Nacque a Girgenti (oggi
Agrigento) nel 1867. Nel 1891 si
laureò nell’università di Bonn e
due anni dopo si trasferì a
Roma, dove insegnò lingua e
letteratura italiana
nell’Istituto superiore di
Magistero dal 1897 al 1922. Nel
1926 allestì una propria
compagnia teatrale per
rappresentare i suoi lavori in
Italia ed all’estero. Nel 1934
ottenne il Premio Nobel e due
anni dopo morì a Roma.
Egli esordì, come verista, con
novelle paesane, ma fin
dall’inizio il suo verismo fu
caricaturale e grottesco,
mirante piuttosto a distruggere
la realtà che a rappresentarla.
Costantemente estranea fu al suo
mondo poetico ogni problematica
morale ed attraverso le novelle
ed i suoi primi romanzi venne
definendo la sua concezione
della vita che si basa su di un
esagerato, esasperato
soggettivismo, secondo cui la
realtà non avrebbe una sua
oggettività, ma assumerebbe
tanti aspetti diversi quanti
sono gli uomini che la
osservano; anzi essa cambierebbe
anche a seconda dei vari momenti
in cui viene a trovarsi il
singolo uomo. La medesima cosa
capiterebbe all’uomo: io non
sono nella realtà quello che
sono, ma quello che appaio a
ciascuno degli uomini con i
quali vengo a contatto; e poiché
la mia personalità non ha senso
al di fuori del contatto con la
società, è evidente che io creda
di essere “uno”, essendo invece
“centomila” e praticamente
“nessuno”, dato che nelle mie
centomila apparizioni in
pubblico non posso rappresentare
mai il vero “me stesso”. Ne
consegue l’impossibilità
dell’uomo di comunicare con gli
altri, dal momento che a lui
sfugge, in ogni incontro, chi
egli sia per l’altro. O tutt’al
più, se egli presume di aver
intuito “chi” sia per l’altro,
potrebbe anche comunicare con
l’altro ma non in modo
“autentico”, sì invece
indossando una “maschera” per
compiacere all’altro.
Da ciò una desolante solitudine
che determina come effetto o un
cieco furore contro la società o
un brutale impulso al suicidio.
Questa drammatica visione
dell’uomo (cui fa riscontro, in
violento contrasto, la pacata,
incosciente ed innocente vita
della natura) non fu dal
Pirandello posseduta con
equilibrio intellettuale, ma
piuttosto fu vissuta con
profonda passione, sicché non si
compose in un’organica e serena
sistemazione filosofica, ma si
espresse unicamente nelle forme
fantastiche della sua arte,
impegnando il sentimento ora in
una polemica contro la società,
ora in uno stato di dolorante
pietà per gli uomini. Questi
furono, pertanto, i motivi
fondamentali della sua arte,
quali si riscontrano in tutte le
sue opere e quali si andarono
sempre più approfondendo dalle
opere giovanili a quelle della
piena maturità.
Ma la ribellione di Pirandello
era una ribellione anarchica,
nel senso che fu conscia della
crisi dell'individuo e della
società, ma non fu capace di
cogliere le cause di questa
crisi e di proporre dei rimedi.
Ecco perché, per vari aspetti,
il Pirandello è da inquadrare
nel nostro Decadentismo: per
quel suo sentimento di
solitudine, per quella sua
tendenza a scrutare nel
sub-conscio piuttosto che nella
coscienza dell’uomo, per quel
suo impegno a far tutt’uno della
vita e dell’arte e, infine, per
quella sua volontà di
svincolarsi dalle forme
espressive tradizionali per dar
luogo ad uno stile
originalissimo ed autarchico.
La poetica e l'arte
Il Pirandello spiega la propria
poetica in maniera organica nel
saggio “L’umorismo” (1906-1908),
in cui teorizza una forma
d’arte, da lui definita
“umorismo”, fondata sul
“sentimento del contrario”, che
egli esemplifica pressappoco
così: se incontriamo una donna
non più giovane, anzi
decisamente avanzata negli anni,
che indossa abiti giovanili, si
trucca come una signorinella,
assume atteggiamenti
forzatamente scanzonati come
quelli di una adolescente,
certamente costei, con la sua
complessiva goffaggine, ci
indurrà al riso e forse anche
allo scherno. Ma se riflettiamo
sui motivi che hanno indotto
quella donna a costruirsi una
siffatta “maschera” e, magari,
sospettiamo che ella sia stata
indotta a tanto perché
ossessionata dall’idea di non
piacere più al suo uomo, allora
quell’iniziale nostro
atteggiamento di scherno si muta
in un sentimento di pietà verso
il dramma intimo della donna.
