L'ILLUMINISMO
DEL PARINI
Non vi è
contrasto fra il Parini umanista e il Parini poeta e maestro
di vita morale: così intimamente congiunti erano nel suo
spirito oraziano lo studio amoroso della bella parola e
l'abito e il gusto del retto sentire. «Sai tu, vergine Dea,
chi la parola Modulata da te gusta od imita: Onde ingenuo
piacer sgorga, e consola L'umana vita? Colui cui diede il
placido senso E puri affetti e semplice costume...». E qui,
sappiamo, ciel nella consonanza di buon gusto e di senso
morale il centro vivo della personalità del Parini: il quale
ha coscienza della moralità che è intrinseca nel gusto delle
parole dei classici e nella ricerca assidua e paziente di
altre, simili a quelle e al pari di quelle «vere» e
definitive, e sembra pensare che nulla di più degno, di più
suo possa dire chi abbia conseguito, mercé quello studio, il
dono della poesia, che le convinzioni morali, su cui poggia
la sua vita di uomo e d'artista. La poesia gli si configura
perciò come giudizio: così un giudizio della società fra cui
vive vuole essere il Giorno, e se in più d'un punto il
lavoro umanistico in cui è impegnato, sembra tutto assorbito
e l'osservazione di quella società divenire scopo a se
stessa, e farsi quasi compiaciuta, sentiamo che soltanto
quel giudizio e il credo morale a cui si ispira, gli hanno
concesso, col distacco dalla sua materia, quella varia e
vasta rappresentazione, che si sarebbe altrimenti dispersa
in notazioni frammentarie (più fini certe una non diverse da
quelle dei Sermoni dell' «apatista» Gozzi), e nella quale
invece trovano il loro luogo anche le pause di pura
descrizione mentre nelle Odi più liberamente, perché il
poeta-giudice non si costringe in un atteggiamento satirico,
che qua e là nel Giorno ha del programmatico, si dispiega la
sua ispirazione morale fissando in sentenze epigrafiche e
svolgendo in più ampie figurazioni il giudizio, sicuro e
sereno, del poeta sugli uomini e su se medesimo. Il gusto
della parola esatta e precisa diventa una cosa sola col
senso della giustizia, che dà a ciascuno il suo approvando o
riprovando, e distinguendo sempre e nel biasimo e nella lode
(«Umano sei, non giusto»): l'interesse artistico per il
particolare psicologico o pittoresco non si scornpagna mai
dall'interesse morale, per cui quell'aspetto della realtà è
assunto nell'arte del poeta e che lo impronta col suggello
del giudizio: valga per tutti, l'esempio di quelle
rappresentazioni, che il Parini ci ha lasciato, di qualche
monstrum, da cui più è offesa la sua coscienza, e che sono
fra le sue più potenti, i ritratti dell'ipocrita («Di tua
man tu il collo alquanto Sul manc'omero mi premi...») e del
cantore evirato («Aborro in su la scena Un canoro
elefante...») nelle sue prime odi, e nell'ode A Silvia,
alcuni aspetti della corruzione romana, descritti con orrore
crescente («Baccanti e cupide D'abbominando aspetto, Sol
dell'uman pericolo Acuto ebber diletto... Il gladiator,
terribile Nel guardo e nel sembiante, Spesso fra i chiusi
talami Fu ricercato amante...»). Qui è la forza, qui il
limite dell'arte pariniana, a cui noli sarà da chiedere, per
quella cura costante della definizione morale (palese, fra
l'altro, nell'aggettivazione) l'abbandono di una poesia
aperta al vario moto degli affetti: ma nei limiti che le son
propri, essa è ricca di toni e di sfumature, come si
conviene alla vivacità e freschezza della moralità pariniana,
moralità non magistrale od arcigna, che non si impone come
astratta precettistica, ma si rivela in configurazioni
concrete e talora audacemente realistiche, e riconosce, e se
ne compiace, il diletto della bellezza e dei più teneri
affetti. Vengono così a collocarsi fra le altre odi, senza
contrastare con lo spirito che tutte le informa, le tre odi
ispirate dalla bellezza femminile, nelle quali il trepido
omaggio - non si parli di poesia d'amore - è temperato dal
sorriso di quello spirito saggio che conosciamo, e può, in
quella più commossa, esprimersi la coscienza che il poeta ha
della propria vocazione - un'altra, e la più insigne, delle
sue definizioni morali: «A me disse il mio Genio Allor ch'io
nacqui...»; si giustificano parimenti le immagini
mitologiche, che compaiono in queste o in qualche altra ode
a ingentilirle con una nota di antica bellezza, e che della
bellezza, com'è sentita dal Parini, sembrano essere simbolo,
splendore e sorriso della verità, sia che chiudano come una
cornice le massime dell'Educazione; «le più alte insieme e
necessarie massime della morale dell'uomo», direbbe il
Bettinelli («A lui che gli sedea Sopra l'irsuta schiena
Chiron si rivolgea Con la fronte serena... Tal cantava il
Centauro. Baci il giovin gli offriva Con ghirlande di lauro
E Tetide ch'udiva A la fera divina Plaudia da la marina»), o
si intravedano accanto alle bellezze terrene di Cecilia Tron
(«Parve a mirar nel volto E ne le membra Pallade»), sia che,
immagine delicatissima fra tutte, la Musa venga a illuminare
con la sua presenza così da farne sentire meglio il valore
umano e poetico, una scena d'intimità familiare: «Musa,
mentr'ella il vago crine annoda, A lei t'appressa; e con
vezzoso dito A lei premi l'orecchio; e dille... Però ch'io
stessa, il gomito posando Di tua seggiola al dorso, a lui
col suono De la soave andrò tibia spirando Facile tono».
