L'ULTIMO
LEOPARDI
Sulla base
della nuova coscienza del proprio valore personale e del
valore del proprio pensiero, e del loro dovere e diritto di
deciso intervento nella storia del proprio tempo, la
posizione anti-idillica si svolge in un atteggiamento sempre
più attivo e combattivo, a suo modo singolarmente
«apostolico» salendo dai margini più esterni della satira e
della polemica (Palinodia, Nuovi credenti e più al centro
Paralipomeni, così nuovi e inquietanti e ricchi anche di
moti poetici) ad una centrale identificazione che vale come
un nuovo modo di radicale unità lirica di poesia e di
pensiero.
E mentre il poeta tenta (ed attua almeno nella Ginestra) un
romanticissimo impiego della poesia come viva fondatrice di
civiltà e di verità e dà al suo stesso pensiero una tanto
più chiara funzione attiva e sentimentale (tanto più dunque
traducibile poeticamente), lo stesso pensiero subisce
effettive modificazioni, si adegua al nuovo generate bisogno
di impegno del poeta, passa - sulla base antispiritualistica
e antiottimistica ancor più consolidata - da una posizione
più critico-analitica ad una posizione più affermativa e
combattiva, e, anche attraverso una distinzione
importantissima fra progresso umano ammesso come progresso
di consapevolezza della situazione umana e di coerenti
conclusioni pratiche sul piano di una costruzione di civiltà
disillusa e solidale, e la negata perfettibilità
spiritualistica delle magnifiche sorti progressive - supera
il pessimismo più statico delle Operette, fa della ragione
un'arma solida con cui gli uomini possono e devono liberarsi
da miti e consolazioni superbe e frivole e con cui il
Leopardi prende sempre più deciso partito nella storia del
suo tempo, in tutte le sue dimensioni ideologiche spirituali
e politiche, per lui inseparabilmente congiunte.
E così decisamente avversa insieme la filosofia
spiritualistica come filosofia della Restaurazione e i
sistemi politici reazionari del De Maistre a del De Bonald,
condanna duramente i Dialoghetti di Monaldo e a questi che
gli scriveva amareggiato per le sue sfortune di sostenitore
del trono e dell'altare non gradito dal governo pontificio,
risponde in una lettera del '36, affettuosa e decisa,
delineando con chiarissime parole il suo inequivoco giudizio
sui regimi assoluti e «legittimisti della Restaurazione»: «i
legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano che la loro
causa si difenda con le parole, atteso che il solo
confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che ponga
in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede
di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali:
oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a
cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del
cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per
ora non hanno che rispondere». Mentre insieme condanna le
posizioni dei liberalmoderati a causa delle loro premesse
ideologiche che gli appaiono retoriche e fragili. Sicché
nell'aspra satira dei Paralipomeni il suo scetticismo sulle
possibilità dei liberali italiani, mentre non esclude
affatto la sua intima partecipazione ideale alle sorti della
libertà e dell'Italia, va spiegato proprio nel dissenso fra
le posizioni che egli considera vere e a lor modo
progressive nella storia del pensiero umano, e le ideologie
spiritualistiche, cattoliche o idealistiche, che egli
sentiva sostanzialmente reazionarie e legate a concezioni
filosofiche frivole e retoriche. A questa retorica (né sarà
qui il caso di discutere i margini di incomprensione e di
parzialità del giudizio leopardiano di cui preme comunque di
rilevare l'estrema forza consequenziaria e la coerenza con
il suo pensiero e con le sue convinzioni vissute) egli
oppone ora con maggior fermezza la sua persuasione, la
persuasione che gli uomini, mediante la loro ragione e la
loro esperienza totalmente liberata dai miti, hanno scoperto
la miseria della loro situazione esistenziale, la crudeltà
della natura e del «brutto poter che, ascoso, a comun danno
impera», ma insieme la dignità e le possibilità costruttive
della loro consapevolezza: e che su questo fondamento di
dolorosa, ma virile certezza, essi debbono non lasciarsi
distrarre da inutili e fuorvianti miti e consolazioni o da
inutili e sciocche lotte fratricide, debbono costruire la
loro difficile civiltà nella solidarietà fraterna contro la
natura che li opprime tirannicamente.
Posizioni ideali che in quest'ultimo Leopardi, così ribelle
e anticonformistico da volersi chiamare nei Paralipomeni il
«Malpensante», vivono non come pure conclusioni speculative,
ma come temi profondi dell'animo, tutt'altro che freddo e
isterilito, scettico e compiaciuto delle sue negazioni.
