Storicità
della poesia e delle teorie tassesche
Se c'è una poesia singolarmente rappresentativa di
un'epoca storia o almeno di alcuni suoi aspetti
fondamentali, unanimemente individuati, questa a me
sembra essere la poesia tassiana. L'importante è non
dimenticare che i modi particolari con cui l'arte si
lega alla storia, e illuminandola nel profondo la
interpreta e la rispecchia, sono spesso allusivi e
segreti. Nel caso del Tasso, si dovrà infatti rinunciare
al reperimento di un rapporto dichiarato ed esplicito,
verbalmente motivato, così come non converrà indulgere
alle consuete inchieste moralistiche fondate sulle
contraddizioni psicologiche e sugli sviluppi
sentimentali. Dislocando infatti con troppa disinvoltura
certi rigidi «ritratti» del poeta, costruiti inseguendo
le apparenze più vistose, sul piano del giudizio
critico, si è condotti fatalmente a falsarne la
personalità autentica, che non sopporta semplificazioni
di comodo, e a ridurne l'opera ad alcune isole poetiche,
più o meno estese, le quali sembrano poi affiorare, per
assenza di prospettiva storica, come terre vergini
scoperte con sorpresa dopo una navigazione cieca e
fortunosa.
La verità è che una figura così complessa come quella
del Tasso, a parte certi eccessi esasperati che
richiedono, questi sì, giustificazioni particolari e
private, non può essere adeguatamente decifrata con gli
strumenti della psicologia autonoma, ma va reinserita
nella storia dell'epoca di cui si trovò ad assumere i
tratti dominanti, sì che le sue stesse contraddizioni
non vengano più attribuite a bizzarrie umorali o a
debolezze di carattere, ma siano considerate come il
riflesso di una condizione spirituale più vasta e
generale, come la testimonianza, sia pure
soggettivamente ipersensibilizzata, di quella intensa
crisi che si aperse, giusto nel cinquantennio che durò
la non lunga vita del Tasso, nelle istituzioni politiche
e nella vita intellettuale italiana.
Se è parso necessario liberarsi, ad un certo momento,
del modulo convenzionale e del mediocre mito secondo cui
si era generalmente interpretato il mondo dell'Ariosto
come un ideale perenne di sedentaria placidità e di
sorniona pigrizia e se ne è, invece, approfondito, sotto
le svagate apparenze, il robusto senso della misura e
dell'equilibrio, la saggezza realistica, cioè proprio
quelle precise virtù morali che erano in accordo con le
disposizioni più intime della coscienza rinascimentale,
altrettanto salutare sembra l'abbandono definitivo di
quell'astratta simbologia di cui i romantici
incoronarono il Tasso, presentandolo come una sorta di
solitario poeta maudit, perseguitato e incompreso dalla
società, e parimenti di quella impietosa requisitoria a
cui lo sottoposero i positivisti quando credettero di
averne identificato il male nascosto mettendone in luce
i difetti di natura e le deformazioni patologiche. Si
eviterà così di accedere a definizioni del Tasso vittima
dei propri tempi oppure vittima di se stesso,
rispettivamente derivate da ingenue applicazioni del
determinismo sociologico o di quello naturalistico
trasposti rigidamente sulla delicata area psicologica e
quindi su quella artistica. Perché in Tasso in effetti
ci appare piuttosto, una volta resecate le punte estreme
e particolarmente eccentriche della sua personalità, uno
dei più partecipanti e suggestivi protagonisti
dell'inquieta epoca sua, con la quale ebbe quegli stessi
rapporti di dare e di avere, cioè quelle costanti e
ineliminabili trasfusioni, che in certi artisti,
appartenenti ad età più serene e stabili, sortiscono
effetti di felice consonanza, mentre in altri, destinati
a vivere in tempi labili e problematici, generano una
intricata trama di incontri e scontri, un difficile
accordo costantemente insidiato e tuttavia solo
apparentemente eluso.