L’umorismo del Pirandello si
basa tutto su codesto
“sentimento del contrario” che,
come nota il Guglielmino,
consiste in «una contemporanea
presenza di rappresentazione e
di riflessione, su una
disposizione dell’artista a
vedere sotto l’orpello delle
verità conclamate la sostanziale
precarietà, a scomporre i vari
momenti della nostra personalità
e coglierne le contraddizioni».
Ma l’arte maggiore del
Pirandello va ricercata
soprattutto nella sua opera di
drammaturgo. Egli segna nel
teatro una svolta decisiva.
Prima di lui il teatro s’era
proposto di portare in scena uno
spaccato della realtà
oggettivamente intesa e
rappresentata con l’arte del
verosimile. Ma per Pirandello,
che esclude l’oggettività della
realtà, ciò è impossibile. Egli
perciò, mentre da un lato
ribadisce, nei suoi drammi, che
la realtà oggettiva non esiste
in quanto ognuno la interpreta a
suo modo, determinando così la
propria incapacità di avere
relazioni costruttive con gli
altri [“Così è (se vi pare)”],
dall’altro tende ad affermare
«il tragico conflitto immanente
- sono parole sue - tra la vita
che di continuo si muove e
cambia e l'arte che la fissa,
immutabile». A quest’ultimo fine
dedica le tre commedie del
cosiddetto “teatro nel teatro”
(“Sei personaggi in cerca
d’autore”, “Ciascuno a suo modo”
e “Questa sera si recita a
soggetto”), nelle quali tratta
il tema del contrasto tra
personaggi e attori, tra registi
e attori divenuti personaggi,
tra autori, attori e spettatori.
Uno dei sei personaggi in cerca
d’autore, insoddisfatto di come
l’attore lo interpreta, così si
sfoga col regista: «Ma se è
tutto qui il male! Nelle parole!
Abbiamo tutti dentro un mondo di
cose! E come possiamo
intenderci, signore, se nelle
parole ch’io dico metto il senso
e il valore delle cose come sono
dentro di me; mentre chi le
ascolta, inevitabilmente le
assume col senso e col valore
che hanno per sé, del mondo
com’egli l’ha dentro? Crediamo
di intenderci; non c’intendiamo
mai!».
Certamente i drammi del
Pirandello appaiono a volte
appesantiti da lunghi e sottili
ragionamenti, paradossali e
apparentemente assurdi, ma nella
rappresentazione dell’
“incomunicabilità” che affligge
l’uomo ed è la sua tragica
condizione esistenziale, appare
evidente un profondo senso di
“pietà” verso l’uomo, una pietà
che si fa poesia. «Le opere
teatrali (circa quaranta) del
Pirandello - ammette giustamente
il Floccia - contengono molte
pagine belle di sincero
sentimento lirico, di profonda
umanità, di accorata tristezza e
pietà per il destino e la
fragilità dell’uomo; però
presentano non pochi difetti,
come l’umorismo spietato e
distruttore, l’eccessiva
impostazione intellettualistica
delle vicende, l’uniformità dei
motivi e dei problemi trattati,
lo squallore di intrecci
contorti e stentati, il
cerebralismo di personaggi che
non vivono le loro azioni, ma le
analizzano con dialettica
sottile, quasi sofistica, e tono
predicatorio. Tuttavia l’arte
pirandelliana, malgrado i
limiti, con il suo messaggio
umano ha fatto sentire il suo
influsso sui drammaturghi
moderni, italiani, europei e
americani».
Le opere
Luigi Pirandello scrisse
numerose novelle,
successivamente raccolte nei
volumi delle “Novelle per un
anno” (sono però meno di 365); i
romanzi: “Il fu Mattia Pascal”
(1904), “I vecchi e i giovani”
(1913), “Uno, nessuno e
centomila” (1926), ecc.; i
drammi: “Lumìe di Sicilia”
(1911), “Pensaci, Giacomino”
(1916), “Così è (se vi pare)”
(1918), “La patente” (1918),
“Sei personaggi in cerca
d’autore” (1921), “Enrico IV”
(1922), “Questa sera si recita a
soggetto” (1930), ecc. (in tutto
sono circa quaranta). Qui
tratteremo solo di alcune delle
sue opere.
