L'ultimo
Tasso e il "mondo creato"
Il Tasso non è evidentemente il religioso cantore delle
creature né l'ispirato interprete della creazione. Il
lirico motivo biblico della lode delle creature aveva
trovato un'eco commossa in Francesco d'Assisi, mentre
l'epos della creazione trovava riflessi di grandiosa
originalità nella pittura di Michelangelo. I germi
poetici contenuti nella Bibbia saranno ripresi in tutta
la loro complessità di motivi soltanto da Milton.
Nel Tasso invece, qualunque sia stata la sua intenzione,
passerà semmai solo qualche accento della elegia della
morte o qualche bagliore della apocalisse della fine del
mondo.
Evidentemente, alla base del poema c'è un'esplicita
intenzione religiosa, di celebrazione e di epopea del
Dio creatore, un'intenzione che costituisce un
«pensiero» che rimane presente all'intero complesso di
queste nove migliaia di endecasillabi. Che poi
l'effettiva animata parola vada oltre questo disegno, e
che non si verifichi quindi una coincidenza fra
l'astratto proposito e la concreta espressione, è fatto
abbastanza naturale e da valutarsi con oculata serenità,
anche per evitare di cadere in un gratuito giudizio
negativo, ripetendo l'errore del Donadoni, che
dall'esame del poema, estrinsecamente limitato alla sua
«fabula», derivò una sentenza di fondamentale
svalutazione. Ed in effetti la constatata negatività del
mondo religioso introdotto dal Tasso nei suoi versi non
deve risolversi necessariamente in una negazione del
significato umano e stilistico del poema.
Comunque varrà la pena di esaminare nella sua
configurazione questo mondo religioso, che, del resto,
non serberà possibilità di troppi nuovi accertamenti
rispetto ai risultati cui siamo pervenuti attraverso la
analisi delle altre opere. Potrà anzi riuscire
sufficientemente indicativo un semplice sguardo sulla
apertura del poema, che si risolve in un'invocazione
alla Trinità, prolungata in un discorso di un centinaio
di versi, che prendono al nostro assunto un valore
fortemente emblematico:
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Padre del Cielo, e tu del Padre eterno
Eterno Figlio, e non creata prole,
De l'immutabil mente unico parto:
Divina imago al tuo divino esempio
Eguale; e lume pur di lume ardente:
E tu, che d'ambo spiri, e d'ambo splendi,
O di genuina luce acceso Spirto,
Che se' pur sacro lume, e sacra fiamma,
Quasi lucido rivo in chiara fonte,
E vera imago ancor di vera imago,
In cui se stesso 'l primo esempio agguaglia,
(Se dir conviensi) e triplicato Sole,
Che Palme accendi, e i puri ingegni illustri;
Santo don, santo messo, e santo nodo,
Che tre sante Persone in un congiungi
Dio non solingo, in cui s'aduna 'l tutto,
Che 'n varie parti poi si scema, e sparge;
Termine d'infinito alto consiglio,
E de l'ordine suo: divino Amore,
Tu dal Padre e dal Figlio in me discendi
(I, 1-20) |
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In tutti questi versi, e in quelli che seguono, non c'è
il battito di un'ansia schiettamente religiosa,
l'adorante emozione del divino, quale si può trovare
nelle pagine di alcuni mistici. Piuttosto si determina
in essi un movimento liturgico, e vi suona l'aria
maestosa e un po' facile di un canto corale. L'effetto a
cui il poeta tende è quello di un'azione spettacolare,
di una musica da parata, oratoria dunque e non lirica.
