IL LINGUAGGIO MISTICO DI JACOPONE
Jacopone non è Dante che parte da una esperienza
religiosa e arriva alla poesia di quella religione,
sotto il regno del buon Apollo e delle nove Muse che gli
dimostran l'Orse: il nostro mistico non asseta la fronda
peneia, ché a lui parrebbe troppo caduco e profano
alloro, ma egli, per umiltà religiosa, raccomanda la sua
fama «al somier che va ragliando e sulla coda dell'asino
elegge il suo seggio : « e quel te sia per guidardone».
Il laudario jacoponico va dunque letto nella sua
versatile espressione letteraria, come la manifestazione
di un energico ed estroso temperamento. E allora avremo
il pedagogo, che scrive laude di ammonimenti e di
esortazioni e suggerisce regole di vita; avremo il
confessore dell'anima, che si impenna per mistica
voluttà a quelle sue stesse confessioni (Viver io e non
io - e l'essere mio non esser mio, - Questo é un tale
traversio, - che non so diffinitate!) avremo il politico
della religione, che satireggia e flagella la pompa dei
prelati, «grossura potente», e piange e dolora sulla sua
ecclesia perché «sente fortura di pessimo stato», e
accisma papa Bonifazio, per il troppo malvagio giunco
che egli ha conservato nel mondo.
In un uomo di rapinosa religione mistica come Jacopone
si avvicendano irrequietamente questi vari
atteggiamenti, ed egli ci viene innanzi anche come
filosofo e come teologo, pontefice di una sua fede
intima e solitaria. Jacopone è un mistico, e come tutti
i mistici, nell'atto del suo misticismo, è fuori della
Chiesa; il mistico fa chiesa da sé, e solo da sé.
Il papa, che è sempre infallibile, anche se uomo di
affetti carnali come Bonifazio, non ebbe torto dal punto
di vista della teologia della sua chiesa, di scomunicare
questo petulante emulo che parlava dal monte Penestrina.
Il misticismo di Jacopone è una filosofia che gli otri
vecchi ha dissipato.
Ogni mistico, ciascuno a suo modo inconfondibile con gli
altri, crea sempre una sua teologia. In questo senso il
mistico Jacopone ha una sua filosofia, una filosofia che
non è il riecheggiamento fantastico della filosofia di
Bonaventura o dei Vittorini (e in tal senso va corretta
la tesi del Gentile e del Casella), ma è la sua
filosofia, generata dal suo stesso sentimento e dalla
sua passione, mitologia del suo soffrire e gioire. Un
progresso negli studi jacoponici si può compiere,
individuando sempre più l'accento inconfondibile della
filosofia dell'autore. Vittorio Alfieri, nei suoi
trattati politici, non riecheggia Diderot, Voltaire,
Helvétius, Rousseau, Montesquieu; allo stesso modo,
Jacopone non è un seguace scolastico di Bonaventura o
dei Vittorini, perché egli è troppo caldo seguace della
sua anima. La sua filosofia (è qui la differenza dei
suoi maestri ex cathedra) non è sentita come sua, come
un discorso della mente, ma immediata vita circolare di
Dio stesso, come discorso di Dio : Vivere amor senza
affetto - e saper senza entelletto !
Cioè, nell'unità dell'uomo con Dio si ama senza che ci
sia un oggetto d'amore distinto dal soggetto, e si
conosce senza avere una intelligenza di una qualche
cosa: Omne luce è tenebria - ed orane tenebre c'é dia. E
questo è il sentire immediato, più che il riflettere
scolasticamente, di Jacopone.
