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IL REALISMO
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VERGA E IL VERISMO
Il Verga fu verista, senza
sapere del verismo; e quando le
dottrine veristiche conobbe,
queste non lo orientarono in
modo affatto nuovo, ma furono,
come già osservò il Croce, una
spinta liberatrice perché lo
scrittore acquistasse
sollecitamente una più chiara
coscienza delle sue attitudini.
Il verismo istintivo del Verga
anzi, possiamo dire, fu uno dei
più chiari segni della sua
sensibilità di scrittore moderno
e rivoluzionario l'arte nuova,
per dirsi nuova, è sempre figlia
del suo tempo, sebbene bisogna
affrettarsi a soggiungere che
essa ne è figlia perché è in uno
genitrice del suo tempo. Così il
Verga fu scrittore verista,
perché implicitamente pieno dei
problemi che si respiravano
nell'atmosfera della vita
contemporanea; ma al momento
stesso, quella definizione di
verista mortificava
l'originalità della sua arte,
perché la poesia in quanto
poesia, ha un valore
trascendentale e si libera dai
lacci di ogni scuola. Ma, e sia
detto una volta per tutte, la
genesi veristica dell'arte
verghiana è il sigillo della suo
modernità e novità, e non già,
come credette la critica
polemica dei suoi contemporanei,
segno della povertà e angustia
dei suoi natali...
Dal verismo non si può dire
neanche che il Verga derivasse
quel malsano gusto di
rappresentare la vita, più che
nelle sue miserie dolorose,
nelle sue miserie disgustose e
nelle sue oscene nudità. Il
pessimista Verga solo in questo
non fu pessimista: nel fondo
primitivo dell'umanità, seppe
trovare una sanità e una
profondità di sentire, che non
c'era più nelle società
aristocratiche e complicate, e
però più che il descrittore del
turpe, del deforme, del basso,
dell'animalesco, egli volle
essere lo scopritore
dell'umanità dei derelitti e dei
barbari. E, per questo punto,
ebbe piuttosto il pathos
religioso di un romantico, che
crede alle virtù del popolo, più
che l'arida e presuntuosa
superiorità del positivista, che
era felice solo nello scoprire e
catalogare tipi inferiori di
umanità. Per codesta sua
illusione romantica, il Verga
riesci appunto ad essere uno
scrittore morale, non nel senso
che egli si sia dilettato di
moralismo o perché abbia
schivato argomenti di facile
lubricità, ma scrittore morale
in un senso più alto, poiché
egli umanizzò la vita dei
derelitti, dei bruti, dei vinti,
creando una tragedia del
sentimento, là dove gli altri
vedevano soltanto un contrasto e
un urto di forze naturali. Il
positivismo delle menti portava
a vedere nella vita dell'uomo un
meccanismo che si muovesse per
virtù e potenze di istinti, di
malattie ereditarie, di
idiosincrasie fisiologiche; e il
Verga dimenticò le brutali e
grossolane ricette della
patologia, per vedere
dappertutto la vita, e non la
malattia, e sentirne i palpiti
che sono forti e sani, quanto
più trascurati dalle squisite
ricerche dei dilettanti di
psicologia, e quanto più
inascoltati dagli stessi
protagonisti che soffrono quasi
senza riflettere e filosofare
sulle loro sofferenze.
Così il Verga restaurava il
regno dell'anima, dove il
verismo meccanizzava la vita; il
Verga idealizzava là dove gli
altri, più che soffiare la
poesia, ne soffocavano il
leggero respiro, per il quale
essa vive nelle cose tutte del
mondo quasi per originario
nascimento; il Verga scolpiva
gli uomini, dove gli altri
radunavano documenti umani; il
Verga riscattava, confermandone
la responsabilità, gli affetti,
le passioni, le tragedie di
sangue e di gelosia, là dove gli
altri farneticavano di una
antilibertà del volere dei
primitivi e di una brutale
fatalità dell'agire; il Verga
infine legittimava nel regno
della vita morale sentimenti e
passioni, che certo
convenzionalismo etico delle
religioni confessionali,
accarezzando l'ipocrisia
sociale, condanna come peccati:
Non accusate l'arte, che ha il
solo torto di aver più cuore di
voi, e di piangere per voi i
dolori dei vostri piaceri. Non
predicate la moralità, voi che
ne avete soltanto per chiudere
gli occhi sullo spettacolo delle
miserie che create, voi che vi
meravigliate come altri possa
lasciare il cuore, l'onore, là
dove non lasciate che la borsa,
voi che fate scricchiolare
allegramente i vostri stivali
inverniciati dove folleggiano
ebbrezze amare, o gemono dolori
sconosciuti, che l'arte
raccoglie e vi getta in faccia.
