LINGUA E
STORIA NEL VICO
Scrivendo
in lingua italiana il suo capolavoro, il Vico si inserisce
nel movimento del pensiero moderno che ricorre alle lingue
nazionali e non più al latino degli umanisti per comunicare
con un vasto pubblico di lettori e non più solamente con la
ristretta cerchia dei dotti; ma l'uso della lingua viva
riveste anche un altro e più profondo significato: la
scoperta della faticosa storia degli uomini mette in crisi
il mondo composto e sicuro dell'umanesimo e richiede un
nuovo e più ricco e mobile strumento per essere espressa. La
prosa del Vico diviene così spesso vera e commossa poesia; e
la stessa disarmonia che in essa è stata riscontrata più
volte sta a indicare la novità e complessità di questa
scoperta. Lo stile vichiano riflette lo. ricchezza e
l'umanità con cui egli guarda al mondo degli uomini,
comunica l'intimo senso che egli aveva della tensione
intrinseca alla storia del drammatico contrasto fra il
progresso e le tragedie che esso comporta.
Perché, ci si può chiedere, il Vico dopo avere steso la
prima redazione del suo sistema di pensiero nel latino del
Diritto universale, si diede a scrivere in italiano i
Principi di una scienza nuova? Penso che il motivo primo sia
da cercare nel proposito del Vico, dopo lo scacco
universitario che aveva reso vana la sua speranza di
ottenere la cattedra di diritto civile, di rivolgersi ad un
pubblico più ampio che non quello degli studiosi per i quali
aveva scritto il Diritto universale; cosí Galileo da lui
ammirato aveva, scrivendo in italiano, portato le ricerche e
le scoperte della nuova scienza dinanzi un pubblico non
prevenuto, come era quello dei dotti di professione. In tal
modo, anche per tal via, il Vico, umanista e anticartesiano,
veniva a partecipare al movimento del pensiero moderno che
aveva indotto filosofi come Cartesio. Hobbes, Locke ad
abbandonare il latino impersonale della scuola per
rivolgersi nelle loro lingue nazionali ad un vasto pubblico
di lettori, facendo appello a quel buon senso che è proprio
di tutti gli uomini ed è obliterato talvolta proprio in
quelli che si dicono dotti. Ma, quali fossero i suoi
moventi, essi non furono, per parlare col suo linguaggio se
non una occasione offertagli dalla Provvidenza che lo
condusse a ritrovare insieme coi veri della Scienza nuova,
l'espressione più verace e originale dell'animo suo: era la
crisi stessa dell'umanesimo vichiano che si manifestava, e
come avrebbe potuto non manifestarsi?, nel linguaggio e
nello stile dello scrittore. Dissolto il mondo composto e
concluso dell'umanesimo e disvelatasi all'occhio rapito del
pensatore tutta la faticosa storia degli uomini, come era
possibile costringere nel latino umanistico quella storia
così complessa? Come dar voce alla commozione sua nel
sentirsi chiamato dalla Provvidenza a intendere, lui primo,
lui solo, il dramma della storia umana? Nella disciplina del
latino umanistico ogni disuguaglianza, ogni moto troppo vivo
dell'anima, ogni immagine troppo ardita, si livellava in uno
stile elegante e concettoso ma inevitabilmente uniforme. Con
l'italiano la presa del Vico acquistava, per così dire, una
terza dimensione: i suoi ampi periodi latinamente costruiti
e intessuti di tante forme e locuzioni caratteristicamente
latine si animavano per l'afflusso di tanta materia di
tutt'altra origine, di modi letterari come di modi popolari,
di vocaboli anche rari della lingua italiana, come di
vocaboli del suo stesso dialetto. Ne nasceva un linguaggio
singolarmente mobile e vario, ben atto a significare il
complesso stato d'animo dello scrittore: vi si componevano
mirabilmente tutte quelle immagini dei miti e della poesia
delle prime età, fra cui il Vico viveva rifacendo in sé un
animo primitivo e gareggiando con la sua fantasia con quella
dei suoi poeti teologi e poeti eroi. Il Vico umanista, un
umanista, a dire il vero, già innamorato dell'arcaico, si
trasformava nel Vico romantico, che non poteva nella sua
