IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

Petrarca
 

 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: PETRARCA

Carattere del Petrarca

Francesco Petrarca ebbe grande intelligenza, squisita sensibilità, ricca immaginazione, poca attitudine alla vita pratica.
Ebbe grande intelligenza, non tale però, che si possa chiamare una intelligenza superiore. Aveva tutte le facoltà elementari e assimilative, molta memoria, grande lucidezza e penetrazione di mente; gli mancavano le facoltà produttive. Non aveva né originalità, né profondità; cioè a dire, non aveva la forza di trovar nuove idee e nuovi rapporti, e stamparvi su il proprio suggello, né la forza di squarciare la superficie, scartare gli accessorii e gli accidenti, cogliere il sostanziale. Aveva invece le qualità scimie di quelle, che imitano gli stessi procedimenti meccanici, con tanto più di ostentazione con quanto meno di forza. Non era originale, era singolare: dà al pensiero o alla frase un certo giro, una certa aria di nobiltà e di ricercatezza da fare effetto. Non era profondo, era acuto; non rimane nella superficie, nel comune delle cose, spinge lo sguardo addentro, ma là gli s'intorbida la vista, e dà in sottigliezze; vuol esser Tacito e non è che Seneca. Scrisse opere filosofiche, e non fu filosofo; scrisse opere didattiche e non fu pensatore. Una intelligenza superiore comanda a tutte le altre facoltà e le adopera ai suoi fini. II Petrarca non ha una intelligenza signorile, suprema moderatrice dell'anima; ha una intelligenza nata ausiliaria di altre facoltà.

Ebbe una squisita sensibilità. La quale è facoltà volgare, quando non lascia alcun durabile vestigio al di dentro. Tutti riceviamo giornalmente delle impressioni che giungono e passano. Ma quando scuote tutta l'anima e la costringe a manifestar le sue forze, hai una differenza non solo di grado, ma di qualità: la sensibilità diviene sentimento. E, quando giunge fino all'oblio, alla concentrazione in una cosa sola di tutte le nostre potenze, il sentimento, sospinto alla sua cima, diviene entusiasmo. Il Petrarca ebbe un'anima facile alle impressioni, che s'innalzò in certi casi sino al sentimento, sino all'entusiasmo.
Il sentimento è indizio d'animo superiore. Il volgo ha sensazioni, non ha sentimenti. Perché la natura ci dà facoltà proporzionate ai nostri bisogni, la comune sensibilità basta alle anime povere, ma quando le impressioni vanno a ferir le anime elette, le fanno lungamente risonare e vi accendono una fiamma, che o consuma l'esistenza, o dee farsi via. Ne' filosofi, questo incendio interiore si calma con la meditazione; negli uomini di azione con l'azione. Il Petrarca non fu né filosofo né uomo d'azione: fu poeta. L'immaginazione fu la sua facoltà dominatrice. La vita non ebbe per lui esistenza che nel suo spirito. Le impressioni operavano immediatamente, e lo rendevano inetto all'osservazione esatta e tranquilla del mondo esterno. Perciò tendeva non a fare di sé uno specchio della natura, come fu detto di Goethe, ma a fare della natura il suo specchio. Questa tendenza subbiettiva gli toglieva in gran parte il senso della realtà, e gliela rendeva trasmutabile secondo la varia onda delle impressioni. Il che lo avrebbe fatto infelicissimo, se la sua immaginativa avesse avuto tanto potere sopra di lui, da costringerlo a dare ai suoi sogni un valore sostanziale, come fu del Tasso, e, appresso, del Leopardi, non solo poeti ma personaggi poetici. Il Petrarca sogna e sa di sognare, rimane nel limite dell'immaginazione, non giunge sino all'azione; il che, se è bastante a farne un poeta, non basta a farne una schietta natura poetica. Non vi è proporzione tra la sua immaginazione e il suo carattere: sogna più di quello che vuole; e, mentre le cose gli si presentano in immaginazione, sa ch'elle non son fatte a quel modo, né, per quanto s'infochi per i suoi fantasmi, si sente ben risoluto a recarli in atto. Il fantasma è per lui come uno scopo ultimo, nel quale s'appaga; tutto il vario tumulto, che le passioni destano nell'anima, s'acquieta presso di lui in un dolce fantasticare, in un sonetto, in una canzone, in una epistola. Certo, di tutto questo non ha piena e chiara coscienza; e, com'è di tutti gli uomini, s'appassiona per i suoi fantasmi, e studiasi di mandarli ad effetto; ma sente confusamente che non è nato all'opera, ama meglio fantasticare che fare, e fantasticando sfoga il pieno dell'animo. Questa mezza Coscienza d'impotenza, questa tanta abbondanza di immaginazione congiunta con sì poca virilità di carattere, ci può spiegare quello che di perplesso e di variabile s'incontra nella sua vita.