1. Novelle per un anno.
Sono 246 novelle composte a
partire dal 1894 e fino alla
morte dell’Autore. Le prime sono
di ispirazione verista,
ambientate nel mondo paesano
della Sicilia (“La giara”,
“Ciaula scopre la luna”, ecc.),
ma già presentano la tendenza
del Pirandello verso il
grottesco ed il paradossale.
Questa tendenza si va
approfondendo e raffinando
nell’umorismo e nel sarcasmo con
cui l’Autore disegna l’universo
assurdo in cui è costretto ad
affogare l’individuo
disperatamente alla ricerca di
una propria identità che non può
trovare (“La signora Frola e il
signor Ponza, suo genero”, “La
carriola”, ecc.). Le ultime
novelle mostrano un certo
surrealismo, che culmina in
“Soffio”, il cui protagonista
scopre di potere spegnere la
vita delle persone con un
semplice soffio e resta sgomento
e atterrito di fronte agli
effetti che produce intorno a
sé, finché egli stesso non si
dissolve in un alito.
2. Il fu Mattia Pascal.
Per far fronte alla sua precaria
situazione economica, il
Pirandello accettò di scrivere
un romanzo per la “Nuova
Antologia”, che glielo pubblicò
a puntate, man mano che lo
componeva (quasi sempre di
notte, mentre vegliava la moglie
gravemente ammalata, e senza
alcun piano prestabilito) tra
l’aprile ed il giugno del 1904.
Il romanzo vide poi la luce
integralmente nel 1910.
Mattia, di famiglia benestante,
rimasto orfano dei genitori, si
trova ben presto in rovina per i
furti dell’amministratore dei
suoi beni. E' così costretto ad
accettare un posto di
bibliotecario comunale, che gli
viene offerto per misericordia,
e si rassegna ad una vita grigia
e mortificante, resa più penosa
dalle continue angherie della
suocera. Alla morte dell’unica
figliuola, Mattia, esasperato,
decide la fuga e si reca a
Montecarlo, dove vince una
ingente somma di danaro al
Casinò. Divenuto ricco legge per
caso su un giornale che al suo
paese lo ritengono morto,
essendo stato trovato un
cadavere in avanzato stato di
putrefazione identificato dalla
moglie come il suo. Mattia
decide allora di rifarsi una
vita nell’anonimato. Assume il
nome fittizio di Adriano Meis e
si dà a lunghi viaggi,
accorgendosi però che senza una
identità civile riconosciutagli
ufficialmente, gli è
praticamente impossibile vivere
in quanto non può risposarsi (ha
incontrato una leggiadra e
giovane donna disposta a legarsi
a lui) e non può neanche
denunziare un furto subito.
Finge allora il suicidio di
Adriano Meis e torna nei panni
di Mattia Pascal, riprendendo la
via del suo paese natale. Qui
scopre che la moglie si è nel
frattempo risposata. A lui non
resta che ridursi a vivere con
una vecchia zia, contemplando la
vita degli altri e scrivendo le
proprie memorie. Di tanto in
tanto va a depositare dei fiori
al cimitero sulla tomba che
conserva i resti del defunto
sconosciuto, ma che ha inciso
sulla lapide il nome di Mattia
Pascal. A chi gli chiede chi
sia, risponde “io sono il fu
Mattia Pascal”.
Con questa opera il Pirandello
segnò il passaggio dal romanzo
naturalistico a quello di
introspezione, e perciò destò
molte polemiche che giovarono al
suo successo e non solo in
Italia: fu, infatti, subito
tradotta in francese ed in
tedesco.
3. Uno, nessuno, centomila.
E’ l’ultimo romanzo del
Pirandello. Fu pubblicato nel
1926, prima a puntate sulla
“Fiera Letteraria” e poi in
volume. Rappresenta il momento
estremo e definitivo della
concezione pirandelliana sulla
frantumazione della personalità,
ma appare piuttosto pesante alla
lettura, «costruito com’è non
tanto su una ben articolata
vicenda, vista la scarsità dei
fatti raccontati, bensì
sull'ambiguo discorso del
protagonista, a metà strada fra
riflessioni filosofiche ed
elucubrazioni deliranti» (F.