Questo manifesto dello scrittore
fa eco alle discussioni che
sull'arte e la verecondia si
agitarono bellicosissime dopo il
'70, e che parvero mere
questioni di letteratura e
testimoniavano invece di una
lenta rivoluzione del costume e
affermavano un nuovo gusto di
vita. Poiché, in mezzo a tante
esagerazioni, il naturalismo,
continuando il movimento di
liberazione del romanticismo,
avviava gli spiriti verso una
concezione più intimamente
cristiana del mondo, di contro
alle viete forme farisaiche di
vita, che la pedagogia
post-tridentina per due secoli
aveva radicato nella società. La
polemica contro la verecondia
era polemica non contro il
pudore, ma contro l'ipocrisia
del pudore, e la giustificazione
delle passioni irregolari voleva
essere una paradossale reazione
a certo frigido e vizioso
mercantilismo. Il manifesto del
Verga, pur nella sua enfatica
eloquenza giovanile (lo si legge
nella prefazione ad Eva, è per
l'appunto una viva testimonianza
dell'interesse umano, e della
sensibilità morale, ch'era già
nel giovane scrittore; il quale
non era un dilettante di
immoralità (tale dilettantismo
sarebbe una forma anch'esso di
mediocre e provincialesco
moralismo, ma un irrequieto e
acuto sofferente per il
filisteismo e per le menzogne
sociali. Il realismo psicologico
dello scrittore si convertiva, e
non poteva non convertirsi, in
realismo artistico; il suo
verismo nasceva da un sentimento
commosso della realtà della sua
razionale inesorabilità; orbene,
questo stesso forte interesse
morale lo portava a rispettare
tutte le passioni, anche quelle
che l'ipocrisia sociale avrebbe
condannato come immorali.
Le rispettava perché a lui, uomo
alieno da canoni estrinseci di
giudizio, tutto appariva
purificato dal fuoco della
passione e della sofferenza;
sicché, anche per questo lato,
la sua indipendenza dalle
preoccupazioni di un'arte
moraleggiante gli veniva, più
che per incitamento e prediche
dei suoi colleghi in verismo, da
un intenso incitamento
spirituale. Ci tornano a mente
le parole che Enrico Lanti di
Eva diceva all'autore, qualche
giorno prima della sua morte:
Tu che mi parli di gioie false,
dimmi quali siano le vere;
quelle che costano più lacrime,
o quelle che lasciano più
rimorsi? e perché rimorsi? Qual'è
l'amor vero, quello che muore, o
quello che uccide? e qual'è la
donna più degna d'amore, la più
casta o la più seducente? dov'è
l'infamia? nella donna che ama
per vivere, o nell'uomo che vive
per godere - o che tiene il
sacco dell'adulterio colla
complicità del silenzio, o che
le si inchina quando la vede
passare in carrozza? chi
sentenzia del bene e del male?
Il mondo che cos'è? Quali sono i
suoi diritti? e non mentisce? e
non s'inganna? o non è ipocrita?
o non ha altra sicurezza che
quella di negare? e quell'altra
di biasimare?
Si tratta, è vero, sotto il
rispetto dell'arte, di una assai
mediocre tirata retorica, ma è
pure una di quelle confidenze
giovanili, che attestano di una
crisi effervescente della morale
tradizionale, passivamente
ricevuta finora dagli altri, e
che comincia a entrare in
travaglio in un temperamento
originale. Ubi veritas? pare che
si domandi il Verga. Possiamo
noi veramente biasimare?
possiamo noi condannare? Tutta
la storia è sacra, ci dice il
filosofo; tutta la vita è sacra,
ci dice il poeta. All'artista
non rimane che raccogliere il
grido delle passioni, ridirlo
agli uomini con un tono di
impassibilità, senza alterazioni
e ingrossamenti di voci, senza
condanne ed esaltazioni, ma
mettendosi in disparte, perché
la vita parli da sé nella muta
eloquenza dei fatti e nella
logica fatale dei suoi affetti.