La vita della mente in Dio è tutta tenebra perché è
tutta luce: quelle tenebre sono giorno, un giorno che
per non conoscere altra cosa diversa da se stesso può
dirsi «una luce ottenebrata». Da ciò la forma sincopata
della sintassi jacoponica: si tratta di forme
esclamative, come di chi non conosce relazioni fra le
varie parti del discorso, poiché esso discorso viene
sentito non come sillogismo ma come amore, tripudio,
giubilo, pensiero nella sua fase esclamativa dunque, più
che nella sua fase sintattica e sistematica: O iubilo
del core - che fai cantar d'amore! - Quando iubilo se
scalda - si fa l'uomo cantare; - e la lengua barbaglio -
e non sa que parlare, - dentro non po' celare, - tanto é
grande el dolzore. La più vera parola di questa poesia
mistica è il silenzio: la scuola di Dio giudica i nostri
pensieri tacendo, e dimostra i nostri sillogismi
soltanto per il suo immediato essere. La sua
onnipresenza è la sola filosofia. Ecco qui frate Ranaldo
che muore, dopo essersi laureato, «conventato», a Parigi
con molto onore e grandi spese. Frate Ranaldo, dove se'
andato? - de quolíbet si hai disputato? Davanti a Dio
non giova far sofismi, a petto a quei suoi forti,
smediati sillogismi; non c'è bisogno di risme di carta,
perché la verità sia manifesta, perché « lo vero sia
appaiato »:
|
Or
sei Tonto a la scola - ove la verità sola
iudica orane parola - e demostra orane pensato. |
|
Bellissimo; dirà con noi il lettore; ma questa rapita
professione di fede mistica non va confusa con la poesia
dell'ineffabile di un Dante o di un Leopardi. La poesia
dell'inesprimibile, è noto, è una contraddizione in
termini. « Se mo sonasser tutte quelle lingue - che
Polinnía con le suore féro - del latte lor dolcissimo
più pingue » e il «Lingua mortai non dice Quel che io
sentivo in seno » non arrivano, come umilmente sospetta
il poeta, al millesimo del vero, ma dicono tutta la
verità, sono la poesia più espressiva
dell'inesprimibile. Il caso di Jacopone è diverso: egli
non è il poeta di quell'ineffabile, ma la sua è una
perpetua professione di fede filosofica sulla
inintelligibilità di Dio, o un sentire immediato Dio
nell'attualità del suo mistero. La suggestione mistica
di Jacopone è l'estatico silenzio, senza movimento e
senza ombre; la suggestione poetica di Dante o di
Leopardi è invece il dolce e mai sazio fantasticare. Il
poeta solleva e agita la commozione della vita in quel
suo negare la vita; il mistico ci fa mutoli e si fa
mutolo nell'eterno, e il suo parlare è soltanto un
balbettio poetico, come di mutolo a cui si stia per
sbrogliarsi la lingua. Però bisogna distinguere tra
rapimento poetico e rapimento religioso. Quando il
Manzoni celebra i campi eterni «ov'è silenzio e tenebre
- la gloria che passò», egli sente e afferma la presenza
del suo genio, e su quei campi eterni si estende ancora
il dominio della sua poesia e del suo io; ma quando il
mistico Jacopone parla «smesurato - de que sente
calore», o il suo dolce gaudio riman dentro, «non se
sente de fuore», o poiché «lo cor d'amore è preso - che
noi po' comportare» - «stridendo el fa gridare»; egli
non è poeta nel senso umanistico ed eterno del termine,
ma mistico.
La poesia è ordine e musica: il misticismo è grido, cioè
passione. Da ciò il tono realistico della lingua di
Jacopone. La passione genera l'ardore del linguaggio
espressivo, che non ha nulla di astratto, ma è sempre
corpulento, figurativo, si direbbe talvolta anche
plebeo. È l'attualità del sentire che ci rapisce in
Jacopone, non già il dominio poetico di quel sentire. Il
suo ineffabilismo non è solo di contenuto ma di forma.
A questa attualità del suo sentire Jacopone porta la
forza e il rincalzo anche dell'argomentare e del
sillogizzare: egli che disprezza i sillogismi umani per
amore del sillogismo eterno, si batte perpetuamente
sillogizzando. Tanto che renda almeno un'eco di quello
unico, muto, ottenebrato sillogismo che è Dio! Le sue
laude più propriamente mistiche sono una vicenda assidua
di gridi, d'esclamazioni e di ragionamenti, ragionamenti
che non hanno nulla di compassato e di scolastico,
perché riescono come l'animazione discorsiva di quel suo
gioire in Dio. Senza dire poi che l'estatica sua
teologia postula necessariamente una prassi apostolica;
e però ogni mistico è teologo ed anche apostolo. Le
famose satire di Jacopone non sono un episodio sporadico
della sua vita, ma sono l'esplosione necessaria di tutto
il suo misticismo; e dove si fa clemente il satirico,
espone e si batte il catechista. Il mistico sentire, la
satira politica-religiosa, il caldo catechizzare sono le
vicende assidue del laudario jacoponico; di rado
personalità ci si è offerta più potentemente unitaria di
quella del nostro scrittore. |