EPISTOLE
Sono tredici lettere latine, le
poche superstiti delle molte che
Dante scrisse durante gli anni del
suo esilio, e che andarono disperse,
restandoci di alcune di esse se non
vaghe e sommarie notizie. Tali
appunto le lettere di cui fanno
cenno Giovanni Villani e Leonardo
Bruni, e che Dante indirizzò al
popolo di Firenze e a particolari
cittadini di governo, rammaricandosi
del suo esilio senza colpa e
ricordando le sue benemerenze verso
la patria, non ultima delle quali la
sua partecipazione alla battaglia di
Campaldino. Varie di contenuto e
assai disuguali di valore, e
tuttavia uniformi nel loro
linguaggio intellettualmente
sostenuto e teso secondo le rigide
norme del ritmo ("cursus") e le
formule tradizionali dello stile
prosastico epistolare, esse
costituiscono un documento
significativo della cultura di
Dante: una cultura che, nei diversi
aspetti sotto i quali essa si
presenta, non vela né deforma
l'immagine spirituale di lui,
gentiluomo e letterato, cittadino e
uomo di parte, pensatore e poeta,
consapevole sempre della sua dignità
e della sua grandezza morale.
Cronologicamente prima tra le
lettere superstiti è quella
indirizzata al cardinale Niccolò da
Prato, legato della Santa Sede in
Toscana (1304). Dante la scrisse in
nome del capitano Alessandro da
Romena dei conti Guidi e del
consiglio e università di Parte
Bianca. Con dignitosa fermezza di
propositi e d'intenti egli dà voce
alla riconoscenza dei Bianchi per
l'opera di pacificazione promossa
dal cardinale nella loro travagliata
città; e li dichiara pronti a
cooperare con lui, protestando essi
d'aver prese le armi se non per
ripristinare le leggi del vivere
civile e assicurare al popolo
fiorentino la libertà e la pace.
Dello stesso anno (1304), e prima
che Dante si staccasse dalla lega
dei fuorusciti Bianchi, è la lettera
di condoglianze ai conti Oberto e
Guido da Romena per la morte del
loro zio Alessandro esaltandone la
gloriosa memoria. Dante, "espulso
dalla sua patria ed esule senza
colpa", confessa che in lui aveva
riposto tutte le sue speranze; e si
scusa di non esser potuto
intervenire alle esequie, per
l'"improvvisa povertà cagionatagli
dall'esilio", senza avere
possibilità alcuna di uscire da tali
angustie. - A motivi poetici d'arte
e di vita, di passione e d'amore ci
riportano due lettere, l'una diretta
a Cino da Pistoia, e l'altra al
marchese Moroello Malaspina. Nella
prima, a richiesta di Cino, Dante
risolve la questione se l'anima,
qualora sorga un nuovo amore, possa
darsi tutta e con la stessa pienezza
alla nuova passione; e a conferma
della soluzione positiva da lui
dichiarata, egli invia all'amico il
sonetto "Io sono stato con Amore
insieme". Nella seconda lettera
Dante racconta come, partitosi dalla
corte dei Malaspina (1307) e giunto
nel Valdarno casentinese,
s'innamorasse follemente d'una
giovine donna, presentando a
testimonianza di un tale amore
"dispotico e tiranno" la bella
canzone che ne scrisse: "Amor, da
che convien pur ch'io mi doglia". -
Ma tra le epistole a noi pervenute
primeggiano, per commossa eloquenza
di stile biblico e vigoroso impeto
di ispirazione, le tre lettere
scritte in occasione della discesa
in Italia di Arrigo VII di
Lussemburgo. Qui la figura di Dante,
in mirabile armonia di pensiero e
d'azione, s'aderge netta e decisa
sullo sfondo degli avvenimenti
storici, dai quali egli sperava il
costituirsi di un ordine nuovo a
salvezza dell'Italia e della vita
cristiana cattolica. Poco prima che
l'atteso imperatore valicasse le
Alpi (settembre-ottobre 1310) Dante
sentì il bisogno di annunziare a
tutti ("re, senatori, duchi,
marchesi, conti e popoli d'Italia")
i prossimi giorni di consolazione e
di pace. Arrigo VII, "divo e augusto
e cesare", veniva a liberare
l'Italia dagli empii; misericordioso
e giusto con chi gli si affidava,
duro e implacabile contro i ribelli.