Ché forse mai l'animo leopardiano fu così vibrante e
appassionato, mai questo materialista, più profondamente
spirituale e a suo modo più religioso di tanti suoi
contemporanei professionalmente religiosi e spiritualisti,
sentì con tanta appassionatezza il fascino delle cose alte,
dei sentimenti superiori, la bellezza di ogni atto puro,
disinteressato, eroico. Fosse pure il sacrificio inutile del
topo Rubatocchi, che nel poemetto dei Paralipomeni cade solo
in battaglia abbandonato da tutto il suo esercito in fuga
non degnato di uno sguardo da un cielo indifferente e chiuso
(ma il suo cader non vide il cielo).
|
Bella virtù, qualor di te s'avvede
come per lieto avvenimento esulta
lo spirto mio: né da sprezzar ti crede
se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
o nota o chiara, o ti ritrovi occulta,
sempre si prostra; e non pur vera e salda,
ma imaginata ancor, di te si scalda,
Ahi! ma dove sei tu? sognata o finta
sempre? vera nessun giammai ti vide |
|
Da
quest'animo così caldo e teso, da questa persuasione lirica
della miseria e dell'altezza degli uomini tanto più degni
quanto più consapevoli della loro situazione eppur non
perciò rinunciatari e cinici ed egoisti, ma anzi solidali e
appassionati per quei valori che illuminano come rari
bagliori la loro vita che tanto più perciò ne sollecitano la
tensione più profonda, sorge l'ultima grande prova della
poesia eroica leopardiana, la Ginestra.
Dico ultima grande prova ché il Tramonto della luna può
apparire piuttosto un più pallido ritorno a toni idillici
ormai riassorbiti in altri toni diversamente orientati,
mentre d'altra parte si dovrebbe forse di più sottolineare
in quel canto l'estrema forza di lucidità energica della
diagnosi della vecchiaia e dei mali degli uomini come più
genuinamente pertinente all'interesse e alla poetica che in
questo periodo dominava schiettamente l'attività
leopardiana.
Nella Ginestra si svolgono più apertamente i motivi eroici
del suo animo, le punte estreme della poetica leopardiana
nata con il Pensiero dominante e si attua l'estremo
tentativo del Leopardi di portare in poesia tutta la sua più
decisa esperienza e persuasione filosofica, morale,
estetica, di fondere l'impegno poetico e l'annuncio di una
buona e disillusa novella (al cui valore di decisivo
annuncio il poeta volle rimandare con l'iniziale epigrafe
evangelica: e gli uomini preferirono le tenebre alla luce)
attraverso un'espressione lirica, in una rappresentazione
poetica della propria personalità persuasa e annunciatrice e
nel mito-parabola della «ginestra».
Non più eroi della storia illustre classica: Bruto minore o
Saffo, ma un'entità naturale delicata e modesta, risoluta e
antiretorica, che oppone alla violenza della natura il suo
esistere senza superbia e senza servilismo come l'uomo
ideale con cui il poeta si identifica in un autoritratto
formidabile che non poteva più contenersi nell'iconografia
sonettistica di Alfieri e Foscolo. L'uomo cosciente della
situazione umana, del deserto flagellato dalla natura, né
vanamente orgoglioso né vilmente implorante e invece pronto
alla compassione e alla solidarietà nel suo mondo tutto
umano, illuminato da virtù umane cui è base essenziale
l'estrema lucidità e la sincerità e la responsabilità non
inquinata da nessuna forma di retorica e di autoinganno.
Il poeta si identifica con tutto l'uomo e con tutti i suoi
impegni e perciò rifiuta ancor più nettamente le forme più
tradizionalmente poetiche e le forme idilliche in cui si era
espresso così altamente, ma secondo una prospettiva che non
era quella più urgente e complessa che adesso lo sollecita e
chiede tanto più chiaramente modi nuovi e se si vuole
sconcertanti per chi abbia negli orecchi la musica idillica
e dietro ad essa tanta altra musica della tradizione poetica
petrarchesca - tassesca - metastasiana a cui il Leopardi
idillico era stato più aperto ed attento.
