IL TEATRO
BAROCCO DEL DELLA VALLE
Il critico,
dopo aver affermato il perfetto inserimento del teatro del
Della Valle nel clima e nel gusto barocco, esamina a
conferma alcune delle componenti essenziali delle sue
tragedie: la coscienza dell'instabilità delle forme, il
clima religioso scaturito dal senso affannoso della vita e
dal destino di morte che su tutto incombe, il trascorrere
del tempo in un alternarsi incessante di timore e di
speranza.
L'attenzione critica accordata al teatro di Federico Della
Valle si è svolta con assoluta estraneità alle dimensioni
caratteristiche della cultura barocca. I due maggiori
critici che si sono occupati di questa singolare figura di
tragediografo hanno ignorato o rifiutato ogni possibilità di
inserzione della sua opera nel quadro del gusto barocco. Il
Croce non poteva, data la sua posizione polemica nei
confronti di tale gusto, ricorrere ad una misura che per
definizione si rivelava contraddittoria rispetto a quei
valori poetici che egli riconosceva allo scrittore che,
giustamente, tirava fuori dall'ombra. D'altra parte il
Momigliano, dopo di aver avvertito la presenza e l'azione
negativa della retorica barocca nello stile del Della Valle
(«Qua e là c'è qualche eccesso secentistico, qualche
ridondanza di maestosa eloquenza...»), si affrettava a
sottrarne la valutazione complessiva e definitiva a quel
clima di cultura inteso in maniera ancora tanto astratta e
antiquata. Eppure quei temi umani e quei motivi stilistici
che la nuova visione del mondo maturata e diffusa nel corso
del secondo cinquecento e del seicento, verrà proponendo e
sperimentando sul vasto territorio della letteratura
europea, con varia vicenda di affermazioni altissime ed
assolute e di irrequieti e curiosi tentativi, si ritrovano,
portati ad un grado di espressione artistica sorprendente
(nei confronti dei risultati raggiunti generalmente dalla
cultura poetica italiana), nel teatro di Federico Della
Valle; la cui verità lirica è pertanto tutta affidata a quei
temi e a quei motivi, trovando in essi, sotto il segno del
gusto barocco, impulso e garanzia.
Nel clima di tale civiltà già ci immergono, fin dalle soglie
di questo teatro, i prologhi delle tre tragedie. Un Angelo,
una Nube, un'Ombra, figure estremamente allusive della
coscienza della instabilità delle forme che sta al centro
della intuizione della vita propria del barocco, offrono la
loro labile parvenza agli spettatori (o, meglio, alla
fantasia dei puri lettori) pronunziando parole che
richiamano alla miseria e alla fragilità della condizione
umana. Se l'Angelo, nella Judit, si limita a modulare appena
questo motivo, una più intensa orchestrazione sviluppa la
Nube del prologo dell'Ester, accennando a quel metaforismo
universale che è tra i caratteri più tipici del mondo
barocco («... quanto muto tace / e quanto più risuona, /
voce può dirsi e lingua: / lingua, con cui alto saper
ragiona...»); metaforismo che è anche metamorfismo, dominio
di una legge di continua mutabilità («Questo dice una nube,
e 'l dice a voi / Che, se ben voi medesmi rivedrete, / nubi
anco vi direte...»). Mentre anche più dolente è la tristezza
che spira dall'Ombra che parla nel prologo della Reina di
Scozia (una figura tipica del teatro del cinque e seicento,
questa dell'ombra, ma qui rinnovata per lo sfondo della
fantasiosa immaginazione del Purgatorio e per le parole di
stanca desolazione con cui è vista ogni umana grandezza).
Attraverso il prologo gli spettatori sono chiamati a
prendere coscienza della loro condizione di vanità, di
ignoranza, di dolore («... quest'ombre vostre, egri
mortali»; «... a l'inferno saper dei vostri sensi / più
saper non conviensi»; «... o mortal gente»; «... 'l non
saper è fra i riposi primi»; «... qual nubi sorgete- / da
fangoso terreno; / onde sorti, qual nubi anco vagate / per
aria, che da voi chiamata è vita / in cui v'aggiran venti /
tristi...» ; «... o nube di mortali»; «... voi, foglie
cadenti»; «Adorate e tremate, o d'Eva errante / miserissimi
figli»). Un clima religioso si diffonde in tal modo
sull'azione tragica che sta per avere inizio: una
religiosità fatta di un senso affannoso della vita, della
coscienza dell'infermità dell'uomo, del suo destino di
morte, in cui si avverte una chiara impronta della
religiosità tassiana, e tuttavia con qualcosa di diverso, di
biblicamente più grave e sconsolato.
Cotesto sentimento elegiaco della vita si realizza mediante
alcune fondamentali strutture spaziali e temporali che si
ritrovano identiche in tutto il teatro del Della Valle. La
situazione spaziale è costituita da un luogo limitato e
limitante, un luogo che è o realmente o indirettamente una
prigione: la prigione appunto in cui è chiusa Maria di
Scozia, l'isola dove è prigioniera Adelonda, il territorio
di Betulia assediata da Oleferne, il palazzo di Assuero alle
cui leggi di favore o di disgrazia sono legati i personaggi.
La situazione temporale è offerta da una durata nella quale
si sviluppa un'attesa alterna di timore e di speranza: sarà
la speranza di liberare la città di Judit o il timore, per
tale impresa, di Abra; o la vicenda di timore é speranza del
popolo ebreo, di Ester e di Mardocheo, di Aman e di Zares,
per la loro sorte; o il contrappunto di timore e speranza
della regina di Scozia e delle sue damigelle di fronte alla
prigionia e alla morte; o infine il dubbio fra timore e
speranza di Adelonda e di Romilda per il proprio destino e
per quello di Mirmírano. Timore e speranza sono veramente
due parole tematiche. Esse percorrono tutto il teatro di
Federico Della Valle, conferendogli il definitivo
significato poetico. La bellezza di queste tragedie
scaturisce proprio da questo tempo di attesa che passa,
trascolorando fra timore e speranza, per anime protese oltre
i confini invalicabili della condizione che le stringe. |