L'Aminta
Il Tasso non portava a perfezione un nuovo genere
letterario, ma creava uno stil nuovo.
Nella favola il sogno di Arcadia si contrappone
costantemente alla vita reale, con una serie di
rapporti, scherzosi in apparenza, ma in realtà sofferti;
e ne nasce una lieve ombra di malinconia, ritmo segreto
di nostalgica contemplazione, non facile a isolarsi, ma
circolante nello stile, come uno - ed essenziale - dei
suoi sapori. L'Arcadia è l'innocenza; anche il dolore vi
è candido, e il desiderio puro. Fra l'uomo e la natura
vi è una semplice immediata salda concordia: il peccato
lì non esiste, né il tormento interiore o la ribellione.
Quando il dolore colpisce - come colpisce Aminta e
Silvia - l'anima lo accoglie già artisticamente
purificato; e il canto è il suo linguaggio naturale: il
dolore porta con sé la sua melodica medicina. Il lieto
fine della favola, non è solo obbligatoria risoluzione
comica, ma necessaria conclusione; è la giustizia di
quel mondo.
Così l'Arcadia del Tasso si configura come una perpetua
e mitica stagione umana, non temporale ma spirituale: la
giovinezza quale poi canterà il Leopardi. Ma mentre
questi la contempla e la rievoca con disperata
consapevolezza della sua perdita, il Tasso la vive
ancora, resta nel sogno; e tuttavia nel sognare, appunto
perché giunto al suo estremo di dolcezza, c'è una
tensione che il poeta già intende come preludio al
risveglio. Mentre egli è assorto nel dirsi quella
dolcezza estrema, segretamente lo punge l'angoscia che
tra poco tutto svanirà; e per questo non vuol perdere
una stilla del soave liquore che va suggendo dal sogno.
Canta in un fiducioso abbandono al presente; e intanto
la voce trova suoni di nostalgia, come se già cantasse
un passato. La lirica dell'Aminta trova la sua unità, e
il suo fascino, in questa -ambigua melodia;
psicologicamente ambigua, artisticamente senza dubbi; e
nuova, moderna, audace. Il Tasso non troverà più
risoluzione così felice ai suoi problemi espressivi.
Mentre con la maliziosa invenzione mitologica del
Prologo e dell'Epilogo getta con disinvolta grazia un
ponte fra l'invenzione teatrale e l'ambiente cortigiano,
fra quel sogno e questa realtà, intanto racchiude e cela
gli spiriti più seri ed intimi della favola in una
cortina di scherzosa leggiadria. Ma non sì che qualcosa
di quelli non traspaia, e nel discorso e nel ritmo. E
già nel Prologo si annuncia un contrasto - appena
accennato, e con aria di gioco signorile - fra la natura
(il mondo d'Arcadia, ove gli uomini sono rimasti nella
condizione innocente) e la società civile, fra la vita
pastorale e quella cortigiana.
Amore si lagna di Venere:
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....mi rispinge
pur fra le corti e tra corone e scettri,
e quivi vuol che impieghi ogni mia forza;
e solo al vulgo de' ministri miei,
miei minori fratelli, ella consente
l'albergar tra le selve ed oprar
Tarme ne' rozzi petti... |
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Ma egli area i boschi e le case delle genti minute,
perché gode di eguagliare i suoi soggetti, pastori o
eroi:
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...Ovunque i' mi sia, io sono Amore,
ne' pastori non men che ne gli eroi,
e la disagguaglianza de' soggetti,
come a me piace, agguaglio. |
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L'Amore riporta alla comune condizione umana di puro
fervore, ingenua passione, adesione senza riserve al
richiamo innocente della natura.
Ma questo intenso desiderio del cuore e della fantasia,
il Tasso lo avanza qui con cautela; la signorilità con
cui ne sorride non è indizio che egli lo senta
superficialmente, ma ch'egli provi timidezza a proporlo,
in tutto il suo candore, a una società - ch'è pur la sua
società, ch'egli sente sua e che ama: la corte - la
quale non era disposta a cogliere in quel desiderio se
non quanto vi trovasse di vago, edonistico, decorativo,
e non certo l'impegno di uno spirito che vi esprimeva il
preludio del suo dramma. La cautela del poeta - che non
è prudenza pratica, beninteso, ma condizione umana,
quindi passibile di suscitare linguaggio artistico - si
esprime nell'ambigua melodia del recitativo, un parlar
cantando molle e agile, la cui sorridente disinvolta
discorsività - sapiente sprezzatura - cela il voluttuoso
abbandono al sogno arcadico, la serietà del mito
tassesco.
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. . . . . . . . . . . Ella mi segue,
dar promettendo, a chi m'insegna a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara:
quasi io di dare in cambio non sia buono,
a chi mi tace, o mi nasconde a lei,
o dolci baci o cosa altra più cara. |
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In simili versi cogli un ritmo che dice ben più di
quanto non dicano le parole.
