AUTOBIOGRAFIA
E STORIA DELLA POESIA DEL CAMPANELLA
Le Poesie
del Campanella sono profondamente radicate nell'esperienza
vitale dell'uomo e del filosofo, che in esse si esprime
cercandovi ora conforto e sfogo, ora uno strumento polemico
di sdegno e di invettiva. Su questo fondamento si innestano
le numerose influenze letterarie che il critico indica
soprattutto in Dante, nel testo biblico, in Petrarca e
Tasso, in Lucrezio e nei poeti satirici latini, in Leonardo.
Tutta la poesia del Campanella riceve, infine, unità dalla
costante immersione dell'ispirazione poetica e della
tematica filosofico-religiosa nel terreno tormentato della
storia del suo tempo.
Sono le Poesie il diario poetico di una personalità, la cui
vita fu veramente una perenne e affannosa tragedia:
riformatore, legato alla sua terra e alle sue tradizioni,
cercò nella poesia assai spesso conforto e sfogo contro le
avversità e gli avversari; a volte, stanco, si lasciò
andare, forse - e son questi i momenti nei quali nascono
quegli sprazzi di lirica che ai lettori moderni più fanno
effetto e impressione; ma che non sarebbero senza quella
«durezza» del suo filosofar poetando; non toccherebbero il
nostro difficile e sofisticato gusto, se non uscissero
insieme agli scoppi d'ira e agli sdegni e all'invettiva:
dalla stessa base e dallo stesso fondo, dalla medesima
sorgente.
Da questa natura e funzione, ecco, nelle Poesie, la
possibilità di uno studio non astratto delle influenze
letterarie. Prima, e più evidente, suggerita d'altronde
dalle stesse formulazioni della poetica campanelliana,
quella di Dante; del Dante dei trattati, in special modo del
Convivio, per la intelaiatura stessa della Scelta e
l'Esposizione in prosa; ma frequente è l'influsso delle
«petrose», delle stesse canzoni dottrinarie, dei versi
dottrinari della Commedia: a volte esplicitamente indicati
dal Campanella, come nel sonetto Anima immortale, ove si
sottolinea che «illuiare» e «incingersi» «son vocaboli di
Dante, mirabili a questo proposito» (nella Poetica prima
aveva dedicato qualche nota alla funzione dantesca
nell'arricchimento della lingua); o come nel sonetto Che gli
uomini seguono più il caso, ecc., dove un intero passo
dantesco è citato a conforto nella esposizione; e cosí nella
Canzon d'Amor, e via dicendo. Per quanto riguarda le
moltissime riprese da passaggi biblici (particolarmente dai
Salmi) par difficile, per una personalità come il
Campanella, parlare di influenze letterarie, se non là dove
il «salmo» è ripreso e riassunto anche come «forma». Non
sappiamo poi se il Campanella conoscesse direttamente
Guittone, e in genere la poesia dottrinaria predantesca;
certo qualche punto ci ferma su questa quistione, come,
unico esempio e sufficiente,
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Co'
monti e valli e fiumi e mar distingui
i paesi: altri impingui, altri fai macri,
e dolci ed acri, ... |
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Petrarca
resta ancora, in qualche tono o accento, anche al di fuori
delle giovanili e delle amorose; e presente è pure il Tasso
delle Rime. Non si dice poi dei classici: Lucrezio in primo
piano, e i satirici, da Orazio a Giovenale. Mentre un cenno
particolare si vuol fare per Leonardo. Non è possibile
accertare quanto degli scritti leonardiani il Campanella
potesse conoscere, sia pure per via orale o indiretta; certo
eran nell'aria quelle illuminazioni del Vinciano, non solo
sul piano e nel clima della scienza, ma anche in quello
dello stile. E diversi sono i passi campanelliani che a
Leonardo ci fanno pensare, nella esposizione in prosa,
specialmente là dove più secca e tersa si fa la scrittura:
Mira che i diversi climi per diverso calore variati, e gli
diversi siti producono la diversità degli enti, onde noi
.conosciamo la divina arte, di virtú multiplicissima.
Nota come del fummo si fa l'acque nelle caverne de' monti; e
più dell'acqua del mare lambiccata come per spogna o per
feltro.
