IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

Critica letteraria

La poesia realistica del Due e Trecento
La poesia di Jacopone
Il linguaggio mistico di Jacopone
Aspetti della poesia provenzale
La genesi ed il ritardo della letteratura italiana
Poesia e prosa delle origini
Le letterature romanze e la prima letteratura italiana
La poesia giocosa del Due e Trecento
Spirito e forme del primitivo dramma sacro in volgare
Origini e forme della poesia siciliana
Il "Contrasto" di Cielo d'Alcamo
La poesia di Cecco Angiolieri
Prima poesia italiana e scuola siciliana
La scuola siciliana
Cultura e letteratura dei poeti realistici
 
 
 

 

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 CRITICA DELLA LETTERATURA: ORIGINI

PRIMA POESIA ITALIANA E "SCUOLA SICILIANA"


Formandosi in Sicilia, soprattutto nell'evo federiciano, focolari di cultura - a rammentarne due insigni, Messina, « chiave del Regno », e Palermo - e stabilendosi una relativa unità culturale fondata su quel pensiero latino che costituiva lo spirito stesso, unitario e universale, del Regno, alla disgregazione dei dialetti dovette succedere la rintegrazione di lingue parlate, le quali, per natura dotate di vigoria espansiva e unificatrice, si liberavano dai caratteri troppo tipici o eccentrici e si diffondevano livellando i vernacoli, ed, esplicita significazione di civiltà, subivano un processo di stilizzamento. Linguaggio colto della conversazione era certo il « dilicato parlare » assai amato, per testimonianza del Novellino, dal « nobile e potente imperadore Federigo », «specchio del mondo in parlare ed in costumi». È perciò assurda l'ipotesi che i nostri dialetti del Duecento avessero certe conformità finite poi per oscurarsi e non svelassero ancora alcune differenze che spiccano in seguito, perché (si afferma) tutti più prossimi alla loro comune origine. In realtà e invece, il latino, nell'atonia spirituale dei secoli dal VII al IX, si era andato decomponendo in una pletorica moltitudine di parlate: e la effettiva conformità della lingua, assunta, per esempio, dai testi letterari, religiosi e didascalici, dell'Alta Italia nel secolo XIII, non poté che conseguire, come ben videro il Mussafia e il D'Ovidio,a un vasto movimento di cultura che rese comuni modi di vita c modi di lingua : rassomiglianza tanto più netta e tangibile, quando dalla lingua parlata si passa alla scritta. S'intende poi che suoni e forme e modi dialettali largamente diffusi restrinsero la loro area d'espansione o dileguarono in seguito, col frazionamento che caratterizza la storia d'Italia.

Lingue cosiddette di civiltà, effetto del dilatarsi di un tipo di vita raffinata e colta, erano quindi pronte in Sicilia ad assorgere a organo di letteratura, e a linguaggio nuovo, quando germinasse una lirica schietta e nuova. Invece, la poesia amorosa fiorita nell'Isola ha il suo nascimento, o almeno trova incentivo c aiuto, in un'altra poesia, quella trobadorica: non è canto che si possa levare sotto ogni cielo, non è « il fiore che spontaneamente si apre al calore di ogni emozione della vita », ma, nel suo insieme, elaborata manifestazione letteraria del sentimento d'amore, pensabile dunque solo, come del resto tutta la poesia romanza, in una atmosfera di cultura. Dalle corti feudali della Francia meridionale la lirica dei trovatori s'era propagata e imposta nella Penisola iberica, in Italia, nella Francia del nord, in Germania, per i suoi ammalianti ideali d'arte e di vita : perché - lo ha mostrato in un suo penetrante discorso Carlo Vossler - rappresentava in forma aristocratica, e tale da poter gareggiare per accorta eleganza con la più squisita poesia latina del medioevo, il complesso mondo di sentimenti individuali del poeta e, in ispecie, l'amore spiritualizzato : mondo individuale ma a un tempo collettivo, in quanto rispondeva al sentire di una nobile società cortese. E formalismo, culto dell'io, spiritualizzazione dell'amore, ossia le caratteristiche in cui il Vossler fa risiedere il pregio e il prestigio della lirica occitanica, dispiegarono un'efficacia palese e diretta sui primordi della poesia europea.

