STORIA DELLA
PAROLA LEOPARDIANA
Chi non si
faccia deviare dai titoli, o talora dai tratti polemici
della poesia leopardiana, troverà che spesso anche in un
canto funebre la materia che meglio lo ispira è per sé
stessa gioiosa: e prorompe nei particolari, sia la primavera
del Passero solitario che brilla nell'aria e per li campi
esulta o la notte dolce e chiara, e l'ermo colle e il dolce
naufragar dell'Infinito, o la giovinezza di Nerina e
l'adolescenza di Silvia, o il pastore che guarda greggi
fontane ed erbe: o tutta infine la gioia e bellezza del
mondo naturale, in quella parte che gli offre sostanza di
ricordo o desiderio. E troverà che il più delle volte quella
materia fu essenzialmente una brama di gioventù e di
primavera, perfino una brama di memorie, e si espresse come
privazione che ebbe nome positivo di affanno e dolore e
noia, ma era assenza di gioventù. Se il dolore fosse
insuperabile nessun poeta avrebbe potuto esprimerlo.
Certo se egli canta l'affanno o la gioia, ciò che conta è la
particolare tenerezza e il suo accorato accento, non per
loro terrestre immediatezza, ma in quanto son poeticamente
rappresentati e fatti universali e la loro deità non è più,
a dir vero, una storia di dolori o di gioie, quanto una
storia della parola leopardiana.
In tutte le negazioni una fede assoluta e che non ha bisogno
di altra dimostrazione resiste: ed è la fede nella poesia o
nella sua minor sorella che è l'arte della parola. La
contraddizione di usar ragione contro la ragione non può mai
giungere all'uso della parola poetica contro la poesia. E
allora il dolore diventa soltanto la serena rappresentazione
del dolore umano e cosmico e la noia una profonda immagine
dello spazio che «riempie tutti i vuoti».
Così il poeta crede nella poesia, e in questa si salva. E
anche la gloria gli vale soltanto come una presente
compagnia dell'arte, nell'animo che, uscito appena dalla sua
opera, si sente a contatto con l'universo, in una società
assai più vasta di quella medesima degli uomini; e gli anni
e le stagioni aduna in un suo attimo.
Così la più profonda storia di un'anima è quella della
parola leopardiana. Chi, infatti, volesse isolarne la
materia dolente per definire l'originalità del poeta,
dovrebbe accorgersi come sempre avviene, che la materia dei
Canti è comune, non soltanto nella tradizione remota, ma
anche in quella settecentesca più vicina: e che dunque
soltanto l'accento nuovo del poeta crea una materia
originale: e l'accento è quella storia, appunto, della
parola.
La materia dolente dei suoi Canti correva le vie d'Europa in
quel tempo, e sempre...
Ma appunto l'originalità della poesia è nel particolare tono
col quale la materia, vorrei dire con un linguaggio caro ai
pittori, si distrugge. E questa originalità il Leopardi ebbe
a tal segno da ridare un senso di novità sorgiva anche alle
comuni frasi con le quali un tempo, nella tradizione dei
poeti, e nel corrente linguaggio, quella materia fu
espressa.
Fate che una sola di queste frasi fantoniane o una sola di
quelle parole metastasiane citate più innanzi sia
pronunziata dal Leopardi, e diverrà grave di una sovrumana
malinconia, e tuttavia librata in quel cielo in cui gli
umani affanni son mutati nel canto aereo della Memoria e
delle giovani Muse.
I tratti esterni del linguaggio leopardiano son triti
anch'essi, quasi un catechismo poetico in cui ad ogni
domanda la risposta è immutabilmente la stessa.
In questa lingua poetica il fato è acerbo o duro; la vita è
il viver anzi il viver mio; il tempo è l'età, l'etade, la
stagion; il giorno è il dì; i mali della vita son danno o
affanni; le illusioni sono errori, inganni, larve, fantasmi
e, finalmente, fole; la Speranza è Speme o Spene (e si
congiunge con le parole tanta e cotanta); il desiderio è
desio o desire; i ricordi sono ricordanze; gli svaghi e i
giochi son trastulli e sollazzi; la fama è grido; ogni spada
o pugnale sono un acciaro, un ferro, un brando.