Alla stabilità ariostesca, molto presto circoscritta in
una cerchia di operazioni avvedutamente calcolate e
tenute ben salde fino alla fine entro l'orizzonte
familiare delle mura cittadine, si oppone dall'altra
parte l'instabilità tassiana, avventurosa e improvvida,
caratterizzata da impennate repentine, inattese evasioni
e mortificati ritorni. Ma questi due così contrastanti
modi di esistenza non si spiegano né col configurare due
diversi caratteri o temperamenti, due casuali
psicologie, né estraendo da siffatte biografie due
emblematici e antistorici miti universali (mito
dell'artista razionale o classico e mito dell'artista
sentimentale o romantico; oppure, che i` ancor peggio,
mito dell'artista sano e mito dell'artista malato,
reversibile tuttavia in mito dell'artista mediocre e
mito dell'artista generosamente inquieto. Meglio, a mio
avviso, rifarsi alle precise condizioni storiche in cui
l'Ariosto e il Tasso si trovarono a vivere e
identificare il diverso sostrato culturale e spirituale
su cui vennero edificando la propria opera poetica.
Tra la stabilità ariostesca e l'instabilità tassiana
corre, infatti, la storia intensa e spesso convulsa del
tramonto rinascimentale, quando le sorti politiche
italiane apparvero ormai avvolte da una triste ombra
d'irreparabile sconfitta e si venne facendo sempre più
avvertibile il declinare dello slancio attivo e
fiducioso che aveva animato la civiltà italiana fino a
quel momento, mentre uno stato d'animo inquieto e
sbigottito andò subentrando alla sicurezza energica e
vigorosa che per un secolo aveva alimentato, negli
uomini di stato e negli scrittori, generose speranze e
magnanimi disegni. Se si pensa, del resto, al colore
fosco, quasi un presentimento di sventura, che già
s'insinua nello stesso Ariosto dei Cinque canti a farci
avvertiti che la splendida stagione della nostra
Rinascenza, dopo aver toccato il colmo, ha iniziato la
sua parabola discendente, ci avverrà di collocare giusto
alle spalle del Tasso l'inizio di quella profonda crisi
che travaglierà poi, sulle rovine delle defunta libertà
italiana e sullo sfondo delle ultime favole
rinascimentali, le generazioni successive a quella
dell'Ariosto. E tuttavia la storia della poesia tassiana
non dovrà per questo ridursi alla mesta elegia
dell'autunno del Rinascimento né alla traduzione passiva
e rassegnata di un sentimento disincantato del vivere.
Il che si trova certamente nel Tasso ma non come voce
univoca della sua anima, dai primi versi animosi del
Gierusalemme alle estreme parole luttuose, bensì come
una delusa accoratezza, un fatale e, alla fine, stremato
"taedium vitae", che visibilmente affiora solo nella
tarda giovinezza, dopo l'adolescente baldanza, e si fa
sensibile nella maturità per poi dominare interamente la
coscienza del poeta nell'ultimo periodo della sua
esistenza.
Questo significa che la storia della poesia tassiana
rispecchia piuttosto l'intero arco della crisi e ne
riflette tutto il cammino variamente accidentato: dal
momento vivo e positivo, che nei suoi aspetti drammatici
e intensi era già stato suggestivamente espresso
dall'opera di Michelangelo, al momento della chiusura
più rigida della restaurazione cattolica. Ciò che conta
perciò è tenere d'occhio non l'atto ultimo della resa,
quando la voce del Tasso si confonde e veramente si
annulla nei colori grigi del tempo, ma il lungo e
generoso periodo della resistenza attiva al disgregarsi
d'un mondo che era pur sembrato tanto saldo e sicuro di
sé. In questo periodo, che giunge almeno sino al
compimento della Liberata, il Tasso offre l'esempio
d'una singolare autonomia intellettuale, di un impegno
umano ed artistico commovente, di una ostinazione
orgogliosa, di una applicazione intrepida, di una
perspicua lucidità critica, di una buona fede schietta e
fervida. È il periodo in cui la poesia tassiana riflette
il caldo riverbero dell'eredità rinascimentale, ancora
operante nelle coscienze dei suoi contemporanei, e viene
arditamente innestandovi lo spirito nuovo e inquieto
d'una età percossa dall'urto violento della Riforma e
intimamente desiderosa d'una sincera "renovatio" morale.
In questo generoso tentativo di conciliazione del
classicismo con la moderna ansietà religiosa, il Tasso
non muoveva però da una posizione già chiara e sicura,
come era accaduto all'Ariosto, ma stando egli stesso nel
mezzo della corrente perigliosa partecipando così, di
volta in volta, a tutti gli slanci e alle speranze, ma
anche alle incertezze e confusioni sentimentali che
caratterizzarono quell'epoca di rottura, di autentico
bifrontismo spirituale. E tuttavia nulla lasciò
d'intentato prima di cedere alla deriva (non
acquietandosi che molto tardi nel puro esercizio formale
o in quello del conformismo religioso) e fece della
retorica un'arma della ragione con cui difendersi
dall'insidia sempre imminente dell'arbitrarietà degli
affetti, sforzandosi nello stesso tempo di approfondire
e di chiarire seriamente il significato del vivere, di
fronteggiare quel misterioso e conturbante sentimento
della precarietà e finitezza umane che ormai corrodeva
internamente la mirabile coerenza e la perfetta armonia
del naturalismo rinascimentale...
