LORENZO
MAGALOTTI, SCRITTORE "ESQUISITISSIMO"
Sotto la
veste di ironica saggezza e di garbato distacco, si intuisce
nel Magalotti uno spirito avido di ogni avventura culturale
e letteraria. Due sono le direzioni fondamentali dei suoi
interessi: le relazioni di viaggi e gli scritti sugli odori.
Nelle prime si sente, più che una curiosità geografica e
positiva, la sollecitazione tutta estetica della fantasia,
mentre nei secondi si realizza anche stilisticamente una
cosí sottile estenuazione della sensibilità da far pensare
in anticipo a certo gusto decadente della fine
dell'Ottocento. La sua è una prosa ricca e sostanziosa,
disinvolta nell'uso di termini stranieri e, pur nella sua
squisitezza letteraria, libera e sciolta come lingua
parlata.
Esquisitissimo in tutte le sue operazioni: questo elogio che
gli fa una volta un amico ricorre più o meno variato in ogni
sua biografia. Dentro quel superlativo la sua figura d'uomo
e di scrittore sta circoscritta perfettamente, e se vogliamo
anche delimitata. Nella schiera dei classici italiani lo si
intravede non diverso da quello che dovette comparire per le
anticamere granducali o per le case dei suoi nobili amici:
con lo stesso abito di accorta sprezzatura e apparecchiata
negligenza, con quella naturalezza inappuntabile che è il
frutto di uno studio coperto e profondo. «Quella stessa che
al volgo sembrava morbidezza e delicatezza soverchia, non
era che un desiderio di perfezione, schifante in
qualsivoglia cosa quanto si fosse leggiera qualunque
mancamento. Politissimo in tutto il suo trattamento, scelto
in ogni sua azione, amicizia, conversazione, scrittura.
Aveva una certa sua perpetua ironia, somigliante alla
socratica, con dire per tutto che non era, né aspirava ad
essere né a fare il letterato; ma quanto più simulava di non
esserlo, con un certo suo naturale cavalleresco garbo, tanto
più spiccava in esso una fina rara e profonda, benché
dissimulata, letteratura. Tirava allo straordinario ed al
raro».
In questi tratti ed altri simili che ci han lasciato i
contemporanei del filosofo morbido (com'era soprannominato
dagli amici) par di cogliere come una vaga anticipazione di
un tipo comparso quasi due secoli dopo e fuori d'Italia:
gente travagliata da impazienze e scontentezze universali,
che adattava al proprio travaglio un volto di superiore
urbanità e d'ironia, e si compiacque di scorrere le più
diverse province dell'intelligenza e dell'arte con la
libertà dei maestri, ma in posa di passanti e dilettanti,
affettando di non ambire altro magistero che quello della
frivolità.
La parte dell'opera magalottiana che riesce più curiosa al
gusto moderno si può dividere in due gruppi: le relazioni
esotiche e gli scritti sugli odori. Sembrano nascere le
prime non tanto da quell'interesse positivo, mercantile o
scientifico, per terre scoperte di fresco che ispira le
altre scritture del genere contemporanee o anteriori, quanto
da una nostalgia vaga, da una inclinazione fantastica e per
cosí dire estetica puramente, senza intenzioni pratiche,
verso climi incogniti e strani. Di questo esotismo che
doveva cosí fortemente tinger di sé il sette e l'ottocento,
v'è qui appena un primo e disperso sapore, ed esso vi è
piuttosto presentito che attuale: ma val pure la pena di
toccarne, perché non sarebbe facile trovarne preavvisi più
antichi. Che senza esser mai uscito da quella che egli
chiama l'Europa non barbara, né aver mai neppur desiderato
d'uscirne, un puro divertimento intellettuale lo portasse
verso le parti più lontane del mondo, ce lo attestano, oltre
a numerosi accenni nella sua corrispondenza e a certi luoghi
delle sue poesie, l'edizione che egli diede dei Ragionamenti
del Carletti, la Relazione sulla China e la sua traduzione
delle Relazioni varie, riflettenti diverse curiosità di
Africa ed Asia. Traduzione per modo di dire: poiché non
occorre aver visto gli oscurissimi originali per intendere a
prima vista come essi abbiano offerto al Magalotti non più
che uno schema di nude notizie, che egli ha riempito
amorosamente con tutte le dovizie del suo ricchissimo stile.
Venendo agli odori, è risaputo che il XVII fu il «secolo
profumatissimo». Non solamente si usavano gli odori con una
abbondanza di cui non abbiamo idea, a profumarne vesti,
guanti, stanze, cibi e bevande, ma era la moda di farli e
combinarli da sé: e a cominciar da principesse e sovrani che
nei loro palazzi in tamburlani d'oro stillavano essenze a
furore, non v'era persona elegante che non avesse in casa la
sua «fonderia». Tutti questi nobili profumieri guardavano al
Magalotti come a uno dei loro primi arbitri e inspiratori.