Il vento, portando gli odori e 'l freddo e 'l caldo, tira
gli animali a' diversi paesi, e di più le navigazioni; e
invita a consulta il vento freddo e forte, che unisce i
spiriti dentro. Ma il grosso australe fa dormire e in Libia
atterra nel sabbione i passeggeri.
Fino allo stupendo e celebre passo dell'elegia Al Sole:
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Le
virtú ascose ne' tronchi d'alberi, in alto
in fior conversi, a prole soave tiri.
Le gelide vene ascose si risolvono in acqua
pura, che, sgorgando lieta, la terra riga.
I tassi e ghiri dal sonno destansi lungo;
a' minimi vermi spirito e moto dài.
Le smorte serpi al tuo raggio tornano vive:
invidio, misero, tutta la schera loro.
Muoiono in Irlanda per mesi cinque, gelando,
gli augelli, e mo pur s'alzano ad alto volo.
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Ma dalla
tessitura letteraria, dalla dottrina, dal giuoco metrico
complesso e talora, nelle grandi composizioni, apertamente
barocco, quell'unità spicca, quasi trionfa; e la «rozzezza»
e l'«incondito» vogliono essere un invito all'austerità,
alla severa attitudine, con l'esempio dei poeti-filosofi
dell'antichità, da Empedocle e Parmenide a Lucrezio. Di qui
appunto, quando la poesia balza fuori, è carica di sensi
segreti («canto un occulto metro», dirà di sé), e un verso,
che, staccato, piacerebbe a un moderno decadente (come «Desir
immenso delle cose eterne») prende forza e luce dal
travaglio stesso concettuale che l'ha prodotto. Così, di
questo canzoniere tanto lusingato e non ancora studiato a
fondo, può dirsi ciò che si afferma dell'alta e vera poesia:
prendere con l'interesse storico e culturale, affascinare
con la suggestione che ne promana. Purché non si perda il
senso dell'unità dell'opera; che potrebbe essere, in fondo,
celebrata e come ribadita da quell'egloga latina che il
Campanella, negli estremi anni della propria vita,
.indirizzò al re e alla regina di Francia per la nascita del
futuro Luigi XIV, «suprema speranza del mondo cristiano»: le
Muse di Calabria, che allattarono Virgilio, mi spoglino
dalla vecchiezza e faccian sì che in me giovinezza si
rinnovi, mentre m'accingo a cantare cose nuove. E ripeteva i
versi augurali di Virgilio, «Redeunt Saturnia regna», e li
commentava con la rivoluzione copernicana; aggiungeva
presagi profetici per la identità del giorno della nascita
del Delfino col giorno della propria nascita:
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Quo
die ego natus, venisti in luminis oras,
instaurare ego Musas, tu nova saecula rerum.
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Immergeva,
auspici. le Muse calabre di Ennio', l'autobiografia nella
storia.
E la storia fu, in un'epoca di grandi rivolgimenti, il cozzo
decisivo di due mondi, e il suo proprio isolamento: la
provincia, il convento, il carcere, l'esilio; desolazione e
dominazione spagnola; rifugio in una «missione» religiosa
che lo spingerà poi, coscientemente, alla lotta contro i
residui della scolastica e lo farà profeta inascoltato di un
mondo nuovo; e la fine in esilio. La pigra e stantia
istruzione dell'infanzia, dalla grammatica alla fisica
aristotelica; un buttar via continuo, d'inutili esperienze,
di formalismi costretti. Di qui il suo esser irregolare,
contro le accademie, e l'aver consumato, come San Girolamo,
più d'olio che i suoi avversari di vino. Infine,
l'esperienza vera, quella della Natura, la esperienza
leonardiana, che lo conduceva ad affermare «Io imparo più
dall'anatomia d'una formica o d'una erba», nella natura, «il
gran libro di Dio»; e il suo studiare nonostante tutto, il
suo esser vissuto «ben seimila anni in tutto il mondo». Il
desiderio di azione, il cozzo con la realtà e la società
politica; e le contraddizioni che ne derivarono e gli
amareggiarono la vita. Di tutto questo c'è nelle Poesie la
traccia viva, il segno profondo. |