Il grande decennio 1564-1574 e quindi il triennio
1575-1577 costituiscono il periodo della ripresa della
Liberata e del suo compimento, della sua chiarificazione
e difesa critica, oltre che delle più profonde e
decisive esperienze umane del Tasso. Sono gli anni in
cui la sua coscienza, attivamente inquieta, e la sua
opera poetica riflettono l'assillante antinomia dell'età
controriformistica, ponendosi di fronte ad essa col
generoso intento di conciliarne i motivi opposti e di
esprimere nell'arte la raggiunta concordia. Impresa
difficile, a cui il Tasso si dedicò con slancio e
fervore e da cui doveva uscire alla fine stremato.
Se l'Ariosto, infatti, muoveva verso il poema da
un'intuizione nitida e sicura del mondo e si fondava
sopra passioni interamente padroneggiate, abbracciando
con occhio fermo e limpido tutta la vita universale
facendo coincidere perfettamente, nel Furioso, vita e
letteratura senza residui autobiografici, il Tasso
invece cercava di risalire alla luce da una condizione
sentimentale assai turbata e di ristabilire l'equilibrio
ormai spezzato tra soggettività arbitraria e aspirazioni
comuni, liberando se stesso e i suoi contemporanei dalle
insidie opposte ma egualmente funeste dell'edonismo
estetico e del regolismo esteriore. Questo spiega perché
non conserviamo neppure un lacerto ariostesco di poetica
preventiva, mentre il lungo lavoro della Liberata è
vigilato all'inizio dai Discorsi dell'arte poetica e
tutelato alla fine dalle Lettere poetiche a Scipione
Gonzaga. Così il Tasso manifestava, oltre alla propria,
una esigenza fondamentale della sua epoca, intensamente
votata all'esercizio critico e alla teorizzazione
estetica, a differenza della precedente che aveva veduto
gli artisti risolvere ogni loro problema nello stesso
momento creativo con una naturalezza e felicità mai più
ricuperate.
In pochi poeti, pertanto, la meditazione sull'arte, e
particolarmente sul poema eroico, ebbe un carattere così
serio e un'importanza così decisiva come per il Tasso. I
Discorsi dell'arte poetica, infatti, non costituiscono
una poetica astratta, mero riflesso di una speculazione
intellettuale, ma la consapevole e necessaria presa di
coscienza delle questioni inelusibili che la Liberata,
appena avviata, imponeva al poeta. In questi Discorsi,
dove l'aristotelismo è assunto con eccezionale
discrezione e personalmente utilizzato in rapporto
all'opera «in fieri», il Tasso ha impostato con
chiarezza i termini interni e stilistici di quel
rapporto dialettico tra affetti e ragione, tra moralità
e retorica, tra ispirazione religiosa e classicismo, che
gli sembrava realizzabile solo col ritorno ai modelli
della perfezione antica, illuminata di spiritualità
cristiana. La dissoluzione del «milieu» sociale e
culturale che l'umanesimo aveva elaborato, il crescente
disorientamento e l'insoddisfazione sempre più viva per
il sistema antropomorfico ereditato dal Rinascimento,
avevano restituito l'uomo italiano ad una posizione di
amara solitudine a cui invano cercava di sottrarsi
attraverso il costume di una cortigianeria decaduta,
pronta a confondere la torbida licenza e l'indulgenza
lasciva con la libertà e con l'amore della vita che
l'opera ariostesca (fra le tante, ma con spicco proprio
e sicurezza inimitabile) aveva espresso, oppure
consumandosi nella macerazione di una confusa ansia
metafisica. Ciò che il Tasso, nei Discorsi, cercò dunque
di chiarire, a se stesso prima che agli altri, fu
proprio il modo di restaurare, per via poetica, l'unità
umana in una sintesi nuova, attingendo a quella
sublimità eroica, nell'altezza dei sentimenti e nella
magnificenza della forma, in cui bellezza e virtù si
sarebbero dovute armonicamente associare. Si trattava
soprattutto di restituire l'arte, minacciata
dall'evasività frammentistica o dal finalismo didattico,
alla c materia » storica attraverso il « verisimile »,
cioè conciliando la verità con la libera invenzione, e
di frenare la dispersività e l'arbitrio delle passioni
autonome entro un organismo unitario, conciliando la «
