che è tipica dell'ultimo Leopardi (e che è troppo comodo ridurre a non poesia, mentre è una poesia che risponde a particolari condizioni ed è retta da una cosciente poetica), domina senza pericoli in questa poesia battuta e insistente, fatta di parole essenziali a indicare separazione ed energia, ricca di avverbi più che di aggettivi, di forme vigorose e secche.

Come l'inizio, che sembra la conclusione di precedenti meditazioni nel distacco di un presente sicuro e cosciente da un passato di turbamento:
 
  Or poserai per sempre,
stanco mio cor.
 

Il presente è in questi canti sempre la posizione della affermazione personale e il passato viene respinto come momento inferiore nel suono cupo ed assorto, nel perentorio distacco operato dalle due forme avverbiali: «or», «per sempre».
Tono perentorio, assoluto, accresciuto dalle forme senza meditazione: «inganno estremo», «eterno», «perì». La formidabile forza di sentimento si traduce in ritmo, in un ritmo contenuto e in tensione, non frammentario ed epigrafico: un ritmo che la traduzione diretta di una indomita coscienza personale in una espressione spregiudicata ed originale. Ritmo che si serve di brevi frasi, di membri che ferma appena si svolgono, per mantenerli in tutta la loro intera potenza: come quel «peri» che, nella ripetizione più assoluta e nuda dell'inizio del movimento precedente, porta una forza di decisione piena e una sottolineatura di estrema energia.

Il quarto movimento, dopo una conclusione così risoluta, propone un tema nuovo in una forma più complessa e pausata
 
  (Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento)
 

e prepara con la sua ampiezza maggiore una nuova serie di membri brevi e violenti
 
  (Posa per sempre. Assai palpitasti).  

in cui dal consiglio iniziale si passa ad un comando più reciso, mentre il secondo membro con il suo legame tra i due versi e la ricchezza di vocali che lo allungano quasi in un intenso sospiro, apre la serie delle amare conclusioni sulla vita, in cui le parole più leopardiane e più nude (e prive, si noti bene, di aggettivi capaci di colorire e di variare una musica così essenziale) si raccolgono in un movimento martellato e ripetuto, con l'energia di certe battute degli ultimi quartetti beethoveniani. Poi con una certa simmetria rispetto ai due membri già notati ai vv. 6-7, due nuove battute ugualmente impostate
 
  (T'acqueta ormai. Dispera
l'ultima volta)
 

e uno di quei comandi leopardiani che in questo canto risuonano in accordo con questo tono di giudizio assoluto, con questo cupo tono di «sempre», di «mai», di «ultima volta». E infine l'ultima frase, la più lunga del canto, ma anch'essa tutta irta di stacchi e di accenti senza abbandono, di pause che riproducono la linea rotta e a blocchi del canto, anche nel grave suono d'organo dell'ultimo verso :
 
  ... (Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto).
 

Verso grandioso in cui le grandi, nude parole leopardiane (e dietro la suggestione non casuale del «vanitas vanitatum» dell'Ecclesiaste) riassumono, nella conclusione più vasta, il ritmo scandito di tutto il canto.
Esempio estremo della nuova poetica abbiamo detto: e veramente mai il Leopardi aveva raggiunto una espressione così romantica, un tipo di discorso lirico così nuovo e spregiudicato e pur così poeticamente essenziale. Ritmo e forza suggestiva delle parole coincidono in questo sforzo di espressione integrale della personalità in tensione
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Walter Binni

© 2009 - Luigi De Bellis