DALLE OPERETTE
AI NUOVI CANTI
Il terzo e
il quarto volume dell'epistolario leopardiano pubblicati dal
Le.Monnier a cura del Moroncini ci riportano agli anni '25,
'26 e '27, che furono anni di sosta o di attesa, e certo i
meno drammatici della vita del poeta. Il 13 dicembre del '24
ha finito di scrivere anche le note al libro delle Operette
morali; l'aprile del '28 scrive nuovamente dei versi, « ma
versi veramente all'antica, e con quel suo cuore d'una volta
» (ché versi all'antica non eran quelli dell'epistola, Al
conte Carlo Pepoli, composti nel marzo del '26, e recitati
la sera del lunedì di Pasqua all'Accademia dei Felsinei; di
assai grave fattura, e forse i più prosastici che siano mai
usciti dalla sua penna). Dalle Operette dunque ai nuovi
Canti: intervallo grande fra i tempi massimi dell'arte
leopardiana.
Noi sappiamo in questi anni a che cosa lavorò il Leopardi, e
vedremo che significò quel lavoro. Cerchiamone intanto
notizia nella lettera. E cercheremo poi altra notizia, più
difficile, più segreta, da scoprire direi nel moto interno
delle parole, in un'annotazione, in un grido; avviso di quel
che sarà. Saranno, specialmente, le lettere degli ultimi del
'27 e dei primi del '28; e quelle altre, funeste, dei primi
del '25, stando ancora a Recanati, e sempre di quando vi
tornò. Lettere tutte toccate dal dolore e, come spesso gli
accadeva, da una sorta di felicità creativa, o da un
fermento nuovo. Alle quali bisognerà accompagnare le sempre
più rare pagine dello Zibaldone, dove forse meglio il
Leopardi amò parlare a sé, con sé, e confessarsi.
Finite le Operette, per un anno almeno, neppure il più
piccolo cenno, scrivendo ad altri; ma solo il ragguaglio dei
suoi viaggi e dei suoi nuovi lavori. Viaggi per cercar
lavoro, lavoro per comprarsi la libertà (da Bologna, il 3
luglio del '26: «Io vivo qui una vita bastantemente comoda,
e libera come l'aria; che è tutto quel che io desidero dalla
fortuna»). A Recanati, dato termine alle note che dovevano
seguire alle Operette, passeranno due giorni appena, e il 15
dicembre prenderà a tradurre Isocrate. Il tradurre fu sempre
per il Leopardi una conquista o una riconquista. Così negli
anni primi, e che furono, anche quelli, tre anni, tra il '15
e il '17; così in questi. Allora Mosco, Omero, Virgilio,
Esiodo; ora Isocrate, Epitteto, Teofrasto. A rinforzo di
quel tradurre, qualcosa di assai vicino al tradurre, una
prosa placida, una contenta quieta scrittura, come fu quella
del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, e poi
prefazioni studiosamente lavorate, con un cotal cenno di
riso intellettivo; a rinforzo di questo tradurre,
l'interpretazione al Petrarca, e la Crestomazia italiana de'
prosatori, e l'Annuncio alle Canzoni, tutto scattante, e le
prefazioni, e il fedele specchio dello Zibaldone.
Solo il lavoro al Petrarca gli dispiacque: «lavorettaccio
noioso», «tanto lungo e difficile quanto noioso», «certo il
più noioso» che avesse provato in vita sua, e che gli costò
«somma difficoltà, lunghezza e noia »...
Ma tra il '25 e il '27 il Leopardi scrisse altro ancora in
prosa, che ci aiuta a capire di che si nutrisse la sua nuova
poesia, e ci dice che cos'altro bisogna cercare in una
seconda e più segreta lettura delle lettere. E lasciamo il
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, difficile e
disamena e ghiacciata conclusione di quello che aveva
artisticamente immaginato e espresso nelle Operette. Stando
a queste sole pagine, non si penserebbe per nessun segno a
un moto di rinascita. Ma proprio nel '27 scrisse il Dialogo
di Plotino e di Porfirio, con quelle ultime disperate e
consolanti parole, nelle quali Porfirio, tentato di morire,
sente una voce nuova, ma umanissima voce ammonirlo:
«Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non
ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha
stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo
a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando,
e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel
miglior modo questa fatica della vita». E scrisse il
Copernico, dove un guizzo di ritornante fantasia rallegra il
miserabile concetto della umana vita...
Già tutti questi tre anni portarono questo privilegio
grande, che riscopersero al Leopardi un nuovo Leopardi.
Annoterà il 23 luglio del '2-7 nello Zibaldone le prime
righe di quelle Memorie della mia vita dove ricercherà le
impressioni del tempo lontano, dell'antica vita; ma prima,
viaggiando, riscoprirà Recanati, sognerà di Recanati; e
questo lo strazierà e consolerà. A Bologna, da poco che ha
lasciato la casa, il 23 novembre del '25 confessa: «in certe
passeggiate solitarie che vo facendo per queste campagne
bellissime, non cerco altro che rimembranze di Recanati» . E
poi, più tardi, a Pisa, il 25 febbraio del '28, poco prima
di scrivere quei «versi all'antica»: «ho qui in Pisa una
certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle Ricordanze:
là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi
assicuro che in materia d'immaginazioni, mi pare di esser
tornato al mio buon tempo antico». Si duole, sì, delle
stagioni e dei mali suoi, ma loda e aspetta la primavera, e
sente il ristoro di certi momenti di salute tollerabile.
Sogno, rimembranze, strade segrete, tempo antico. Queste
parole toccanti egli le assapora con una commozione nuova, o
esse gli toccano l'animo. L'ultimo fermento, come un
inebbriamento di dolore, gli verrà dalla disperazione, e
proprio la disperazione provata nel soggiorno fiorentino.
Quel mal d'occhi, e non poter leggere, non poter fissare la
mente a una idea, e passare i giorni a sedere con le braccia
in croce («Un morto passa la sua giornata meglio di me».
«Sono stanco della vita!»). Da un riprofondamento in se
stesso come questo erano nati i primi idilli, da quella
stessa, disperazione per vivere ore e giorni e mesi nel
buio, sempre per il suo mal d'occhi («La mutazione totale in
me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si
può dire dentro un anno, cioè nel 1819, dove, privato
dell'uso della vista...»). Quando arriverà a Pisa, l'oro dei
Lungarni lo attrarrà come un miraggio, uscito da quella
lunga notte. E poi quell'assalto di sogni e, «per le
circostanze mutate», il risorgere della speranza. Canterà il
suo risorgimento nei due canti pisani, e nei pensieri dello
Zibaldone ne farà il commento segretissimo, e com'essi
nacquero e che cosa se ne aspettava (che riscaldassero la
sua vecchiezza «col calore della sua gioventù», col fargli
«provar qualche reliquia de' suoi sentimenti passati, messa
quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in
deposito»). I luoghi, i ricordi, i pensieri che annota,
tutto aiuta questa commozione; ma anche aiutano, quei
pensieri, a sfogarla prima un poco, per preservare il canto
da quel troppo che avrebbe, forse, potuto turbarlo. È
proprio l'«untuosità come d'olio soavissimo» ch'egli diceva
di trovare nel Petrarca, derivante dall'influsso che ha il
cuore nella sua poesia; e gli ultimi anni gli avevano dato,
con «una certa allegria interna» nata dalla malinconia, una
coscienza stilistica che non ha l'eguale nei poeti del suo
secolo. Aveva servito anche quella attesa di tempo
protratta, e quel sognare di Recanati e ritrovare, dietro
quell'invito, gli anni persi, l'età favolosa. |