Non avea le qualità della forza, la virtù dell'indignazione, la profondità dell'odio, la magnanimità del disprezzo, la santa ira di Dante, le buone e le cattive qualità delle nature energiche. Gentile, temperato, elegante, facile a sdegnarsi ed a placarsi, inchinevole alla tenerezza, alla malinconia, natura impressionabile e delicata. Ebbe anche le cattive qualità de' caratteri deboli. L'orgoglio è la forza, la vanità è la debolezza. L'ambizione è la forza, la cupidigia è la debolezza. L'emulazione è la forza, l'invidia è la debolezza. Il Petrarca fu vano, cupido, invidioso. Fu vano, si compiaceva delle lodi, e a provocarle era il primo a lodare: faceva la corte a' principi, e i principi facevano la corte a lui; gli amici lo incensavano, i popoli lo festeggiavano; con un'aria di modestia si lagna spesso di tanti onori che lo perseguono fino nella sua solitudine, compiacendosi però di dirlo e di farlo sapere; l'elogio era la via più dritta al suo cuore, e sapevanselo i principi, che per questa via mai non ricorrevano invano al Petrarca: serviva d'istrumento, e non se ne avvedeva, e credeva di regolare lui il mondo. Fu cupido di danaro e di onori, difetto di cui s'accusa e si scusa ne' suoi colloqui con Santo Agostino. Salito al pontificato Urbano V, si lamenta con Bruni suo amico di non aver niente ancora ricevuto da lui. E fu satisfatto: piovvero su di lui canonicati, priorati, ambascerie; confidente di principi, beniamino di popoli. Fu invidioso. Ebbe la rara felicità di non avere eguali durante la vita, di essere superiore all'invidia, e di poter fare il protettore degli uomini di lettere con la stessa ostentazione con la quale i principi proteggevano lui. Ma l'ombra di Dante si drizzava innanzi alla sua immaginazione, come uno spettro nero. Assicura di non averlo mai letto; e, quando il Boccaccio lo prega, di volere pur dire alcuna parola in favore di Dante, e rimuovere da sé il sospetto di portargli invidia, egli vi si rifiuta, protestando di non potere esser tacciato d'invidia verso un uomo, il quale non trovava ammiratori che presso il volgo. Che amarezza! e come scoppia l'invidia nel punto stesso che vuol nasconderla!
Tale fu il Petrarca. Ciascuno ha un po' la pedanteria del suo mestiere. Letterato, si avvezzò a considerar gli avvenimenti come una materia letteraria, un tema di orazione o di poesia. Mirava innanzi tutto a fare un bel lavoro: era un po' come un avvocato: - Il cliente ha perduto la causa, ma io ho fatto una bella arringa. Cola di Rienzo proclama la repubblica dal Campidoglio: uno de' sogni più accarezzati dal Petrarca. Egli scrive una epistola latina, nella quale, dopo i debiti elogi al tribuno e al popolo romano, conchiude di non poter far nulla lui, e perché prete, e per le gravi faccende che lo tenevano in Avignone. E quando le cose andavano a male, il Petrarca, supplicato di voler far pure alcuna cosa, risponde non poter dare altro a Roma che le sue lacrime. Parlava ardito e lo lasciavano dire; ammiravano la bella forma e poco si davano pensiero delle cose. Nelle sue ambascerie spesso non otteneva nulla; ma lodavano l'ingegno, la bella orazione, e gli regalavano un canonicato. Ben altro fu il destino di Dante. Principi e popoli non distinguevano in lui l'uomo dal poeta; sapevano che nella sua immaginazione non vi era niente di più che non fosse pronto a mettere nelle sue azioni, onde meritò di essere perseguito da odii inestinguibili. Fu proscritto, povero, e morì, quando il sogno di tutta la sua vita, il suo sogno dell'impero, erasi affatto dileguato; morì in mezzo alle grida trionfatrici dei suoi avversari. Disdegnoso e vendicativo, volle dei nemici, e li ebbe degni di sé, grandi e implacabili; ma il Petrarca aveva un po' il desiderio femminile di piacere a tutti, e piacque a tutti. E se volete veder la differenza che corre tra questi due uomini, guardateli in faccia. Quel viso bruno e asciutto, con quelle guance incavate, con quella fronte scura, con quegli occhi infossati e divorati da un fuoco interiore, è Dante. E quella faccia bianca da canonico, quelle guance pienotte, con quella fronte serena, con quegli occhi dolcemente pensosi, è Petrarca.

Francesco De Sanctis

© 2009 - Luigi De Bellis