Eppure anche questa scura e cupa della Ginestra è musica
autentica potente ed audacissima, slanciata in lunghi e
articolati impeti sinfonici che nascono al di là della
melodia e del canto, e si strutturano in strofe sostenute da
uno scatto malinconico e virile che riesce a legar
intimamente mosse energiche polemiche e sdegnose,
rappresentazioni dello sfondo desolato e grandioso della
campagna vesuviana, delle rovine di Pompei, di un cielo
immenso e pauroso, ed esortazioni e il messaggio della
eroica e disillusa solidarietà umana, proprio in quanto esso
è radicalmente un motivo lirico, il passo lirico della
personalità persuasa, e non un astratto legame di motivi
diversi e frammentari.
Unitario il tema e lo spirito, unitario e coerente il ritmo
ed il tono di questa musica potente e severa, e lo stesso
scatto perentorio ed energico tende la strofe, le singole
immagini, le parole sempre più nude e insofferenti di
velature di sogno, le cose che si presentano nel colore
livido e vero di oggetti scabri ed essenziali: «l'arida
schiena del formidabile monte sterminator Vesevo, lo qual
null'altro allegra arbor né fiore», la «mesta landa», «il
frutto indurato», «i campi cosparsi»
|
di
ceneri infeconde e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al pellegrin risuona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio. |
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Come si
presentano nude ed energiche (con lo stesso tono: ed è
notoriamente, il tono che fa la musica) le mosse eroiche
della personalità sdegnata contro il secol superbo e
sciocco, bisognosa di un'assoluta separazione di
responsabilità dalle illusioni ottimistiche delle magnifiche
sorti. La stessa forza con cui prima aveva affermato la
presenza e la superiorità assoluta del pensiero d'amore, poi
l'invocazione della morte, poi l'incompatibilità fra
l'immagine interna e la realtà di Aspasia:
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Non
io
con tal vergogna scenderò sotterra,
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto. |
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Personalità
identificata con l'uomo spiritualmente nobile ed eroico.
Fondamentale unità e condizione lirica romantica che
corrisponde ad un unico tono di
rappresentazione-affermazione in cui i due termini sono
inseparabili come meglio si può intendere con l'intera
lettura di quel singolare capolavoro o almeno con quella
delle sue strofe (la quarta) in cui il poeta dalla
contemplazione del firmamento affascinata e paurosa passa
alla costatazione della piccolezza dell'uomo e della sua
vana superbia.
Ma non si tratta, come si potrebbe astrattamente pensare e a
volte si è detto per pigra adesione alle formule più
consuete, di un passaggio da un momento poetico
contemplativo ad uno polemico e prosastico, ché i due
momenti vivono dello stesso slancio e si sviluppano con lo
stesso ritmo, lo stesso accento, lo stesso linguaggio e la
contemplazione severa e paurosa dell'infinità dei cieli non
avrebbe senso poetico in quel suo approfondirsi e scandirsi
ossessivo se non vivesse liricamente come parte di una unica
affermazione poetica, di un unico sentimento della sperduta
esistenza e piccolezza della terra e dell'uomo in un
infinito la cui contemplazione non può più risolversi in
estasi idillica, ma in conclusione disperata ed eroica. Ché
se nella prima parte si può pensare come ad un singolare
ritorno di temi da Infinito e da Canto notturno qui in
realtà c'è tutt'altro tono: la sicurezza di una persuasione,
che non sfugge l'arido vero e non lo armonizza ed attenua
nelle domande incantevoli del Canto notturno, ma lo
affronta, se ne fa apostolo, ne rappresenta liricamente
tutti gli aspetti e le conclusioni di messaggio del poeta,
uomo fra gli uomini.
Un riso cattivo di escluso, di incapace a vivere, di
negatore di provvidenziali cure superiori perché malato e
deforme? Come, ahimè lo spiritualista e «cristiano» Tommaseo
rappresentava le petit comte che si dondolava sulla riva del
mare canterellando: «il n'y a pas des dieux parce que je
suis bossu; je suis bossu car il n'y a pas des dieux».
Lo scherno e lo sdegno che anche in questo ultimo capolavoro
si esprimono con una singolare forza di sintesi di pensiero,
si cambiano nelle parti positive della Ginestra, nella
simpatia e nella vicinanza profonda con cui il Leopardi al
termine della sua lunga e sofferta esperienza vitale,
rinsaldava più fortemente i suoi vincoli di uomo con
un'umanità sobria, eroica, antiretorica, quale egli la
raffigurava nel suo ultimo messaggio poetico. |