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IL REALISMO
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VERISMO COME RINUNCIA ALLE
ROMANTICHE PASSIONI
Al Naturalismo francese non
rimase estranea la letteratura
italiana, sia per il diffondersi
anche da noi del Positivismo,
sia perché altre ragioni,
squisitamente nostre, invitavano
la letteratura ad accostarsi
alla realtà: quelle ragioni
determinavano una nostra via al
Realismo che da noi si disse
Verismo. Un atteggiamento nuovo
si manifestava nella nostra
spiritualità, non solo sul piano
filosofico, ma anche su quello
sociale e politico, per certe
constatazioni ormai
inequivocabili: i problemi
politici che il romanticismo
aveva fatto suoi fino alla
identificazione fra liberale e
romantico non erano stati
risolti con lo slancio degli
eroi delle barricate;
l’apostolato ascetico di
Giuseppe Mazzini, il disperato
coraggio di Carlo Alberto e lo
spontaneismo degli intellettuali
neppure un piccolo cenno avevano
fatto alla risoluzione dei gravi
problemi, entro i quali si
dibatteva la nostra vita
politica e sociale. La fredda
oculatezza del conte di Cavour,
la sapiente costruzione di
relazioni e compromessi
diplomatici, soprattutto la
vigile attenzione ad ogni fatto
politico, anche il più lontano,
e il calcolo esatto dei mezzi e
delle forze nostre ed altrui,
rendevano infine possibile
quella unificazione dell’Italia,
per la quale tanto si era
sperato e sofferto. Dalla
unificazione poi, altri problemi
erano nati, alla cui soluzione
si poteva pervenire solo con la
più scrupolosa e precisa
obbedienza alle indeclinabili
leggi economiche.
Tanto valeva a sospingere le
nostre lettere _ espressione
viva dei bisogni e delle
condizioni spirituali di un
popolo _ verso la realtà
quotidiana e l’analisi puntuale
dei suoi elementi, senza
concessione alcuna così ai
teatrali lamenti delle patetiche
novelle e ballate romanze,
sature tutte di cantabili
passioni, come a quei dolciastri
viluppi di storia e amore che
caratterizzavano la cosiddetta
Arcadia Romantica. A tutto
questo il Verismo reagiva in
nome della verità e della
chiarezza, pur conservando della
corrente che lo aveva preceduto
l’eredità migliore: cioè certo
realismo manzoniano, la rinuncia
al calligrafismo, la
"popolarità" dell’arte. Va detto
che da noi il Realismo perdette
gli aspetti del Naturalismo
francese, così come ne abbandonò
certi atteggiamenti polemici,
per un più mite e raccolto
discorso. Lo stesso teorizzatore
del nostro Verismo, Luigi
Capuana, definito caposcuola del
Naturalismo italiano proprio da
Emile Zola, al quale lo
scrittore italiano dedicava il
romanzo Giacinta, non può
considerarsi caposcuola del
Verismo. La nostra vera
letteratura verista, quella che
va aldilà di una poetica e
raggiunge i limiti dell’arte, è
ben diversa per impostazione,
connotati e sviluppo da quella
naturalista francese, a
cominciare dalla minore
incidenza che ebbe sulle nostre
lettere il principio della
ereditarietà, e dalla maggiore
accentuazione del principio
della impersonalità (teorizzata
da Giovanni Verga in una lettera
a Salvatore Farina, premessa
alla novella L’amante di
Gramigna, nella raccolta Vita
dei campi). Non parliamo di
nascita della letteratura
verista con Capuana, la cui
opera narrativa vale semmai come
documento di storia letteraria,
piena e gravata come è dei suoi
postulati di psicologia,
condizionata dalla trattazione
sottile di casi patologici
osservati con la freddezza e la
perizia di uno psicologo
esperto, con l’aggiunta di casi
di telepatia e di occultismo. Lo
stesso romanzo Il Marchese di
Roccaverdina, la sua opera più
impegnata a stare con Giuseppe
Petronio, e che segue da vicino
la traccia del romanzo
naturalista francese, con
concessioni alla ereditarietà e
all’ebetismo _ e insieme si
avvicina per certi aspetti alla
forte narrativa di Dostojevski _
non è unitariamente poesia.
Questa traspare solo quando
Capuana abbandona le tesi e il
dettato altrui e il
compiacimento per il caso
eccezionale, per soffermarsi a
descrivere un ambiente in cui
persistono, irriducibili,
secolari tradizioni.