Spera).
Il delirio esistenziale di
Vitangelo Moscarda inizia una
mattina, quando la moglie gli fa
osservare allo specchio che egli
ha il naso che pende verso
destra. Di ciò l’uomo non si era
mai accorto, benché allo
specchio si guardasse tutti i
giorni. Da qui ha inizio una
serie di riflessioni che portano
il Moscarda alla constatazione
che ogni uomo ha di sé
un’immagine che non corrisponde
alle innumerevoli altre che gli
altri si costruiscono di lui. Il
Moscarda mette dunque a dura
prova la consistenza della
propria individualità in
rapporto alle circostanze ed
alle persone in cui
quotidianamente si imbatte e
avvia un processo inarrestabile
di autoemarginazione dal mondo,
cioè dalle apparenze e dalle
false consuetudini in cui si è
costretti a vivere. Si ingegna
nel prendere iniziative che
appaiono del tutto inspiegabili
con la logica del senso comune,
con cui gli uomini si illudono
di dare un significato oggettivo
alla realtà della vita. Ad
esempio manda lo sfratto a due
suoi inquilini, poveri e vecchi,
suscitando un profondo senso di
sdegno fra la gente per un atto
così disumano, mentre ha già
fatto redigere dal notaio un
atto di donazione con cui
trasferisce la proprietà della
stessa casa ai due vecchietti,
suscitando questa volta
perplessità e rancori da parte
dei soci e dei familiari che
vedono in pericolo il loro
benessere. Quando poi decide di
chiudere la banca ereditata dal
padre perché assimila la
professione di banchiere a
quella di usuraio, allora contro
di lui si coalizzano tutti gli
interessati per citarlo in
tribunale e farlo interdire.
Conosciuto il piano dei soci e
dei parenti, il Moscarda si
rivolge al vescovo per consiglio
e si lascia convincere a
devolvere tutti i suoi beni in
opere di carità. Abbandonato da
tutti, si ritira in un ospizio
costruito col suo stesso denaro
e qui porta a compimento la
propria autodistruzione: senza
più legami col passato e senza
progetti per il futuro, si
lascia consumare dal tempo,
rifiutandosi persino di pensare.
4. Così è (se vi pare).
E’ una commedia tratta dalla
novella “La signora Frola e il
signor Ponza, suo genero”. Fu
rappresentata per la prima volta
nel 1917.
Svolge il dramma di tre
personaggi che per il loro
strano modo di vivere destano la
curiosità della gente della
cittadina in cui si sono
trasferiti dopo che un terremoto
ha distrutto il loro paese di
origine. Il signor Ponza,
rispettabile funzionario di
Prefettura, pur venerando la
propria suocera e provvedendo
largamente alle sue necessità,
le impedisce tuttavia di avere
alcun contatto con la figlia,
sua moglie. Il Prefetto, che si
è assunto l’impegno di
soddisfare la morbosa curiosità
di amici e parenti circa la
strana vicenda, usando con
discrezione la propria autorità,
interroga separatamente il
signor Ponza e la signora Frola
ed ottiene due contrastanti
versioni che non svelano il
mistero. Infatti il signor Ponza
afferma di aver perduto nel
terremoto la sua prima moglie,
figlia della signora Frola, la
quale, impazzita per il dolore,
crede invece che la sua seconda
moglie sia sua figlia. Egli per
pietà le lascia coltivare questa
illusione e non consente alla
ex-suocera di incontrarsi con la
presunta figlia per non svelare
la triste realtà. Dal canto suo,
la signora Frola afferma invece
che il genero, impazzito, crede
morta la prima moglie, che
invece è stata solo ricoverata
per alcun tempo in una clinica.
Da ciò la sua volontà di
risposarsi e la necessità, per
assecondarlo, di fingere nuove
nozze con la donna che in
effetti è la sua prima moglie.
