Individualismo
e passionalità della tragedia alfieriana
Non nel
Parini, ma nell'Alfieri, afferma il Croce, è il primo
evidente segno di un rinnovamento nella letteratura
italiana. L'individualismo esasperato e la violenza estrema
delle passioni che sono alla base della sua ideologia e del
suo atteggiamento di fronte alla vita contribuiscono a fare
dell'Alfieri uno scrittore "protoromantico", assai vicino ad
analoghe correnti e figure delle altre letterature europee;
mentre lo tiene al di qua di un'autentica spiritualità
romantica l'assenza di un senso religioso della vita e di un
concreto interesse per le vicende particolari della storia.
La tragedia alfierana è tutta alimentata dal furore della
passione e da una inflessibile energia di propositi: di qui
il suo stile che appare come il rovesciamento del linguaggio
metastasiano, la sua parola che cade sulla pagina non come
suono ma come azione; di qui, infine, il carattere
essenzialmente oratorio più che intimamente poetico
dell'opera dell'Alfieri.
È stato talvolta segnato l'inizio della nuova letteratura
italiana nel Parini; ma il Parini è di mente e d'animo uomo
del Settecento, del periodo razionalistico e delle riforme;
e settecentesca sebbene elegantissima è l'arte sua,
didascalica e ironica nei suoi toni maggiori, erotica e
galante nei minori. Il vero inizio (quando si guardi al moto
delle idee e alla qualità dei sentimenti) è in Vittorio
Alfieri, che tocca corde le quali vibreranno a lungo nel
secolo decimonono, dal Foscolo e dal Leopardi fino al
Carducci: in Vittorio Alfieri, che io non posso considerare
se non come strettamente affine ai contemporanei Sturmer und
Drànger di Germania, i quali s'ispirarono come lui alle
pagine di Plutarco e risentirono profonda l'efficacia del
Rousseau, neanche a lui estranea. Al pari degli Sturmer und
Dranger, egli è fortemente individualista; e individualismo
è il suo amore per la libertà e il frenetico odio alla
tirannia, così indeterminato nel suo contenuto politico,
perché egli aborre con la stessa risolutezza re e demagoghi
e patrizi di repubblica (l'«oscena libertà posticcia» di
Venezia e le «sessanta parrucche d'idioti» di Genova), e non
cerca nella sua vita altro stato, e non persegue nella sua
arte altro ideale, che quello del «liber'uomo», che possa
cioè muoversi, parlare, operare, attuare il proprio pensiero
e la propria vocazione, non oppresso e soffocato da veruna
forza estranea, non contrastato o impacciato da verun
ostacolo. Come gli altri consapevoli o inconsapevoli
roussoviani, moventi all'assalto delle bastiglie morali, le
sue passioni sono estreme per violenza; e, quasi per dar
loro qualche lenimento, egli ama la solitudine, si abbandona
con voluttà alla malinconia, sente l'incanto degli
spettacoli naturali, delle montagne, delle acque, delle
spiagge. Il freddo intellettualismo, e Voltaire che lo
rappresenta, gli ripugnano, e non sopporta il «lepido
stile», la leggiera e facile prosa degli illuministi, ben
adatta alla divulgazione, ma che per ciò appunto a lui
sembrava che prostituisse « la viril nostr'arte ». E se egli
non è tutto Shakespeare, come erano i suoi affini tedeschi,
se presto intermise la lettura che aveva cominciata di quel
poeta, non è già perché esso non gli piacesse, ma anzi
perché gli piaceva troppo: «quanto più (scrive) mi andava a
sangue quell'autore, tanto più me ne volli astenere»: cioè
per non correre il rischio d'imitarlo, e per serbarsi
spontaneamente shakespeariano.
Si deve dunque, a mio avviso, considerare l'Alfieri come un
protoromantico: il che non vuol dire propriamente romantico,
come ora si è preso il vezzo di chiamarlo, confondendo ben
distinti periodi spirituali. Del romantico all'Alfieri
mancarono tratti essenziali, li ansia religiosa sul fine e
il valore della vita, l'interessamento per la storia, e il
compiacimento per gli aspetti particolari e realistici delle
cose. Anche la sua autobiografia sta sulla linea delle
confessioni alla Rousseau, ricca di passione e scarsa di
senso storico così rispetto al proprio tempo come alla sua
vita medesima. Di questo suo limite, e della incapacità a
ritrarre come diceva, «la vera e scalza triste natura
nostra», la patologia individuale e sociale, ebbe
consapevolezza. «E carmi e prose in vario stil finora lo
scrissi, abil non dico, ardimentoso; Storie non mai...».
L'epica, l'oratoria, la tragedia, la filosofia cioè le
riflessioni morali e politiche: ecco il suo campo: «Arti
tutte divine; in cui, ritratto L'uom qual potria pur essere,
s'innalza Al ciel chi scrive e il leggitore a un tratto».