Siamo lontani dalla mitologia del Foscolo, non più leggiadra
decorazione, rna sostanza resa dalla poesia! Ma come bene
anche questa Musa settecentesca, non troppo dissimile dalla
giovine sposa, s'inserisce nel discorso poetico del Parini,
di cui queste immagini letterarie sono un bell'ornamento;
non diversamente le favole mitologiche del Giomo sono
introdotte a variare la descrizione della società nobiliare,
simili agli affreschi delle volte, o ai pannelli dipinti
delle porte, che decorano le sale dov'essa trascorre i suoi
magnifici ozi...
Quale aspetto si prenda a considerare del Parini, sempre si
ritrova, qualità fondamentale, l'equilibrio o la misura, ben
posta in rilievo dal De Sanctis in pagine a cui i critici
posteriori non possono non rifarsi (il De Sanctis parla di
«una tranquillità che non è idillio ma armonia e misura
nella forza»): così è nella poesia, in cui per quella
qualità si compongono senza dissidio motivi e toni in
apparenza opposti ed essa diventa elemento essenziale del
ritratto che il poeta delinea di se medesimo (né importa che
per qualche particolare la realtà biografica ne diverga),
così è nella morale che della sua poesia è ispiratrice
pruina. Come «Pindaro» e «Anacreonte» nel gusto del
letterato, si conciliano nella sua mente il moralismo e
l'edonismo, ed egli può accogliere l'istanza del «piacere »
che non sente in contrasto con le sue idealità morali e col
severo motivo del dovere, scrivendo fra l'altro quel
pensiero così caratteristico sulle «sensazioni piacevoli»
che più d'una volta abbiamo ricordato nel leggere i suoi
versi. «Dio e la Natura ci comandano non già solamente coli
una legge scritta e pubblicata come proveniente dai motivi
della religione e dell'onore universale ben conosciuto: ma
molto più con un'infinita serie di sensazioni piacevoli,
delle quali rispettivamente a noi è composto e formato il
nostro vivere. Queste, senza anticipamento della riflessione
ci rendono caro il momento attuale della nostra esistenza...
. Ma egli scriveva pure che «tutta la sapienza consiste nel
diffidare de' nostri sensi e delle nostre passioni»; e i due
pensieri, che non vorremmo gravare di profondi significati
filosofici, valgono, lumeggiandosi l'un l'altro, a compiere
l'ideale di saggezza che sorride al poeta e che è al fondo
della sua poesia una saggezza che sa scegliere e dominare le
«sensazioni piacevoli» e trarne quella felicità che «l'uomo
perpetuamente cerca» e che gli è dato conseguire non in un
mondo ultraterreno, non in condizioni singolari e fuori del
comune, ma nella vita di ogni giorno con l'esercizio, sempre
moderato della ragione, delle sue facoltà e dei suoi
affetti.
Questa è la morale del Parini: non eccelsa se si vuole, né
peregrina, conforme a quella enunciata con accenti nuovi e
più vigorosi nei libri dei moderni «filosofi». Non era del
resto in quell'incontro dell'antica saggezza con la moderna
«filosofia» e dell'una e dell'altra coi suoi sentimenti più
profondi il segno della sua perenne validità, della sua
ragionevolezza? Direi che essa si compendia in una parola
«sanità» - «il core sano e la mente» - vale a dire integrità
e pienezza di vita fisica e spirituale, conforme ai dettami
della natura: ma il saggio paramano non resta pago del bene
da lui raggiunto, delle sensazioni piacevoli, che gli
procura e di cui gli è dato godere «in stuol d'amici
numerato e casto», bensì sente il dovere di combattere
contro quanto si oppone nel mondo in cui vive, al
conseguimento di quel bene, gli abusi, le storture, le
perversioni, di cui soffrono i suoi simili, e la
«filantropia» che lo ispira trasfigura il suo edonismo,
dandogli un carattere di vera moralità. Siamo lontani, più
forse che il Parini non pensasse, da Orazio e dalla sua, per
dirla col Vico, «morale di solitaria», e riconosciamo invece
in quell'animoso combattere lo spirito e gli ideali
dell'illuminismo, a cui s'informa, si può dire, tutta
l'opera pariniana. |