La nostra autentica arte
verista, per espresso invito di
Capuana, abbandonata la
sottosocietà rappresentata dal
Naturalismo francese, si volgeva
ad osservare con scrupolosa
attenzione il popolo della
provincia, quella categoria di
gente semplice e genuina, nella
quale meglio traspaiono le
passioni nella pienezza dei loro
impulsi; quell’ambiente non
rozzo, ma primitivo delle
campagne e dei paesetti, dei
rioni, delle borgate, nel quale
la civiltà evoluta non ha ancora
soffocato la immediata
espressione dei bisogni e dei
sentimenti. Non vi furono nella
letteratura verista i deformi
della psiche, come non vi furono
i deformi del corpo e quando
queste rappresentazioni
compaiono, si sente il logorio
della maniera e il compiacimento
per la scena ad effetto, si
scorge finanche un gusto di
oleografia. Troviamo piuttosto
creature dolorosamente legate
all’ambiente, incapaci di
superare i limiti loro assegnati
dalla sorte, e di abdicare alla
mentalità che quello spazio
conserva e nello stesso tempo
prescrive. E’ questa una via che
il Naturalismo francese non
percorreva, pur nella varietà e
complessità delle sue
prospettive e nella ricchezza
dei temi. La nostra tradizione
letteraria era sostanzialmente
dissimile da quella francese; e
come in Francia agivano
indirizzi e maniere di
considerevole peso nel
determinare la via naturalista,
così da noi il Realismo trovava
un suo condizionamento
nell’esempio di Alessandro
Manzoni.
Non si può negare che i nostri
Veristi trassero alimento e
guida dai Naturalisti d’Oltre
Alpe; ma bisogna anche ammettere
quanto determinanti siano state,
per gli indirizzi e i modi del
Verismo, sia le nostre
condizioni politiche e sociali,
sia quelle letterarie. Se
infatti il Verismo volle una
letteratura di cose e non di
astrazioni, un esercizio
letterario antitradizionale e
perciò antiretorico, I Promessi
sposi rispondevano alla domanda,
soddisfacendola anche sul piano
linguistico e letterario,
lontana come era l’opera di
Alessandro Manzoni da
ricercatezze formali e calata
invece nel vivo della
sensibilità popolare. Quanto al
tratto realistico, il modello
offerto da I Promessi sposi
rispondeva alla nuova poetica,
almeno sotto un certo profilo:
non solo per alcune
rappresentazioni violentemente
crude, come le scene del
lazzaretto _ e tra queste,
quello spaccato di naturale
modernità, con le donne che
allattano in generosa mescolanza
alle bestie, i piccoli infermi e
l’apparizione dei monatti; e la
descrizione documentaristica
della rivolta di Milano, per la
sottile indagine rivolta a far
capire il popolo minuto nelle
sue aspirazioni, nella sua
interpretazione dei valori della
vita, nelle sue reazioni
istintive, nei suoi postulati
sociali. Né basta: che l’opera
narrativa di Manzoni rispondesse
alle caratteristiche del
romanzo-documento è provato
dalla descrizione storicamente
puntuale delle condizioni
politiche, sociali, religiose,
morali del secolo in cui è
collocata l’invenzione. Quando
l’Autore volge la sua attenzione
alla vita dei paesetti sparsi
nel territorio comasco, come il
paese di Lucia, allora il
romanzo diviene anche il primo
esempio di narrativa di
provincia. Anche sotto questo
aspetto Manzoni prepara il
Verismo, e ben a ragione Luigi
Russo definì provinciali i
naturalisti italiani, intenti
come si rivelarono a studiare
appunto la vita delle singole
regioni. In una involontaria e
originale collaborazione essi
offrivano ai lettori di tutta la
Nazione un quadro pressoché
completo della realtà italiana
delle borgate e dei paesi
dimenticati.
A raccogliere tutta insieme la
letteratura verista si riceve
l’impressione di una
collaborazione fra cartografi,
impegnati ognuno per proprio
conto nel suo particolare
rilevamento; ma necessari l’uno
all’altro, per la interezza del
disegno. Sotto questo aspetto il
Verismo assolse una funzione
costruttiva sulla via della
unificazione spirituale della
Nazione: faceva conoscere
l’Italia agli Italiani,
proponeva alla conoscenza e alla
responsabilità di tutti i
problemi particolari delle
province. Certo non agiva per la
unificazione integrale delle
popolazioni, che or ora si erano
unite nel nuovo Regno sabaudo,
la via scelta dai Veristi in
fatto di lingua. Quella unità
che finora si era auspicata,
almeno in termini letterari,
fino alla manzoniana
identificazione di lingua
letteraria e lingua di uso, si
frantumava sul nascere.