Fu egli a introdurre in Italia la moda dei buccheri, o
barri, che eran vasi fatti con certe speciali terre odorose,
i quali profumavano insieme l'acqua che contenevano e l'aria
delle stanze; i fanatici arrivavan persino a mangiarseli
pestati e ridotti in pastiglie. Chi vuole che i gusti dei
vecchi fossero più grossi, o più «sani» come dicono, dei
presenti, si vada un po' a leggere che razza di gente
fossero quei quattro o cinque amici del Conte, che erano i
più famosi buongustai in materia: i «mistici profumati»,
l'«Accademia degli Odoristi Cavalieri, sotto la protezione
del genio tutelare della svogliatura del secolo». Pur tra
questi difficilissimi, il Conte era dei più delicati. Quel
suo temperamento fantastico e gli umori bruciati lo traevano
fortemente a questi termini della sensualità, nella
provincia del più aereo tra i sensi, se tant'è che senso lo
si possa ancora chiamare; al punto da fargli rammentar con
invidia le «voluminose spugnosità» di cui si giova l'olfatto
dei cani, le quali asciugano l'aria anche degli ultimi
residui odorabili. Nessun antico o moderno s'è mai
addentrato con tanta avidità né cosí a fondo tra questi
volatili piaceri, li ha cosí sottilmente esplorati. Quando
egli si avvicina a quest'argomento, il suo stile incomincia
tosto a fremere, a incresparsi e a dividersi in volute
capricci e rabeschi, infiorandosi via via di termini sempre
più vaporanti e sfumanti per cogliere voluttuosamente anche
le estreme gradazioni della sensazione odorosa, già cosí
tenui che è dubbio quanto sia in esse di percepito, quanto
d'immaginato. E arriva a toccarle, e a dare un nome a ciò
che non pareva neppur più sensibile, nonché suscettivo
d'esser descritto. Né bisogna lasciarsi ingannare dal tono
di scherzosa amplificazione che egli suol prendere in quei
momenti, quasi per nascondere il soverchio del suo piacere:
sono veri e propri eccessi di un senso tanto eccitato da
accendere in lui come un leggerissimo delirio, e da rapirlo
sino a un punto di ebbra lucidità.
Un trenta o quarant'anni or sono, tra le molte fissazioni
che tenevano i «decadenti» di allora, v'era anche quella di
un'arte dei profumi. N'è rimasta traccia in un libro che
oggi nessuno più legge, ma che fu una delle tante Bibbie di
quel tempo scomunicato. Il nevrastenico protagonista di
questo romanzo suda a stappare e a ritappar boccette d'odore
per suggerire a se stesso certe visioni composite. Che rozza
cosa diventan codeste scipitaggini da musica descrittiva del
povero Des Esseintes accanto alla musica pura dell'odorista
secentesco! le sue delizie da bazar parigino di fronte alla
voluttuosa liturgia, alla beatitudine delle interne
liquefazioni, agli abissi di luce odorosa del nostro mistico
profumato! Espressioni, sia detto in parentesi, che attesi i
principi professati da lui non sono senza mandare un certo
sentore di zolfo.
Resta da dire una parola in generale sul suo modo di
scrivere.
In giovinezza fu un purista arrabbiatissimo, tanto da non
voler usar voci che non fossero del trecento. Ma subito che
ebbe incominciato a viaggiare fuori d'Italia, mutò del tutto
opinione, e divenne il primo grande importatore di quei
famosi forestierismi che si sono cosí largamente insinuati
nella nostra lingua. «Io per verità non fo gala della
barbarie nello scrivere, ma non la fo nemmeno di quella che
si chiama purità, e che all'orecchie di tutto il resto
d'Italia passa per arcaismo o per affettazione; testimonio
una gran parte di questi signori nostri coaccademici della
Crusca, che mi considerano per corruttore della severa
onestà dei nostri antichi». Il numero di voci straniere che
egli adottò è infatti stragrande; e se non tutte
attecchirono, molte sono quelle che subito accettate
dall'uso concorsero a formare l'italiano moderno. Meglio
accorto dei suoi censori, il Magalotti aveva capito che in
ultimo la pratica ha il passo sulla grammatica; e che
l'Italia dopo aver cessato di foggiare la vita moderna,
doveva anche rinunziare a trovare nomi suoi per le molte
cose nuove che in essa venivano comparendo ogni giorno. V'è
poi da dire che quei vocaboli estranei venivano gettati da
lui dentro la pasta sceltissima d'uno stile stupendamente
italiano, tutto materiato e dell'uso vivo toscano e della
miglior tradizione. Il risultato è una prosa di gran
ricchezza e sostanza, cui l'alta maturità e qualche vena di
corruzione rendono particolarmente piccante e faisandée, per
usare un termine d'alta cucina: tutto insieme un regalo
assai prelibato per chi ha il gusto fatto a simili
squisitezze. Limare non era il suo forte, e qualche oscurità
e negligenza qua e là fanno pensare che a più d'una pagina
sia mancata l'ultima mano. Dei molti influssi stranieri da
cui seppe cavar partito non è qui il luogo di trattare.
Basti che alla scuola degli inglesi e dei francesi,
assiduamente praticata, perdette quel poco d'impaccio che
s'incontra negli scritti della prima età, e acquistò quella
scioltezza, familiarità e vivezza d'eloquio che distinguono
quelli posteriori; scorrendo i quali vien fatto di chiedersi
se una dozzina di scrittori del suo stampo non sarebbe
bastata a sanare quel divorzio tra la lingua letteraria e la
lingua parlata d'Italia, che rende così imbarazzati i
rapporti del pubblico italiano con i propri scrittori.
D'animo smanioso, d'intelletto squisitamente critico, di
gusti difficili e stanchi, il Conte Lorenzo Magalotti,
propagatore della filosofia galileiana, poligrafo e uno dei
padri della diplomazia moderna, «touriste» svogliato, uomo
di mondo internazionale, sta dunque non troppo in vista,
come a un gentiluomo si conviene, sulla soglia d; questo
nostro tempo moderno, del quale egli ha presentito più di un
aspetto. Ma se la fama che ebbe da vivo sembra in molta
parte svanita non meno di quei magisteri odorosi che egli
amava manipolare, molto del linguaggio di cui ci serviamo è
suo, e non poche delle sue inquietudini e curiosità e
stanchezze, anziché morire con lui, sono rimaste nell'aria
dei tempi che vennero dopo, e durano tuttavia in questa che
respiriamo. Che è poi una maniera anche questa d'essere
immortali: anzi la più discreta. |