I nuovi doctores illustres, - giudici, notai, uomini d'arme a di chiesa, nativi dell'Isola (e sono la più parte, i più antichi e i più celebri), del rimanente Regnum o di altre regioni d'Italia, e comunque legati alla Corte degli Svevi, e che costituirono presto una scuola con un suo gusto particolare, - si accordarono alla nota dominante. E poiché nella letteratura ha rilievo ed è pungolo la tradizione o imitazione, essi derivarono dai loro supremi e inevitabili modelli, ma con qualche indipendenza, i concetti e gli atteggiamenti dell'amore di corte col relativo fastoso corredo di convenzionalismi, galanterie e astrattezze; dedussero la forma metrica del discorso; di più trassero conforto e sostegno ad applicar alla lingua siciliana quella tecnica che era un'eredità latina, continuatasi nel Medioevo e aggravata da buon numero di ingegnosi artificii di concetto, di stile, di versificazione. Confluirono pertanto nel lessico della nostra prima poesia, e in quello dell'antica poesia francese, nel gallego-portoghese dei trovatori della Penisola iberica e nel medio-alto-tedesco dei Minnesànger, i termini dell'idioma d'amore delle corti occitaniche, il quale si fece così europeo, ed è considerato come un linguaggio proprio solo di un certo strato sociale, capito solo in un determinato ambiente, tipico insomma di una scuola, ed è stato posto legittimamente a confronto con la terminologia italiana della musica, che godette anch'essa, nei secoli XVII e XVIII, di incontrastato dominio nell'Europa...

Ma i rimatori legati alla Corte sveva, che, discepoli dei Provenzali e, non meno, dei Latini (troppo spesso tenuti in disparte, questi ultimi, nell'esplorazione della nostra nascente poesia), avevano fine il senso della forma, limpida la coscienza del valore personale della parola, lavorarono con trepida cura la loro lingua quotidiana, per modo che, nobilitandosi, riuscisse una veste appropriatamente ornata del contenuto amoroso...
Ma dove i dicitori per rima delle origini avranno potuto acquistare familiarità intima con una lingua squisita e una tecnica consumata quali sono quelle della poesia occitanica?

Mette in vista, naturalmente, Bologna chi si pone a ricercare, tra la fine del XII e gli inizi del secolo XIII, un centro cospicuo di cultura che fosse frequentato, fuori del Regnum Siciliae, da Meridionali, e in cui la conoscenza dell'arte trobadorica dovesse essere diffusa e si avesse agio di apprendere a fondo i segreti della forma letteraria medievale, latina non solo ma anche volgare italiana, e, se volgare, in qualche modo di colorito toscaneggiante.
Nella gloriosa capitale dell'insegnamento universitario le raccolte poetiche dei trovatori si divulgarono certo fra dottori e studenti tramite la scrittura, per mezzo della scolaresca di nazione provenzale e mediante la recitazione dei giullari: mentre per il popolo e tra il popolo circolavano i cantores rerum francigenarum. È notevole che Boncompagno da Signa, il quale allo Studio professava bello stile o rettorica - e fu autore della Rota Veneris, « una specie di Ars e di Summa dictaminum ad uso degli amanti », scritta urbanitatis causa, - tra i moduli di commendatizia, del 1218 circa, ne inserisse uno in favore di Bernardo di Ventadorn, che egli conosceva solo per fama. Del rimanente, nella nativa Bologna imparò l'arte poetica dei Provenzali, giurisprudenza e ars dictandi Lambertino Buvalelli, a cui viene riconosciuto il merito di aver sollevato l'arte dalle mani dei giullari e dei trovatori di second'ordine a quelle dei dotti che si consacravano alle finezze del giure, alla filosofia, alla dialettica e si preoccupavano del decoro della forma poetica e prosastica.
Proprio del lavorio letterario davano la teoria e gli esempi dalla cattedra i maestri di ars dictandi : oltre a Boncompagno, Bene da Firenze e Guido Faba, il quale ultimo mostrò il modo di applicare al volgare le norme medesime che regolavano lo scrivere latino e ci ha lasciato quindi i più aprichi saggi di una prosa d'arte italiana. Con una vita dello spirito tanto fervida, e piuttosto che per influsso dei vernacoli contigui, si capisce pure che il dialetto bolognese, in quanto strumento della conversazione colta, si dirozzasse e levigasse al punto di apparire a Dante la miglior parlata municipale d'Italia. Ma le preferenze di Dante per Bologna troveranno la loro ragione non meno nel fatto, su cui batteva il Parodi, che la città dello Studio, oltre ad aver dato all'Italia il primo esperimento di prosa d'arte, era stata anche la patria del Guinizelli, l'instauratore di una nuova Scuola poetica.