Insieme con l'impersonalità
dello stile, anche la paesanità
della lingua, la vivacità
parlata della sintassi, la
nudità delle parole: quel
giornale di bordo di un
marinaio, sgrammaticato e
asintattico, senza una frase più
del necessario, è il simbolo di
un'altra nascosta rivoluzione
che il Verga e i suoi seguaci
compirono nel campo della
letteratura, e che poi finiva
con l'essere il campo stesso
della nostra vita civile di
italiani. Il Carducci restaurava
l'aristocrazia delle forme,
indebolite e avvilite dai
romantici, che avevano voluto
sconvolgere l'aulicità dei
costrutti pur restando aulici e
letterati (deteriori letterati)
nei loro gusti e nel loro
sentire; il Carducci ancora
rinnovava l'onore dell'alta
cultura e suscitava la
consapevolezza delle nostre
tradizioni, cementando la
recente unità politica con i
ricordi della romanità e della
nostra civiltà comunale. Ma la
più umile schiera dei veristi,
con a capo il Verga, scopriva
un'Italia diversa da quella
carducciana, una Italia
dialettale, tutta piena di fango
e di loto, ma che non
contrastava alla prima, e che
poteva dire anzi parole più
precise e più appropriate, e
dare concretezza a quell'altra
Italia troppo mitica e pelasgica;
scopriva una sintassi nuova,
assai poco paludata e poco
grammatichevole, ma che valeva a
correggere efficacemente tanta
astrattezza di costrutti
letterari, pur senza tradire e
venir meno alle leggi della
tradizione; scopriva infine una
lingua che chiamava pane il pane
e vino il vino, realizzando quel
sogno dei romantici che avevano
pur tentato di dare per ciò
stesso un tono più borghese alla
nostra lingua cortigiana. E
finiva con l'essere maestra di
sincerità e di semplicità
morale. La rivoluzione
romantica, inaugurata dal
Manzoni, veniva dunque a
concludersi nella schiera dei
provinciali, che parevano
dimentichi di tutti i nostri più
celebrati blasoni di nobiltà
letteraria, ma che a questa
nobiltà pur finivano col portare
tributo di nuove ricchezze e di
più fresche primizie. E il
Verga, che doveva sollevarsi su
tutta la schiera, riprendeva,
inavvertito e tacito, la grande
eredità del Manzoni, in un
momento in cui l'apollinea
classicità del Carducci e il
prezioso estetismo del
D'Annunzio pareva volessero
invilire il pregio del
patrimonio «cattolico-borghese»
del grande Lombardo.
Un'ultima nota ancora: tutto il
movimento naturalistico europeo,
e in particolare quello
francese, per la influenza delle
teorie di un Taine, era dominato
da una concezione deterministica
della realtà. L'individuo era
alla mercé delle forze cieche e
ignare; le milieu e la race
pesavano su di lui come una
fatalità naturale, e l'umanità
tutta era prigioniera di un
meccanismo originario. Alla
tragica concezione cristiana del
peccato originale, alla pur
tragica concezione dei
naturalisti del Rinascimento che
lottarono per la sistemazione e
il disciplinamento della nativa
malizia dell'uomo, visto
soltanto nella sua feccia di
natura, alla contraddittoria e
patetica concezione dei
romantici, divisi tra il cielo e
la terra, la virtù e il vizio,
si era venuta sostituendo una
troppo accomandante, piatta e
rassegnata visione del mondo
come rapporto di cause ed
effetti, che esonerava gli
uomini da ogni loro interna
responsabilità, e faceva di essi
dei manichini della natura e
della società. A codesta nuova
fede aderirono molti scrittori
in Europa, e parve vi aderissero
anche dei grandi artisti;
sennonché in atto essi
dissolvevano codesta volgare
mitologia, e nelle loro opere
restaurarono, consapevolmente o
inconsapevolmente, quel mondo
della libertà, che i filosofi e
i sociologi con mano troppo
pesante avevano soffocato. E
forse non è inesatto dire che la
prima evasione da codesta
oppressiva concezione
deterministica del reale si è
compiuta più per opera di
artisti e di poeti, che di
pensatori.
Per fare il caso solo del nostro
Verga, noi vediamo anche in lui
un'ombra di codeste teorie
deterministiche, ma il
determinismo verghiano si è
improvvisamente allargato; non è
più la gretta materialità
dell'ambiente e della razza che
opprime i protagonisti dei
racconti verghiani, ma una assai
più grandiosa e oscura divinità,
che può chiamarsi il destino, e
che pesa su tutto, sugli uomini
e anche sulle cose, e che è come
l'eterno limite di tutte le
aspirazioni umane. Ma codeste
aspirazioni umane non sono più
conculcate in un troppo pacifico
e soddisfatto «non possumus»,
ché sono anzi eccitate,
nobilitate, celebrate pur nella
loro impotenza, e accompagnate
da una melodia triste, da un
amoroso lamento, che, volgendosi
da una pagina all'altra, riesce
a formare come tutto un canto
epico, eroico e sconsolato, che
riabilita e sublima l'impari ma
tenace lotta dell'umanità, pur
di fronte al destino, a cotesto
oscuro nume regolatore dei suoi
moti, dei suoi sensi e delle sue
vicende.
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Luigi
Russo | |
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