IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

CINQUECENTO

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: IL CINQUECENTO

L'atmosfera boccaccesca della Mandragola

Per la commedia del Machiavelli, bisogna dire che il turpe, il sensuale, l'osceno si alleggerisce per questa astuzia dell'intelligenza, che percorre la vicenda da un atto all'altro. Il turpe negozio diventa a un certo punto un 'ingegnosa beffa. Tutto il '400 e particolarmente il '500 è ricco di una novellistica e di un teatro, ricco di motivi di beffa. Tali motivi procedono dal Decamerone, ma non come materia astratta; c'è invece un accordo storico più profondo di quei motivi boccacceschi con la nuova civiltà umanistica e rinascimentale, che ebbe il culto vivo e spregiudicato dell'intelligenza, della scaltrezza, dell'ingegnosità, della furberia, dell'abilità. Il Machiavelli è il pensatore in cui cotesta novella musa dell'intelligenza, dell'abilità, dell'astuzia, canta il suo poema più serio nel Principe e nei Discorsi; qui nella commedia, se ne ha il canto minore, per una sola notte d'amore. Benvenuto Cellini sarà l'ultimo artista di cotesta intelligenza «beffarda» e spregiudicata. Con la controriforma, comincerà la musoneria inventiva dei nostri novellatori e scrittori di teatro: l'intelligenza per l'intelligenza, la beffa per la beffa, comincia ad essere considerata ipocritamente un'empietà.
Ma non per questo cesserà l'ispirazione di tipo sensuale, anzi questa si ingrosserà in senso più animalesco: dove manca il sorriso giovanile della libera intelligenza, la carne si fa più pesante e lorda. Sul finire del 9500 e per tutto il '600 si ha una letteratura della sensualità senile, che, sotto un ipocrito moralismo, si sfoga in maniera più bassa e più oscena. La sensualità del Boccaccio saliva nelle sfere dell'intelligenza lucida e armoniosa; in questa letteratura tardiva, si discende invece all'animalità giovanile, estrosa, del Boccaccio, ma è pur la carnalità ancora dominata e infrenata dalla mente, è la sensualità virile infusa di una matura malizia, la quale lascia intravedere uno sfondo di amara tristezza. Callimaco, che iperbolizza volontariamente o involontariamente la sua impazienza d'amore, impersona questo tipo di avveduta e maturata sensualità. Accanto a Callimaco, c'è un personaggio beffato, messer Nicia, che dà l'aire allo spasso dell'intelligenza astuta e che comunica una festevolezza chiassosa a tutto l'insieme.

Messer Nicia è una specie di Calandrino machiavellico, con qualcosa di più scioccamente turpe che l'altro suo giovane precursore del '300 non ha. Calandrino passa per le menti di tutti come il tipo dello sciocco e del credulone, così come don Abbondio incarna ormai nella fantasia il pauroso per eccellenza. Ma in entrambi i casi si semplifica e si schematizza ciò che nell'arte è assai complesso. Don Abbondio non è semplicemente il pauroso, ma è anche il ferreo piccolo egoista, in cui sopravvivono le idealità morali della religione ma tutte rattrappite e però deformate comicamente; e don Abbondio è anche coraggioso, coraggioso quando c'è da difendere tale suo piccolo egoismo, il suo pacifico sistema di vita. Orbene allo stesso modo non è esatto dire che Calandrino sia solo uno sciocco, un credulone; gli sciocchi non hanno storia, e basta una semplice nota per colorirli nel mondo dell'arte. E Calandrino riempie di sé ben quattro novelle, così come messer Nicia occupa a ogni momento la scena della Mandragola, anche quando non è presente. Tanto che alcuni critici hanno voluto vedere in lui perfino il protagonista della commedia. Uno sciocco e un credulone non può interessare il mondo della fantasia, senza ingenerare fastidio e sazietà. E qui si parrà l'arte dello scrittore: complicare lo sciocco, o complicare lo sciocco turpe...

