LA VIRTU'
POETICA DEL CHIABRERA
Pur
dispersa nell'eccessiva varietà dei generi, la vena poetica
del Chiabrera si ritrova costante quando è impegnata a
rappresentare analiticamente gli aspetti della realtà
naturale, che tende ad accumulare, con insistenza e con
sovrabbondanza tipicamente barocche. Un accurato esercizio
tecnico presiede a questa rappresentazione: la varietà dei
metri, i frequenti diminutivi e vezzeggiativi, la rapidità
delle rime sdrucciole, e altri elementi ancora che
costituiscono la novità perseguita del poeta, rispondono
appunto all'intenzione di raffigurare un movimento agile e
giocoso di forme e di oggetti.
Chi abbia la pazienza di cercarne i segni fra la congerie
delle sue composizioni liriche - non solo tra queste, più
celebrate, di genere melico, ma anche, frammentariamente,
fra le canzoni eroiche e lugubri, tra i poemetti, ed i
sermoni - dovrà pertanto riconoscere nel Chiabrera una virtú
poetica che l'ambizione tutta secentesca di percorrere ogni
campo della poesia, impegnandosi anche in prove superiori
alle sue reali possibilità, non ha potuto interamente
soffocare.
Occorrerà però lasciar da parte, nella lettura critica, il
modulo romantico e psicologistico della «sincerità», in base
al quale la poesia del Chiabrera dovrebbe celebrarsi nei
contenuti civili, religiosi, moralistici o erotici ch'egli è
venuto via via più o meno opportunamente assumendo nel corso
delle sue prove. Da questo punto di vista non si salvano
neppure le migliori delle canzonette che il Poeta ha
definito «amorose» e nelle quali in verità non trovi, come i
critici più attenti hanno riconosciuto, né un palpito
d'amore, e neppure, a mio parere, un moto di schietta
sensualità.
La musa del Chiabrera non solo non è eroica o religiosa o
moraleggiante, ma neppure veramente sentimentale, patetica;
è invece edonisticamente rivolta al mondo «fisico», gode
della realtà fenomenica, delle cose in quanto sono
materialmente sensibili, visibili, e quindi poeticamente
rilevabili nella loro consistenza e rappresentabili nella
loro apparenza e nel loro moto. (Una musa abbastanza
secentesca, in fondo).
È significativo, a questo proposito, quanto egli scrive
nella Vita sugli unici due, tra i maggiori poeti italiani,
ai quali non risulta che abbia mai mosso alcun appunto di
poca «arditezza»: «a Dante Alighieri dava gran vanto per la
forza del rappresentare e particolareggiar le cose, le quali
egli scrisse; ed a Lodovico Ariosto similmente». Ma questa
disposizione a rappresentare e particolareggiare le cose -
intese, naturalmente, nei limiti che si son detti, come
consistenze e apparenze fenomeniche, siano oggetti, o
fenomeni di natura: refolo di vento, cresta d'onda marina o
nuvola temporalesca, o siano atteggiamenti umani traducibili
in mimica o in spettacolo - questa disposizione è anche sua,
e nei momenti in cui riesce a prevalere, fra tanta velleità
di «tuoni» e «maniere» fittizi, in quelli avverti
l'accensione del sentimento poetico.
Si giudichi in questa prospettiva la lingua del Chiabrera.
Che quando il Poeta non si costringa a scegliere le parole
in base a pure esigenze di rima o d'effetto sonoro, rende
esattamente il piacere, se anche spesso secentescamente
prezioso, dell'oggetto e del fenomeno.
Non per questo diremo che la poesia del Chiabrera vive là
dove tacciono o son meno presenti le ragioni della tecnica,
quasi che le più serie e plausibili tra tali ragioni non
traessero origine da quello stesso gusto oggettivo e
figurativo che è caratteristico del Poeta. A quel gusto
appunto deve rispondere, secondo la sua stessa intenzione,
l'endecasillabo sciolto («... ha più di libertà nel posarsi
a suo grado e nel trascorrere, e più comodamente può
esprimere le cose e particolareggiare»); ed in esso trovano
la loro ragion d'essere, per altro verso, anche le altre più
importanti caratteristiche della «riforma» chiabreresca: le
strofette e i versi brevi, le rime tronche e sdrucciole, i
ribattimenti di rime e le coloriture lessicali, in quanto
cioè si tratti di rappresentare con immediatezza mimica e
fonica, non più singoli oggetti o fenomeni o atteggiamenti,
bensí il loro disporsi in un movimento aggraziato o
giocosamente rapido, il loro «trascorrere» quasi in danza,
ove il composto ritmico e lessicale o corrisponde ad una
oggettività più rarefatta, preziosa e mossa:
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Corte,
senti il nocchiero
che a far cammin n'appella;
mira la navicella
che par chieda sentiero:
un aleggiar leggero
di remi, in mare usati
a far spume d'argento,
n'adduce in un momento
a' porti desiati. |
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o
riproduce, a modo di armonia imitativa, impressioni di
natura:
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Omai
per aria corrono turbini
e nubi gravide versano grandini,
né sostengono i campi
omai l'orribil impeto.
vibra lo scherzo e 'l gioco,
né mai diviso
mirasi il riso
dal vostro dolce foco. |
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Al posto
del sentimento d'amore o del piacere sensuale hai lo
spettacolo pirotecnico di una fantasmagoria d'amorini e di
vive faville.
La musa del Chiabrera melico non è malinconica («uomo
pensoso io stimo che sia acconcio a poetare; il melanconico
non stimo acconcio né a ciò, né ad altro»); non ama
indugiare, e ripiegarsi sulle sue note; è vivace e allegra;
tutta volta all'esterno, si vale soprattutto del suono delle
parole e dei ritmi per descrivere le cose che le dànno
piacere ed il suo stesso gioioso «trascorrere» per esse. |