FRANCESCO REDI
UOMO DI SCIENZA E LETTERATO
Uomo di
scienza acuto e appassionato, sperimentatore infaticabile.
scrittore nitido e preciso, il Redi fu una delle personalità
più caratteristiche dell'ultima Firenze medicea. Allo
scienziato, al medico si univa il letterato preoccupato non
solo della validità delle sue esperienze, ma anche del
nitore della pagina scritta, della grazia e della vivacità
dell'invenzione. Anche la sua poesia - e il Ditírambo in
specie - rivelano il suo gusto di letterato raffinato e
brillante, pieno di brio e di festosità nella varietà del
ritmo, nel movimento delle immagini, nella preziosa
freschezza del linguaggio.
L'esser poeta e medico, appassionato di libri, codici e
manoscritti letterari (il Redi ne fu addirittura smanioso) e
insieme sperimentatore di gabinetto; scrittore di memorie
scientifiche e insieme poeta di canzoni sonetti e ditirambi,
era cosa naturale in quel secolo che dette i primi impulsi
alla Crusca e fece nascere il Cimento. E dell'una e
dell'altra accademia, fu a capo il Redi.
Anche l'esser nato, si può dire, e cresciuto a corte non gli
nocque.. Esser cortigiano sotto i Medici e specie sotto
Ferdinando II, per un uomo di scienza voleva dire aiuto,
modo e stimolo al proprio lavoro. Alla Repubblica alla
grande arte e a Michelangelo era appena allora succeduta una
Firenze borghese e il più laborioso, attivo, intelligente
dei principati. Dopo i famosi mercanti, Firenze mandava per
il mondo gli scienziati, gli astronomi, i medici. Non di
rado i suoi principi si valevano di quegli uomini di scienza
anche per le loro politiche ambascerie: così il metodo
sperimentale appena nato, nelle corti della vecchia Europa,
faceva le sue prove non solo sui preparati di gabinetto, ma
sugli uomini vivi.
A Firenze accorrevano intanto uomini politici e di studio,
artisti e lestofanti da ogni parte. Alcuni fanatici,
ciurmadori e levantini (e ne racconta il Redi) che in quel
bailamme s'illusero di far passare immaginarie meraviglie,
pietre filosofali, specifici toccasana, si ebbero le beffe e
fecero il buon umore di tutti. «Firenze è paese totalmente
inabile per la semenza delle carote», avvertiva il Redi che
a Pitti per quasi cinquant'anni fu capo, stimolo e vaglio
del grande laboratorio mediceo. Chiedevano di lui nostrali e
stranieri, e senza fretta anzi con l'apparenza un po' stanca
nell'intima alacrità, il Redi ascoltava e rispondeva a tutti
(conosceva anche l'arabo e il turco) in tutte le lingue. Il
magrissimo Redi, il Redino, il Reducolo, come da sé si
chiamava, era però infaticabile. Le sue esperienze di
naturalista, sugli insetti i vermi le serpi, furori
migliaia; più d'una scoperta gli dovette la scienza: quella
sul veleno delle vipere, sulla generazione delle piante,
sulla generazione spontanea; e senza che ne esistesse ancora
la teoria, mise lui in atto per primo il metodo antisettico.
La fama del medico era andata intanto lontano: gli
sollecitavan consulti dalla Germania, dalla Francia,
dall'Inghilterra e glie ne chiese il re di Baviera. Nei
Consulti scritti che ci lasciò, s'incontrano tra i suoi
pazienti eminenze, governatori, principi; in malinconica
galleria, molti potenti del secolo.
Senza famiglia, senz'altre cure, tra la corte e il
laboratorio, il magro secco inaridito Redi, è l'ingegno
applicato del tempo: rappresenta nel meglio l'ultima Firenze
dei Medici.
Com'è spesso dei faceti e begli spiriti, l'umore dell'uomo
fu piuttosto malinconico; ma né querulo né acre mai.