Quello che il Boccaccio aveva fatto con giovanile leggerezza per Calandrino, il Machiavelli lo ripete per messer Nicia, ma aggravandone lo spirito, con una malizia amara, che in certi tratti può apparire perfino polemica. Per Calandrino noi ridiamo, per messer Nicia noi ridiamo e ci irritiamo. È un immondo babbeo! La comicità del Machiavelli ha uno sfondo più etico che nel Boccaccio, in cui l'estro della fantasia è più disinteressato e svagato; direi, è ancora un gioco fanciullesco. Ma ecco qua messer Nicia, dottore, un dottore che ha « cacato le curatelle per imparare due hac » come dice lui stesso in un momento di sincerità, eccolo qua a giudicare e sentenziare su tutto il mondo, su medici di Firenze e di Parigi, quasi egli fosse un gran baccalare. Si è consultato con loro per i bagni della moglie, quelli che possono essere più favorevoli alle gravidanze:
 
 

Oltra di questo io parlai iersera a parecchi medici. L'uno dice che io vadia a San Filippo, l'altro alla Porretta, l'altro alla Villa; e' mi parvono parecchi uccellacci, e, a dirti il vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescono.

 

Messer Nicia non vorrebbe saperne di andare ai bagni, perché egli si spicca «malvolentieri da bomba». E avere a travasare moglie, e tante masserizie », questo non gli quadra; e Ligurio, vile abile parassita, lo fa vergognare stuzzicando in lui la vanità del giramondo. Non andate ai bagni, gli dice, perché « voi non siete uso a perdere la cupola di vetta! ». E messer Nicia, togato nel vivo, ribatte:
 
 

Tu erri! Quando io ero più giovane, io sono stato molto randagio. E non si fece mai la fiera a Prato, che io non vi andassi, e non ci è castel veruno intorno, dove io non sia stato; e ti vo' dire più là: io sono stato a Pisa e a Livorno, oh va!

 

Ligurio fa l'ignorante che, ammirato, favoleggia di cose sentite ire ma non vedute, sicché messer Nicia può farla bene da gran dottore.

«Voi dovete aver veduto la carrucola di Pisa», e messer Nicia pettoto: «Tu mi vuoi dire la Verrucola». «Voi avete visto il mare? Quanto è egli maggiore che Arno?» ; e messer Nicia: «Che Arno? Egli è per quattro volte, per di più di sei, per di più di sette, mi farai dire: e non si vede se non acqua, acqua, acqua» . Parrebbe questo il trionfo massimo della sua saputa esperienza di mondo, ma a questo punto messer Nicia paga forte per tanta sua puerile presunzione:
 
 

Ligurio. - Io mi meraviglio adunque, avendo voi pisciato in tanta neve, che voi facciate tanta difficoltà d'andare al bagno.

Messer Nícia. - Tu hai la bocca piena di latte. E' ti pare a te una favola, avere a sgominare tutta la casa? Pure io ho tanta voglia d'avere figliuoli che io son per fare ogni cosa.

 

Da questo momento, nell'atto che canta vittoria, messer Nicia si rende captivo al suo parassita.
Questa l'astuzia artistica del Machiavelli; ma se è facile rilevare la presunzione sciocca del personaggio e la sua turpitudine melensi, sfugge forse ai lettori un'altra sua parte. Il Machiavelli, con molto accorgimento stilistico, ha prestato al personaggio un linguaggio particolarissimo, il più idiotistico e il più proverbiale fiorentino del tempo. Il linguaggio dialettale, il municipalismo linguistico, può essere o raffinata civetteria estetica oppure è segno di angustia e goffaggine spirituale; e i proverbi possono testimoniare gravità religiosa, come i proverbi di padron 'Ntoni, oppure sono segno di vacuo parassitismo mentale. Messer Nicia parla per proverbi e per modi di dire affinati ormai da una tradizione: sicché a ogni suo verbo, tu senti cantilenare il più bel fiorentino, ma che risuona a vuoto. Vi avverti dentro qualcosa di fesso, di trito, di ripetuto, di luogo comune che ti eccita per cotesta sapienza facile e molle del parlatore. Per esempio. Egli dice: «Io mi spicco malvolentieri da bomba», e bomba era il luogo privilegiato di una partita di giuoco, molto in uso a Firenze, per cui si diceva spiccarsi da bomba e ritornare a bomba. Diffidando dell'improvvisa medicheria di Collimaco, egli ancora osserva: «Io non vorrei che mi mettessi in qualche lecceto e poi mi lasciassi in su le secche»; e poi, quanto alla sua scienza medica, aggiunge con gravità: «Io ti dirò ben io come gli parlo, se egli è uomo di dottrina, perchè egli a me non venderà vesciche».