Dante esortava i Lombardi ad
accoglierlo con devozione,
riconoscendo in lui quell'autorità
che procede da Dio e contro la quale
è vano recalcitrare. Rincorava
coloro che avevano sofferto per
amore della giustizia e li
consigliava al perdono, per esser
degni di colui che li avrebbe
giudicati con affetto e fiducia.
Spronava tutti gli Italiani a farsi
incontro al loro re, serbati a lui
non solo in quanto monarca
universale, ma ancora, come liberi
cittadini, in quanto loro
governatore diretto ("Evigilate
igitur omnes et assurgite regi
vestro, incolae Latiales, non solum
sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad
regimen reservati"). E tutti, dalle
Alpi al mare, avrebbero dovuto
riconoscerlo come loro signore,
essendo la sua giurisdizione quella
stessa dell'impero di Roma,
predestinato da Dio al governo del
mondo e in ciò riconfermato dalla
parola di Cristo. - Al contatto
della realtà storica, il pensiero
politico che Dante aveva teorizzato
nel Convivio si concreta in lui
nell'immagine lirica di un'umanità
civilmente ordinata "ad unum" e
strettamente congiunta da un comune
amore e da una comune difesa della
libertà e della giustizia. E
quest'immagine lirica, di cui
l'impero di Roma, per volontà
divina, era stato la realizzazione
storica più vasta e complessa, si fa
in lui orientatrice di una fervida
attività, che lo spinge a minacciare
e a maledire chiunque si opponesse
al nuovo imperatore. Non è altro il
motivo poetico che anima la lettera
datata dai confini della Toscana,
presso le sorgenti dell'Arno, il 31
marzo 1311, e diretta dall'"esule
senza colpa" agli "scelleratissimi
fiorentini" che sono dentro la
città. L'impero di Roma, vi si dice,
fu voluto dalla Provvidenza divina
per assicurare nel mondo la pace e
con la pace lo svolgimento della
vita civile. Questa verità,
confermata dalla fede e dalla
ragione, è provata dal fatto che,
vacando l'impero, tutto il mondo
vacilla: la Chiesa è inoperosa e la
misera Italia, in balia di private
signorie, è agitata e sconvolta come
nave in tempesta. I Fiorentini
conculcano le leggi divine e umane,
opponendosi all'autorità
dell'imperatore romano, i cui
diritti non possono subire
prescrizione e le cui leggi sono
ordinate al bene di tutti. E perciò
temano essi la vendetta di Dio, se
non quella di Cesare, che certamente
porterà nella loro città il terrore
e la desolazione, la distruzione e
le stragi. Accecati dalla cupidigia,
essi si negano alle leggi imperiali
che sono fondate sulla giustizia
naturale e assicurano perciò, a chi
le osserva, la libertà perfetta. Si
ravvedano, prima di un pentimento
inutile e tardo, pensando che Arrigo
s'è mosso per il bene di tutti, non
per sua propria utilità, "sostenendo
le nostre infirmità e addossandosi
il peso dei nostri dolori".
Frattanto Arrigo VII indugia nella
valle del Po e trascura la Toscana;
e allora dalla Toscana, presso le
fonti dell'Amo, il 18 aprile 1311,
Dante gli scrive una lettera, per
esortarlo, a nome suo e di tutti gli
altri esuli, a passare l'Appennino.
L'ansia della pace, sognata
nell'amore di Dio e del prossimo, e
il ricordo delle speranze, concepito
al primo giungere di Arrigo VII in
Italia, costituiscono i motivi
poetici di questa lettera, dettata
dal timore di una delusione amara.