L'esperienza di tante e cosí varie attività gli aveva
asciugato presto le illusioni. «Io sono d'un genio
cosiffatto che se prima. non ho sperimento chiaro delle
cose, non soglio porvi molta speranza, ancorché non le
dispregi mai temerariamente per false; anzi perché
desidererei che fossero vere però mi metto a tentare
l'esperienza». Parla delle vipere; ma voltate queste parole
al morale, e avrete la, ricetta sicura per essere insieme
operosi e malinconici.
Ma chi voglia conoscer l'uomo, meglio che gli opuscoli
scientifici, legga le lettere e soprattutto i consulti. Gli
opuscoli, e su tutti quelli famosi sulle vipere e sugli
insetti, danno il peculiare esempio del suo metodo e della
prosa: gli ornamenti letterari se ci sono restano nei
preamboli, o negli interstizi del discorso; giunti
all'esperienza, la pagina è netta e precisa come nel
laboratorio il vetrino di un preparato; le parole esatte
ferme e prensili come pinze; tutto il periodo rapidamente
svolto come il lavoro di un anatomico. Ma quell'acuta
attenzione, quel guardar fisso e senz'ombra danno alla fine
(e doveva scientificamente esser così) un'impressione di
oggettiva estraneità e quasi crudezza.
L'uomo, lo troviamo meglio espresso nelle lettere e nei
consulti. Metodo e scienza, al buon medico non bastano;
l'arte ci vuole: che è naturale simpatia, intelligenza
umana, esperienza del vivere; infine quella certa scettica
indulgenza che fu, nei consulti, la grazia del Redi. E i
suoi consulti, non sembra possibile si possa dir così d'un
libro medico, ma sono tra i libri amabili della nostra
letteratura. Senza avvedersene, certo senza proporselo, caso
per caso, il Redi di medico diviene moralista; attraverso il
fisico, studia e aiuta il carattere e l'animo del paziente.
Specie se questi sia uno «ipocondriaco», un «malaticcio», un
«malinconico», il consulto finisce per diventare un
carattere: Teofrasto aiuta Ippocrate.
Letteratissimo il Redi fu sempre. E così appassionato di
testi e codici che, lavorando alla terza impressione del
vocabolario della Crusca, lui arciconsole, non pago dei suoi
tanti apporti e contributi veri, aiutandolo in ciò l'umor
faceto, finí per inventare più d'un testo non mai esistito;
e si cavò dalla fantasia citazioni e citati. Uno scandalo:
ci vollero però due secoli e mezzo, e un congeniale della
lingua come Isidoro del Lungo perché qualcuno se
n'avvedesse.
Anche la poesia del Redi nasce tutta di letteratura. Fu
spesso bernesco (era, allora e poi, il destino di tanti) o
tenne dal Chiabrera o petrarcheggiò. Chi per poesia, come
oggi è l'uso, intende «lirica», salti pure il Redi. Ma chi
non respinge, per quel che valgono, - la grazia, i concetti,
l'ingegno e anche l'ingegnosità della poesia letteraria,
ammirerà sempre il miracolo di Ditirambo. Quei mille versi
costarono all'autore dodici anni di lavoro: furono scritti
provando e riprovando: ne mandava via via saggi agli amici,
chiedeva e discuteva i consigli; finché non raggiunse quel
getto, quell'unità, quell'artificiosa naturalezza. Alcuno
più tardi disse che il Bacco del Redi manca di poesia; e il
Carducci un giorno che cercava la poesia bacchica italiana,
e ricordò qualche chanson à boire del Rolli e del marchese
Maffei, il Redi neppure lo nominò. Voleva con ciò dire che
il Ditirambo manca anche di Bacco? Il Redi era astemio e,
per quell'agile ma barocco volteggiare per le volute, il
Ditirambo può anche far pensare all'acqua, e per esempio a
una fontana del Bernini...
Resta vero che il Ditirambo, piaccia molto o meno, mera.
viglia da tre secoli; e che il Redi, scrivendolo, si creò il
titolo più vistoso alla fama letteraria. Quando, di 71, anni
il Redi morí in Pisa alla Corte di Cosimo III, l'elogio più
vero di lui, quello che meglio definisce l'uomo e insieme il
doppio umore del secolo, lo scrisse il Magalotti: «Il signor
Francesco Redi ha raggentilito la medicina, quanto San
Filippo Neri ha raggentilito la santità». |