Dei Meridionali che attesero al giure in Bologna, e qui forse avrebbero perfino cominciato la loro attività di poeti, è rappresentante Pier della Vigna, da Federico assunto agli uffici di notaio, di giudice e poi di protonotario e logoteta del Regno e dell'Impero. Ma anche altri regni-coli che avevano conseguito in quell'Università il grado di magister il quale apriva la strada ai pubblici uffici, il Monarca volle con sé nell'opera di riordinamento amministrativo e legislativo del Reame che attuo dopo il suo ritorno, del 1220, dalla Germania: allo stesso modo che docenti e scolari dello Studio bolognese richiamò nel Regnum quando, correndo il 1224, istituì le cattedre del nuovo Studio di Napoli.
Comunque, quali che siano gli argomenti e le supposizioni, risulta tutt'altro che necessaria l'ipotesi della fase bolognese nella storia della nostra più antica poesia, si accetti in cambio la tesi antipositivista ciel libero, spontaneo, imprevedibile circolar delle esperienze letterarie e artistiche, o si presti fede agli obiettivi dati di fatto, che non mancano e sono stati messi insieme dalla solerzia degli eruditi. Né l'ipotesi della fase bolognese é proprio indispensabile a spiegarci il linguaggio ibrido dei nostri primi rimatori, quale risulta dai manoscritti e con le sue ben note attinenze col toscano. Circa poi l'ars dictandi, « difficile sarebbe ammettere che gli stilisti siciliani dell'opaca federiciana abbiano direttamente derivato il loro stile dai dettatori di Bologna, nonostante i parecchi punti di contatto che essi presentano ». Piuttosto è da pensare alla Curia romana.

La lingua già epurata e livellata dalla conversazione colta, necessaria per un'arte e una tecnica pretensione come quelle dei Siciliani, presumibilmente fu il dialetto messinese, poiché nativi di Messina, la città che per importanza superava la stessa Palermo, erano numerosi poeti e di grande prestigio. Il nuovo idioma accelerò com'è naturale, e intensificò, parallelamente all'affermarsi dell'arte della parola, il suo processo di liberazione dai tratti vernacoli, che - spiega Amado Alonso in pagine luminose sulle lingue letterarie - allo scrittore sembrano propri di un momento di scarsa tensione spirituale, o comunque ripugnano all'ansia di universalità, caratteristica della lingua della letteratura, in quanto peculiarismi geografici e soprattutto sociali e, insomma, limitazioni. Con lo sfrancarsi dallo stato dialettale: è da considerare il contatto c l'influsso operoso e molteplice delle grandi lingue di civiltà: quella che rappresen-tava la tradizione rispecchiava la forma di cultura più alta e veneranda, ossia il latino dei libri, della scuola e della Chiesa, c quella che rifletteva una nuova vita dello spirito, morale e artistica, ossia il provenzale. La parola dei trovatori evocava all'immaginazione nostalgica dei poeti di Sicilia il fantasioso mondo dell'amore cavalleresco, contrastante con le coercizioni del costume feudale, e ornava e impreziosiva. Il latino favoriva quella tensione spirituale che si accompagna al momento estetico della lingua; e, determinando un deciso progresso sulla gracile sintassi e la logica balbettante dei Provenzali, rinsaldava l'architettura del periodo con lo stringere e rilevare i legami del ragionamento...

L'aura siciliana ha infuso nel nuovo linguaggio anche provenzalismi, cresciuti poi di numero con il già ricordato intensificarsi, negli anni di Guittone, dello studio dei trovatori. E voci di Sicilia, latine, provenzali, costituendo presto lo strato arcaico, e tradizionale, della lingua poetica toscana, hanno la facoltà, che è insita negli arcaismi ed é stata chiarita con finezza dall'Alonso, non di significare o definire, ma di ornare, e rispondono egregiamente, perché vissute in pagine illustri, alla tensione dell'attività letteraria; come sinonimi, sono una ricchezza non lessicale ma spirituale; come forme particolari di sensibilità o modi di vedere, si trasmettono da poeta a poeta, e instaurano una tradizione.
Per mezzo soprattutto delle rime, ma senza trascurare altri indizi, si sono dunque potute ravvisare (e si è accennato) le genuine sembianze della lingua in uso presso i poeti che fiorirono alla Corte sveva. Le loro poesie furono trascritte e ritrascritte da amanuensi quasi tutti toscani (qualcuno é emiliano o veneto), e quindi più o meno toscaneggiate.
Peró, sotto la patina toscana serbano un linguaggio che nei suoi tratti caratteristici si rivela fondamentalmente siciliano, vale a dire poco idiomatico.

Alfredo Schiaffini - Tratto da Prima elaborazione della forma poetica italiana


© 2009 - Luigi De Bellis