Riaffermavano la loro
irriducibile vitalità quei
linguaggi regionali che
rappresentavano la lingua vera
delle popolazioni italiane: la
lingua non fredda e inerte e
immobile della retorica, quella
insomma, che per essere di tutti
non era di nessuno. La lingua
dei Veristi fu invece un
mosaico, e quindi lingua storica
degli Italiani; quella lingua
che ancora oggi è comprensiva di
pronunce e suoni diversi, nella
individualità delle regioni, con
buona pace delle superiori
scuole di ortoepia. Portare a
livello di fruizione letteraria
le lingue regionali, come
pretendeva la poetica del
Realismo, dal momento che non si
poteva accettare che dotti e non
dotti, gente colta e poveracci
parlassero allo stesso modo, e
tutti insieme a modo dello
scrittore, non era un esercizio
facile; dare alla lingua
approssimativamente nazionale
l’impronta tipica della
provincia, senza scadere nel
dialettale o addirittura nel
gergale, non fu da tutti e non
si risolse in esiti sempre
felici. Si può dire piuttosto
che aldilà di Verga, così
sapiente costruttore di piani
narrativi diversi, non vi furono
altre soluzioni improntate a
stabile equilibrio. Per via dei
facili slittamenti nella parlata
casereccia (fenomeno già
verificatosi con il manzonismo
degli stentarelli) si ponevano
le premesse di quell’abuso che,
in mano a certi cosiddetti
realisti del Novecento avanzato,
si sarebbe rivelato scempio
linguistico, gusto della
dissacrazione, esibizionismo
neo-barocco, sciatto e fragile
populismo.
Chi voglia approntare una scheda
del rappezzo verista, potrà
procedere dalla Sicilia, in cui
furono ambientate le prime
storie, verso il Settentrione,
tenendo presente che quelle
esperienze letterarie, talvolta
solo tentativi, ebbero valori
diversi, sia per il livello
artistico a cui pervennero, sia
per l’influenza che esercitarono
sulla letteratura successiva. La
Sicilia fu rappresentata da
Luigi Capuana, da Giovanni
Verga, da Federico de Roberto,
mentre Nicola Misasi, con toni
modestissimi, risultanti dalla
compenetrazione dell’insegnante
medio e del giornalista,
rappresentava la Calabria e la
Sila. A Napoli la lirica e la
narrativa e la drammaturgia di
Salvatore Di Giacomo rivelavano
i colori e le pene di una città,
dalla gente rumorosa e teatrale,
con particolare indugio
all’ambiente dei bassi; Matilde
Serao prediligeva invece, nel
suo periodo migliore, il ceto
piccolo-borghese e quello degli
aristocratici decaduti o
l’ambiente degli artigiani
industriosi, compiacendosi di
descrivere i suoi tipi di donne
con rara sensibilità. Roberto
Bracco, pur con le sue aperture
verso il teatro di Henrik Ibsen,
avrebbe completato il quadro
napoletano calandovi la società
ricca e gaudente, affaticata
nelle esperienze del sesto senso
e nel centellinare l’ozio con
perizia eccezionale. Nel Lazio
Cesare Pascarella
così fine di sentimento, così
sagace di osservazione, così
scaltrito nell’arte […]
rappresenta la psicologia
popolare illuminata dalla sua
personale (Benedetto Croce La
letteratura italiana, a cura di
M. Sansone, Laterza, 1956).
In Abruzzo Gabriele D’Annunzio
nelle Novelle della Pescara e ne
La figlia di Iorio a forti tinte
racconta la primitività della
sua gente. La drammaticità
statica della eclettica arte di
Grazia Deledda traduce in
termini di passionalità e di
silenzio la genuina Sardegna;
mentre Renato Fucini, il
macchiaiolo della letteratura, e
Mario Pratesi con complicazioni
autobiografiche, presentano la
realtà della Toscana. Il Verismo
del Settentrione lascia tracce
nel Piemonte con Achille
Giovanni Cagna, Giuseppe Giacosa
e Giovanni Faldella, e a Milano
con Gerolamo Rovetta che, ormai
lontano dalla via strettamente
verista e provinciale, quasi
chiude, con quel suo indugio fra
ceti ricchi della industriosa
capitale lombarda, la iperbolica
storia di una corrente che, nata
fra le istanze proletarie, si
riportava al tradizionale
impianto borghese.
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Vincenzo
La Forgia | |
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