unità » con la « varietà », anzi facendo nascere la
prima dalla seconda per mezzo di raccordi coerenti e per
niente causali tra vicenda e vicenda («così parimente
giudico che da eccellente poeta... un poema formar si
possa; nel quale, quasi in un picciolo mondo, qui si
leggano ordinanze d'eserciti, qui battaglie terrestri e
navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli,
qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui
tempeste, qui incendi, qui prodigi; là si trovino
concilii celesti e infernali, là si veggiano sedizioni,
là discordie, là errori, là venture, là incanti, là
opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di
generosità; là avvenimenti d'amore, or felici or
infelici, or lieti or compassionevoli; ma che nondimeno
uno sia il poema che tanta varietà di materie contegna,
una la forma e la favola sua, e che tutte queste cose
siano di maniera composte che l'una l'altra riguardi,
l'una a l'altra corrisponda, l'una da l'altra o
necessariamente o verisimilmente dependa; sì che una
sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini»).
Così il Tasso poneva criticamente il rapporto tra
struttura e poesia nell'unico modo che gli era
consentito nell'obbiettiva situazione storica in cui si
trovava, e ricorreva al classicismo aristotelico, a
questa lucida terapia razionale, non come ad un
repertorio di esterne regole pedagogiche ma come ai soli
principi capaci di sorreggere la sua stessa debolezza,
la sua interna e implacata « concordia discorde » nella
costruzione d'un poema d'ampio respiro, intenso e
raccolto tuttavia, in cui si rispecchiano la
molteplicità degli affetti umani (passione amorosa e
disdegno, anelito religioso e oblio sensuale, sincerità
e finzione, generosità e invidia, intrepidezza e paura,
ingenuità e calcolo), redenti però in una luce magnanima
ed esemplare di nobile grandezza e di alta «pietas»
religiosa, sullo sfondo ora corrusco ed ora placato di
imprese veramente memorande.
Solo chi non vede l'esigenza profonda d'ordine e di
chiarezza che è implicita in questa trasposizione
tassiana dell'aristotelismo sul terreno della
problematica contemporanea, può considerare la struttura
della Liberata come un macchinoso congegno, una cornice
puramente retorica; e gli sfuggirà così l'assidua
tensione tra l'energica spinta unitaria e l'opposto
impeto delle forze centrifughe, che costituisce in
realtà l'irrequieta e indocile vita interna del poema.
Mancando infatti al Tasso tanto la fede positiva di
Dante quanto la libertà agile ed estrosa dell'Ariosto,
non era possibile che la Liberata riuscisse ad emulare
la salda struttura verticale della Commedia
(teocentrica, e quindi provvidenziale), né quella
orizzontale e aperta del Furioso. L'unità di queste
opere, dantesca e ariostesca, non è altro che il
riflesso dell'unità morale ed estetica immanente nei due
scrittori, mentre per il Tasso l'unità è un bene da
ricuperare faticosamente nella propria coscienza prima
che nell'arte, un premio costantemente conteso. Era
fatale che ne uscisse perciò una struttura dei tutto
nuova, fondata non sopra un'unica e fortissima
sollecitazione, ma sopra un ritmo alterno di spinte e
controspinte che ora impongono alla poesia tassiana
sviluppi ascendenti, a spirale (con quelle vertiginose
impennate verso zone di assoluto rasserenamento, di
ansia purificata), ed ora sviluppi diversivi, più
distesamente autonomi, ma mai del tutto eccentrici
rispetto all'azione centrale. Il risultato è una
originale compenetrazione di piani diversi, in cui i
momenti eroici (storici e morali) e quelli lirici
(sentimentali e autobiografici) strettamente si
intrecciano e reciprocamente si trasfondono attraverso
suggestive increspature e secondo impulsi subitanei ed
eccitati, in un continuo e spesso repentino mutare di
luci e di ombre, di opposte prospettive, entro una
dimensione narrativa a costante doppio registro,
rispetto al quale niente è più diverso della fluente e
luminosa continuità del Furioso, della sua levigata e
irresistibile linearità. |