stessa prosa non far sentire la sua predilezione per l'arte
rude e possente di Omero e di Dante, simile «a grande
rovinoso torrente che non può far di meno di non portare
seco torbide l'acque e rotolare e sassi é tronchi con la
violenza del coro». Così la prosa del pensatore diventava in
più di un punto poesia, e poesia «grande» «veemente»
«sublime», sprezzatrice della delicatezza e dell'eleganza,
come quella da lui ammirata: ma, mentre si disviluppava la
poesia latente nelle scoperte del pensatore, veniva meno
quell'equilibrio che l'umanista sapeva cosi bene serbare. Il
letterato è stato soverchiato dalla sua stessa materia e ne
è uscita un'opera disarmonica, nella quale le diverse
tendenze dello scrittore non sanno comporsi in un'unità, e
la fantasia prepotente finisce per nuocere al pensatore
raziocinante, e il raziocinio impedisce uno sviluppo pieno
di quello che sarebbe un motivo poetico. Di qui la fama di
cattivo scrittore che il Vico ha nella nostra storia
letteraria: e tale è realmente per la disarmonia intrinseca
all'opera sua, che le impedisce di raggiungere quel che
dovrebbe essere il suo fine, l'esposizione ordinata e
persuasiva di un sistema di pensiero. Non per questo l'opera
cessa di essere non solo un monumento insigne del pensiero,
ma anche della letteratura per quello spirito che vi si
afferma creando un linguaggio tutto suo proprio, per quella
poesia che nasce dalle scoperte stesse del pensatore e nella
quale pur si rivela un aspetto essenziale della sua
personalità.
La poesia, anzi lo stile in genere del Vico ci dice l'animo
del pensatore di fronte alle sue scoperte o meglio ci fa
intendere da quale animo quelle scoperte scaturiscano, come,
prima ancora del raziocinio, la sua umanità gli aprisse
l'intendimento della storia. Iniziatore del moderno
storicismo, il Vico non poteva conoscerne le deviazioni e
nemmeno proporsi problemi che quelle deviazioni fanno
sorgere: ma ben ci fa sentire, quali che siano i limiti
necessari della sua concezione storiografica, i valori
essenziali impliciti nello storicismo, ai quali sempre si
deve ritornare per tener salda la sua verità e l'alto ideale
etico che in esso si afferma. La stessa complessità dello
stile vichiano, che concilia negli ampi periodi il
raziocinio severo e la vivace passione, l'eroismo dei
primitivi e gli ideali etici dell'età umana, e accanto agli
eroi e alle loro vittime ci fa sentire presente sempre nella
sua pensosa umanità la persona dello scrittore, ben vale a
rendere la complessità della storia, il suo intimo dramma,
come non potrebbero fare gli innamorati del primitivo, i
quali, perduti nel loro impossibile sogno, invano tentano di
adeguare con le loro balenanti-intuizioni lo spirito degli
ammirati eroi. Si riflette in quello stile la tensione
stessa della storia: bene sentiamo leggendo il Vico perché
quelle età non potevano chiudersi in sé stesse, quasi paghe
di sé medesime, perché, per quanto grandi, gli Achilli
dovevano scomparire in un mondo in cui l'eroe vincitore non
insultasse come egli faceva il vinto, perché la plebe romana
non dovesse continuare ad essere la povera oppressa plebe
battuta e angariata. Quel contrasto di sentimenti che si
avverte nella sua rievocazione del passato, era dunque, per
così dire, un riflesso del contrasto intrinseco nella
storia, che il Vico in sé accoglie nella sua interezza,
sempre conscio del sangue e delle lacrime, che in essa si
versano, delle tragedie per cui essa procede (Tantae molis
erat humanam condere gentem!), non mai dimentico della meta
a cui quel processo tende, dei princípi che in ogni momento
sotto diversa forma si affermano e che «deon essere i
confini dell'umana ragione». «E chiunque se ne voglia trar
fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l'umanità».
Qui, è, se non m'inganno, la grandezza del Vico scrittore,
come del Vico pensatore; qui l'alto ammaestramento che
sempre ne possiamo trarre. |