"Sei tu colui che deve venire o ne
aspettiamo un altro?" domanda Dante
ad Arrigo: e poiché gli esuli
credono e sperano in lui,
riconoscendolo per ministro di Dio e
figlio della Chiesa e assertore
della gloria di Roma, insieme con
loro egli lo invita a scendere in
Toscana, per colpire e abbattere
Firenze, la pecora appestata che
contamina il gregge. Così essi
potranno finalmente esser rimessi in
patria e, cittadini, riposare in
quella vera pace che è retaggio di
Cristo. - Di scarso interesse sono
le tre lettere di ossequio scritte
(1311) in nome della contessa
Gherardesca di Battifolle e dirette
a Margherita di Brabante, consorte
di Arrigo VII. Rientra invece nel
novero delle politiche la lettera
inviata, subito dopo la morte di
Clemente V (maggio o giugno 1314),
ai cardinali italiani, perché
s'accordassero a eleggere un
pontefice che riportasse a Roma la
sede papale. Come Geremia pianse su
le sorti di Gerusalemme, così Dante
piange sul misero stato di Roma,
"vedova e abbandonata, dopo le pompe
di tanti trionfi, dopo che Cristo
con la parola e con l'opera le
confermò l'impero del mondo, dopo
che Pietro e Paolo la consacrarono
sede apostolica col proprio sangue".
Causa di tale rovina è stata la
negligenza dei principi della Chiesa
e la loro venalità, generatrice di
empietà e d'ingiustizia; e contro di
loro Dante, "ultima pecorella di
Cristo", ma insieme con tutto il
popolo cristiano, si scaglia, per
amore di verità e santo zelo delle
cose di Dio. I cardinali italiani, e
singolarmente tra essi Napoleone
Orsini e Francesco Caetani, si
dolgano, ripensando a Roma, "comune
principio della nostra civiltà" e
ora priva dell'uno e dell'altro de'suoi
luminari; e si vergognino essi e
insieme si stringano contro
l'obbrobrio dei Guasconi e
combattano "per la Sposa di Cristo,
per la sede della Sposa, che è Roma,
e per l'Italia nostra, anzi per
l'intera università dei cristiani
peregrinanti sulla terra". Così la
funzione storica e provvidenziale di
Roma, imperiale e cristiana,
ravvalorava in Dante la sua fede di
credente e la sua passione
d'italiano. - La lettera all'"Amico
fiorentino", con la quale, dopo
circa quindici anni d'esilio, Dante
respinge (maggio 1315) la
possibilità di ritornare in patria
mediante l'offerta a San Giovanni, è
una testimonianza luminosa della sua
magnanima fierezza. Esule senza
colpa, egli si esalta nella sua
propria innocenza e sente di non
dover umiliare la sua dignità di
uomo "banditore della giustizia". Se
in Firenze non si entri per altra
via che non deroghi in nulla alla
fama e all'onore di lui, egli in
Firenze non entrerà giammai. "Non
potrò io forse contemplare le spere
del sole e delle stelle? Non potrò
io meditare le dolcissime verità
sotto qualunque cielo, senza che io
prima torni a Firenze inglorioso,
anzi ignominioso agli occhi dei miei
concittadini? E certo anche un pane
non mi mancherà". - Ultima in ordine
di tempo è la lettera a Can Grande
della Scala, con la quale Dante,
dedicandogli il Paradiso, gliene
accompagna alcuni canti. Per
considerare la terza cantica in se
stessa e in relazione alle altre
cantiche, egli dichiara la materia,
la forma e il titolo della Divina
Commedia (v), e quindi il suo fine
ultimo e il genere di filosofia
(etica) a cui essa s'ispira.
Commenta poi il prologo del Paradiso
e ne accenna il contenuto, spiegando
in che consista la beatitudine, che
è visione soprannaturale di Dio.
Dell'autenticità di questa lettera
si discusse a lungo e si discuterà
ancora, fino a quando non saranno
lasciati da parte i pregiudizi
tradizionali e le soggettive
esigenze di una critica puntuale,
che si compiace di se stessa nelle
sue logiche costruzioni. Certo è che
nell'epistola a Can Grande si
presentano fissate per la prima
volta, e dentro una salda
inquadratura di pensiero, le linee
maestre di un'interpretazione
globale della Divina Commedia, dove
si segua, attraverso all'esperienza
poetica di Dante, la natura umana
nelle sue condizioni di esistenza e
di vita e nel suo fine ultimo, che è
la conoscenza sperimentale di Dio
("in sentiendo veritatis principium").
Il sicuro dominio della materia,
nelle reciproche relazioni delle
singole parti col tutto, e la lucida
esposizione di concetti che nel
poema sacro si risolvono tutti, per
virtù d'arte, in rappresentazioni
gravide di contenuto spirituale
(Divina Commedia), sono in tutto
conformi alla dottrina personale di
Dante e al pensiero scolastico del
suo tempo. |