Ma la complessa vita dell'Aminta si palesa nelle due
grandi scene del primo atto. E si tenga presente che le
parole dei personaggi vibrano sospese nella sottilissima
aura lirica della favola idillica, e che non è lecito
appesantirle con la logica di riferimenti alle
situazioni pratiche dei protagonisti. Non ha reso un
servizio al Tasso chi ha creduto di lodarlo tentando di
trovare una coerenza psicologica dei personaggi, e ne ha
giustificato le parole in funzione di un loro
«carattere». È vano cercare nell'Aminta questa realtà
cronachistica: tutto vi è sogno, ove anche l'assurdo
diventa normale, e il quotidiano si trasfigura. Né il
Tasso sente l'ispirazione del movimento drammatico: sul
palcoscenico non avviene nessuna azione, la vicenda
viene raccontata, e i personaggi più che narrare cantano
un commento lirico ai fatti.
L'Aminta è infatti un'opera lirica, opera musicale; e il
miglior suo musico, fra quanti la rivestirono in parte o
interamente di note, è il Tasso medesimo; ché le sue
parole son già musica. Maggior rilievo ancora a questo
senso teatrale lirico dà il ritmo di armoniosissima
danza con cui si svolge la vicenda; i personaggi in
scena, come parlano cantando, così si muovono secondo
leggi ritmiche che risolvono in suprema grazia ogni
atteggiamento delle membra; e sono atti che non mutano
rapidamente, ma si fermano paghi della loro molle
leggiadria, e mollemente si trasformano in altri.
Infine, come pannelli in cui sia dichiarata per figure
simboliche l'essenza di quel mondo di Arcadia, stanno le
invenzioni più fresche e più estenuate della favola: dal
bacio d'Aminta al pianto di Silvia innamorata...
È il mondo delle forme pure che Poliziano riscopriva,
lucido, nitido, come fosse allora allora uscito dalle
mani di Dio: ma vi si mescola anche il senso malinconico
di rifugio con cui lo vagheggiava il Sannazzaro. Ad ogni
modo, bello, armonioso, eternamente giovane; e i
mortali, se pur visitati dal dolore, portano nel cuore,
o la riconquistano, la profonda pace di chi è concorde
con la natura. La razionalità naturalistica del
Rinascimento, per cui l'uomo riscopre e attua la sua
simiglianza con Dio, nella fantasia del Tasso si risolve
nel mito di questa felicità arcadica, fondata sulla
concordia con la natura, e che solleva gli uomini in una
atmosfera favolosa, pura, ove respirano anche gli del:
in Arcadia è costante e naturale la presenza divina.
Ma il Tasso sente - per intuizione dolorosa più che per
consapevolezza critica - dentro di sé i problemi che
minano la saldezza delle fiducie rinascimentali; e se la
sua fantasia riflette tali fiducie, riflette anche i
dubbi e gli sgomenti suscitati da quei problemi; così
che, mentre vagheggia la limpida Arcadia rinascimentale,
luogo di candida grazia immortale, ecco quella limpidità
si appanna ad un fiato di rimpianto, poi ch'egli sa che
è destinata a sparire, che il sogno deve cedere alla
veglia. Così nel canto d'una condizione presente
dell'anima risuona una nota di nostalgia, come se quella
condizione fosse contemplata con gli occhi malinconici
di chi si volge al passato.
Il Tasso, nel celebrare la candida Arcadia, canta
l'addio a quel candore: egli presente che quanto oggi -
un «oggi» non temporale ma poetico - gli appare puro,
domani gli apparirà peccaminoso e sarà fonte di
sofferenza spirituale; sa che dovrà negarsi ai suoi
richiami e rinnegare le sue dolcezze. E appunto a difesa
contro tale presentimento egli si rinchiude in quel
mondo, che ancora per un attimo serba candore e
innocenza, tentando di ritrovarvi la pace idillica,
l'armonia naturale prima della coscienza del male;
tentando di riassaporare il sapore schietto del piacere,
pura espressione di vita, goduto senza che nemmeno
un'increspatura turbi la limpidezza tranquilla
dell'anima. Ma a quel piacere egli guarda
(necessariamente, perché il cuore è in ansia per la
imminente dissoluzione del sogno) con un malinconico
idoleggiamento che ne adombra l'innocenza: come accade
alle trepidazioni adolescenti, purissime nell'atto, e
che nella memoria nostalgica di chi le ricorda
s'offuscano d'una esperienza che ne ha visto la parabola
umana. La serenità cristallina di quel mattino del mondo
umano ch'è l'Arcadia, si stempra, si illanguidisce; in
quel piacere fresco ed acerbo s'annida la voluttà. E
come nella castità primitiva s'accende il molle fuoco
voluttuoso, stimolato dal senso del peccato, così la
voluttà tenta di farsi candida entro la luce d'Arcadia. |