Tale, all'incirca, la collocazione dell'Alfieri nella
moderna storia mentale e morale. Ma per intendere e
giudicare l'arte di lui, per risolvere il quesito, anch'esso
storico, del suo svolgimento estetico, bisogna farsi
presente la particolare conformazione di quell'anima. Perché
l'Alfieri, prima che poeta o al tempo stesso che poeta, era
uomo di passione così ardente («furore» è la parola che più
spesso torna nelle sue pagine) da rivolgersi diritto
all'azione e alla pratica, guidato da inflessibile fermezza
di proposito. Azione e pratica, la quale certamente non si
attuava altrove che nella parola e nelle carte, ma azione
era nondimeno, se tale è essenzialmente l'oratoria.
L'anelito alla libertà e l'aborrimento per la tirannia gli
avevano ingenerato nell'immaginazione un fantasma pauroso,
il Tiranno, che non è già un fantasma poetico, ma un incubo
passionale, una sorta di condensazione della più nera
nequizia umana, che ha luogo in un determinato individuo non
si sa perché, se non forse per incoercibile potere di
attrazione e agglomeramento. Sono colpevoli i suoi tiranni?
Non si oserebbe affermarlo; o non più colpevoli, certo; di
chi ha la disgrazia di essere preso da un'infezione,
dall'idrofobia o dal tetano. «Ah forse voi dite il vero!» -
esclama il tiranno Timofane verso i suoi congiunti ed amici,
che procurano di richiamarlo ai doveri del cittadino -, «ma
non v'ha più detti, E sien pur forti, che dal mio proposto
Svolger possanmi omai. Buon cittadino Più non poss'io
tornare. A me di vita Parte or s'è fatta la immutabil, sola,
Alta mia voglia: di regnar... Fratello, tel dissi io già:
corregger me sol puoi Col ferro: invano ogni altro
mezzo...». Un altro di queí tiranni, Polifonte, nella
Merope, - anche lui non figlio, non sposo, non padre. «tutto
tiranno», che non vede «altro che regno», - sospira alla
fine del primo atto, stanco sotto il cumulo della sua
propria ineluttabile malvagità: «Oh quanta è impresa il
mantenerti, o trono!». Ad abbattere con un colpo di mazza
ferrata il Tiranno, tanto più a lui odioso perché - se lo
rappresentava in modo da dovergli riuscire necessariamente
incomprensibile, l'Alfieri costrusse la sua tragedia, nella
nota forma, senza confidenti, senza episodi, senza
intermezzi di amori, scheletrica, precisa e rapida come una
macchina, tagliente col ben noto stile. Stile che ha
anch'esso del proposito, dell'intestamento; della
fissazione; e poiché egli non tollerava, come si è visto, la
lepidezza e la leggerezza della prosa illuministica, e
poiché gli moveva nausea la correlativa poesia cantarellante
di quel tempo, che in Italia, e non solo in Italia, era la
metastasiana, il suo dramma e lo stile di esso sono il
rovescio violento del melodramma metastasiano (come ebbero
già a notare, credo pei primi, la signora di Staél e
Guglielmo Schlegel); e le cabalette e ariette, con cui i
suoi personaggi, al pari di quei del Metastasio, palesano se
stessi, stridono in digrignamenti di denti e suoni aspri e
rotti. E quando per avventura la sua ira si volge al
sarcasmo e all'irrisione, come nelle satire e nel Misogallo,
il cipiglio tragico si cangia in comico, ma resta pur sempre
cipiglio: onde quel suo coniare, nel furor comicus, vocaboli
grotteschi, parole bizzarramente composte o stranamente
diminutive, e versi duri e ferrei non meno di quelli delle
tragedie.
Non è a dire che, ammesso quel proposito, l'Alfieri non
costruisca con vigore e sapienza; ma ciò che costruisce non
è nel suo intimo poesia, è oratoria appassionata. Si
ricorderanno le sue grandiose esortazioni e le invettive,
com'è quella di Virginio nella Virginia:
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O
gregge infame di malnati schiavi;
tanto il terror può in voi? l'onore, i figli,
tutto obbliate per amor di vita?
Odo, ben odo un mormorar sommesso;
ma niun si muove. Oh doppiamente vili!
Sorte pari alla mia, deh! toccar possa
a ognun di voi; peggior, se v'ha: spogliati
d'aver, d'onor, di libertà, di figli,
di spose, d'armi, e d'intelletto, torvi
possa il tiranno un dì fra strazio lungo
la non ben vostra orrida vita infame,
ch'or voi serbate a cosí infame costo... |
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dove
l'oratoria è altamente concitata, e nondimeno quel
personaggio non è poetico. E perfette sono due delle sue
tragedie, dal comune consenso dei critici più lodate, il
Bruto I e il Bruto II: due saldi strumenti d'acciaio ben
temprato e brunito: due di quei lucidi spadoni da carnefice
che si vedono nei musei. Ma la poesia non è ordigno di
acciaio. E le infinite e noiose dispute dei critici sul
metodo adatto o disadatto seguito dall'Alfieri nelle sue
tragedie, e le differenze notate verso il sistema greco o
inglese e le somiglianze col francese, sono fallaci o
superflue. Il difetto, come sempre in siffatti casi, non
consiste nella tecnica tragica o altra simile cosa
immaginaria, ma nella sostanza poetica. |