Il mistero si trasforma da realtà spirituale,
partecipata dall'intelligenza o dall'anima, in realtà
puramente liturgica; diventa insomma occasione di
solennità rituale, di celebrazione misterica. Se il Dio
di Manzoni è il Dio vivente nel cuore degli uomini, il
Dio che atterra e suscita che affanna e che consola, e
se il Dio di Dante è il Dio metafisicamente concepito
come atto puro, mente e legge dell'universo, monarca
universale, legislatore e giudice, fonte di grazia e di
giustizia, il Dio del Tasso è invece il re maestoso,
che, lungi dall'essere intuito al vertice del mondo e
della natura, appare effigiato nel tempio cattolico, in
alto entro le cupole dipinte di affollati trionfi di
santi e di angeli librati su nubi, il re appunto di cui
non i cieli « enarrant gloriam » ma le dorate chiese
barocche nelle quali, come in reggie fastose, si svolge
lo splendido cerimoniale del culto. La religione del
Tasso si traduce dunque in vicenda esteriore e
spettacolare, in un'azione liturgica, in cui le formule
teologiche valgono noli solo come elementi e frammenti
di prediche e di preghiere, ma ancora come forme e
figure che si pongono accanto alla pompa del rito e al
corpo della gerarchia.
Senonché, accanto alla religione dogmaticamente e
canonicamente definita, ed entro le linee di essa, si
sviluppa un intimo sentimento religioso, una personale
religiosità, che non è poi altro che una sofferta
convinzione che si raccoglie intorno all'uomo e al suo
destino, alla sua vita dolente e faticosa, fuggevole e
senza pace, alla sua morte crudele e implacabile. Gli
uomini, entro il tessuto espressivo del Mondo Creato,
sono nominati costantemente sotto il riflesso di
un'aggettivazione carica di sentimenti di stanchezza e
di pietà: «miseri mortali», « faticosi e rigidi mortali
», «egri e miseri mortali», «faticosi e miseri mortali»
e simili. E la loro condizione, osservata con veloci
illuminazioni analitiche, si rivela in una serie di
dolorosi scorci che si aprono via via lungo lo sviluppo
del poema, e definiscono conclusivamente una prospettiva
grondante di dolorosa malinconia. È, intanto, la
coscienza della fragilità del conoscere umano: «...
nostra ragion ha corti vanni Dietro il senso
fallace...»; oppure: «O vana sapienza, e vano ingegno De
la natura umana in Dio superba!» (II, 157-158; 460-461)
o ancora con una più suggestiva risonanza del motivo
essenziale del gusto tassiano:
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... in polve è scritta ed in minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin, che Palme illustra:
Onde ne l'imbrunir d'un breve giorno
La si porta e disperde 'l mar e 'l turbo
[IV, 814-818] |
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verso in cui l'accento lirico batte non certo su
quell'inciso, «senza lume divin», dettato dall'ossequio
formalistico alla religiosità ufficiale, ,ma sulla
scontata convinzione della irrimediabile vanità di ogni
conoscenza. È poi la nostalgia della pace così incerta
stilla terra (« e quiete è quaggiù fra 'l pianto e
l'ira»: 1, 39) e sospirata lungo tutte le sette giornate
e posta come meta fatale, unicamente in Dio («Ma nel
creator pace e riposo Han le create cose...»: VII,
144-145)...
E si ritorna fatalmente al gran tema del perenne cadere
delle illusioni che sorridono per breve ora al cuore dei
mortali; il tema che è al centro di tutta la meditazione
poetica tassiana, e che segna l'unico autentico palpito
di religiosità del suo poetico dire, il punto estremo e
il più sincero del suo mondo religioso, rispetto ai temi
più esteriori e gelidi del diffuso conformismo. Nel
Mondo Creato si alternano e si incontrano via via i modi
di questa varia contrastante tematica: e fluiscono l'uno
nell'altro con unità di discorso, anche se con diversità
di accento, come si può osservare nei versi finali del
primo giorno, che mormorano prima una loro musica
dolente, sospirosa di pace e angosciata dal senso della
morte, anelante ad un giorno che non conosca tramonti, a
quella luce:
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La qual non corre faticosa al vespro
Non ha sera, o confin di fosco o d'ombra
(I, 642-643) |
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e poi si gonfiano in retorici squilli di esaltazione
della « Santa Chiesa di Roma » e dell'«altissimo seggio»
su cui sta Clemente VIII, donde quella luce è
sicuramente additata. |