In questa lingua che pare fissata una volta per sempre da
Francesco Petrarca, e ripresa da Pietro Metastasio, l'anima
è l'alma; il core è quasi sempre il cor; la giovinezza è
l'età verde o l'età novella o il fior degli anni miei; la
faccia è il sembiante, gli occhi diventano spesso luci,
lumi, rai, ciglio (anzi, il ciglio mio o tuo); la bellezza è
beltà e la beltà è celeste, angelica, raggio divino; la
giovinetta è donzella, e il giovane è garzone o garzoncello.
Placida e quieta è la notte; candida o tacita è la luna come
tacita è la selva; le vie del cielo son calli e magari
sempiterni calli; gli uccelli sono augelli e gli animali son
fere. La casa è un ostello, magari patrio o paterno, ed è
albergo o perfino stanza; e i letti si chiaman piume; e di
chi sia affaticato si dice che ha infermo o egro il fianco;
e se qualcosa ti manca si dice che tu ne sei orbo o digiuno,
o magari mendico, o, finalmente, nudo; e se una cosa non
t'importa, si dice che non ti cale, anzi, magari, non ti
cal. Che meraviglia se in questa lingua poetica si esclami
ancora: Oh Numi?
Ebbene, proprio con queste parole nei lor giri più
letterariamente tradizionali, e che a prenderli staccati
paion consunti e perfin ridicoli; proprio con queste voci
sollevate in una musica che le fa risuonare sotto un nuovo
arco, ove par che sian dette per la prima volta, Giacomo
Leopardi ha creato i suoi più originali incanti.
Storia della parola vuol dire tono, quella particolare
tenerezza leopardiana di cui si è detto (il contenuto
affettivo) assunta nella modulazione e forma sua
particolare, nel suo universal canto. E qui l'originalità è
in una proporzione sintattica e melodica e visiva che
adopera parole e gruppi di parole tradizionali in un nuovo
equilibrio.
La poesia leopardiana sembra assorbire con assoluta purezza
tutta la cosiddetta lingua poetica della tradizione
italiana, e pone così un delicato problema ad ogni
interprete, invitando a ragionare, volta per voltale
parentele delle espressioni leopardiane col lessico e i
costrutti dell'antica lingua poetica.
Esse sono il frasario elementare di Giacomo Leopardi, e,
come avviene nei più grandi poeti, sono un lessico primo, il
quale è fatto non tanto di parole deserte quanto di frasi e
associazioni che l'educazione letteraria rese spontanea alla
capacità creativa di un artista, diventate nella memoria un
modo della sua intuizione del mondo.
Ma quel frasario, perfin vieto, il poeta rinnova con un
semplice tocco, e da letterario lo trasforma in poetico.
Tutta l'Arcadia si riscatta in poesia...
Questa nostra insistenza sul linguaggio tradizionale del
Leopardi non vuol già portare l'accento sul richiamo
letterario; anzi sulla trasfigurazione poetica la
reminiscenza si effuse, e, direi, si obliò. Questo non vuol
essere un inerte richiamo della cosiddetta fonte, o una
comparazione d'antica maniera: troppo si abusò di tali
riferimenti inutili, perché ci possa accadere di esserne
teneri.
L'intensità di quelle parole è appunto nel rapporto tra la
loro storia illustre e la lor nuova vita nella poesia
leopardiana. Ecco che qui il problema di una fonte non è
sterile, ma è necessario a cogliere più in profondo la
lirica leopardiana, a percepire quel senso, quel tono nuovo
che nel filtro di un tal poeta, nella virtù di così vasto
sentimento, assumono le voci della grande tradizione greca e
latina e italiana. Ed è anche un modo di approfondire la
teoria stessa generale dell'arte, giungendo all'intima
sostanza della poesia.
Un poeta ridarà alle parole, alle frasi, ai costrutti un
significato sorgivo e un suono e un diverso peso: ne
attenuerà la metafora o la farà più densa, chiudendo in essa
la tradizione di alcuni secoli o risalendo alla primissima
età, quando la voce era ancora mimetica, grumosa della
materia su cui nacque...
La ricerca del linguaggio, presso il Leopardi, è intesa a
mostrare dunque come nel nuovo tono del poeta l'antica frase
si rinnovi; non già a limitare od offuscare l'originalità
del Leopardi, che viene anzi ribadita proprio in ragione di
quella potenza che trasfigurò le fonti a una così diversa
poesia. |