Ancora un altro proverbio, quando messer Nicia ammonisce Ligurio di chiamare Callimaco col suo titolo di maestro, perché dottore in medicina, e Ligurio risponde: «E' non si cura di simili baie!». E messer Nicia di rimando lo esorta a fare il suo dovere, anche se Callimaco dovesse aversene a male: «Non dire così, fai il tuo debito, e se l'ha per male, scingasi!». Si cali pure le brache, cioè, se se ne ha per male; tu non te ne dar pensiero. Ed è questo assai antico proverbio, e piuttosto raro. E ci sarebbe da allinearne ancora tutta una filza, come quel «Ho più fede in voi che gli Ungheri nelle spade» e « Bisognava che io mi impeciassi gli orecchi come el Danese », «E ora mi hanno qui posto, come un zugo, a piuolo», e «noi entriamo in cetere», «Come disse la botta all'erpice», il quale ultimo proverbio provocò un lungo chiarimento del Machiavelli al Guicciardini. Ciò che ci fa sospettare quale dovesse essere lo spasso dei contemporanei per questo idiotismo linguistico di messer Nicia, che faceva tutt'uno con la sua goffaggine mentale. E non si dice nulla del suo gergo allusivo ai rapporti sessuali della moglie con l'ignoto rubaldone, a cui doveva esser piaciuto «l'tinto», se si era attardato in camera sino all'alba. Questa parte svela quel giubilo di laida lussuria, che freme nelle carni del vecchio, e a cui accennavamo più innanzi.
Ma la fantasia si ferma più volentieri sull'altro eloquio raffinato e passivo, efficacemente popolaresco e tradizionalmente consacrato, in cui ammiri la bravura del parlatore e al tempo stesso misuri tutta la sua vacua sufficienza. Messer Nicia è come l'asino, di cui parla Giordano Bruno, che portava il Santissimo e non lo sapeva. Egli, a un certo punto, per effondere la sua ammirazione per la dottrina medica di Callimaco, così si esprime con bestemmie da becero, e con i modi del più elegante fiorentino parlato: «Oh, uh potta di San Puccio ! Costui mi raffinisce tra le mani; guarda come ragiona bene di queste cose!». È il personaggio a cui il Machiavelli presta l'eloquio più fiorito, più geniale del suo tempo. Ecco qua questo bel quadro della vita striminzita di certa Firenze piccola, che poi doveva diventare proverbiale nei secoli. Il nostro scioccone parla di Callimaco che, per il suo gran talento di falso medico, non può trovar piazza adatta se non Parigi:
 
 

E fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi; non ci si apprezza virtù alcuna. Se egli stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardasse in viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per imparare due hac; e se io n'avessi a vivere, io starei fresco, ti so dire! Chi non ha lo stato in questa terra, de' nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad altro che andare a' mortori o alle ragunate d'un mogliazzo, o a starci tutto dì in su la panca del Proconsolo a donzellarci.

 

Pare perfino una vendetta che messer Niccolò volesse fare di quella piccola Firenze invidiosa e pettegola che si delineava già sotto la signoria casalinga de' Medici, e che teneva al confino il grande segretario, o lo mandava, per fargli voltolare pur qualche sasso, a Carpi in un convento, alla ricerca di un buon predicatore che insegnasse ai fiorentini la via del paradiso. Una vendetta interlineare, ed eseguita (vedi malizia!) per la bocca del più sciocco dei suoi personaggi.

Luigi Russo

© 2009 - Luigi De Bellis