Per il suo bene la signora Frola
ha accettato di vivere in quel
modo. Non resta che interpellare
direttamente la signora Ponza,
che appare sulla scena col volto
velato e fa la sua enigmatica
dichiarazione: «Qui c’è una
sventura, come vedono, che deve
restar nascosta, perché solo
così può valere il rimedio che
la pietà le ha prestato... La
verità? è solo questa: che io
sono, sì, la figlia della
signora Frola... e la seconda
moglie del signor Ponza... e per
me nessuna, nessuna!». Ed alle
rimostranze del prefetto che
dice: «Ah, no, per sé, lei,
signora: sarà l’una o l’altra»,
ella risponde con fermezza:
«Nossignori. Per me, io sono
colei che mi si crede».
5. Sei personaggi in cerca
d'autore.
Concepito come romanzo fin dal
1911, divenne poi un dramma e fu
rappresentato per la prima volta
nel 1921 a Roma. Alla prima il
pubblico uscì dal teatro
inorridito al grido “manicomio,
manicomio”. Solo tre mesi dopo,
al Teatro Manzoni di Milano, fu
tale il successo, che il dramma
fu subito tradotto in più lingue
ed entrò d’obbligo nei repertori
delle maggiori compagnie
teatrali.
Sei personaggi, creati da un
autore che li ha poi abbandonati
non riuscendo a realizzare per
la scena il loro dramma, si
presentano su di un palcoscenico
ove una compagnia di attori sta
provando un’opera e chiedono al
capocomico di mettere lui in
scena la loro vicenda. Il
capocomico, dopo varie
resistenze, accetta e chiede
agli attori di impersonare i sei
personaggi: il Padre, la Madre,
il Figlio, la Figliastra, il
Giovinetto e la Bambina. Ma
ognuno dei personaggi non si
riconosce nella interpretazione
prestata dal relativo attore, e
da qui nasce una serie di
contrasti fra personaggi e
attori, aggravati dalle
rimostranze del Padre, della
Madre e della Figliastra che
pretendono, ciascuno, che la
propria specifica situazione sia
al centro del dramma.
La loro vicenda può essere così
sintetizzata.
La Madre, dopo aver dato un
figlio al Padre, li abbandona
entrambi per legarsi ad un altro
uomo, col quale ha tre figli.
Alla morte di costui la nuova
famiglia vive in ristrettezze e
la figlia è costretta a darsi
alla prostituzione. La Madre
scopre che fra i clienti della
figlia c’è il suo primo marito e
questi, per farsi perdonare il
vizio, riprende in casa la
moglie con i suoi nuovi figli. I
rapporti fra i vari componenti
della famiglia sono di natura
conflittuale e funestati da
varie sciagure: la Bambina muore
annegata in una vasca, il
Giovinetto si suicida con un
colpo di pistola, mentre il
Padre e la Madre non sanno
liberarsi delle loro colpe, il
Figlio disprezza la Figliastra
che rappresenta la vergogna del
Padre.
Il dramma si conclude con la
interpretazione che danno attori
e personaggi della morte del
giovinetto:
LA PRIMA
ATTRICE
|
E’ morto!
Povero ragazzo! E’
morto! Oh che cosa |
IL PRIMO
ATTORE
|
Ma che
morto! Finzione!
finzione! Non ci creda! |
ALTRI
ATTORI DA DESTRA
|
Finzione?
Realtà! realtà! E’
morto! |
ALTRI
ATTORI DA SINISTRA
|
No!
Finzione! Finzione! |
IL PADRE
|
Ma che
finzione! Realtà,
realtà, signori! realtà! |
IL
CAPOCOMICO
|
Finzione!
realtà! Andate al
diavolo tutti quanti!
Luce!
Luce! Luce! |
6. Enrico IV.
E' un dramma del 1922.
Durante una cavalcata
carnevalesca, un giovane
aristocratico travestito da
Enrico IV (l’imperatore
medievale che fu in conflitto
col papa Gregorio VII per le
investiture e fu costretto a
stare tre giorni e tre notti
alle porte del castello della
Marchesa di Canossa per farsi
togliere la scomunica dal papa,
ospite della marchesa) cade da
cavallo e riporta un trauma
cranico che lo fa diventare
pazzo. Egli ritiene di essere
davvero Enrico IV e parenti ed
amici, in attesa della sua
guarigione, lo assecondano
organizzando nel palazzo una
vera e propria corte imperiale.
A guarigione avvenuta, il
giovane continua la finzione per
prendersi gioco degli altri e
concedersi delle libertà che non
gli sarebbero concesse fuori
della finzione. Gli capita però
di innamorarsi della figlia
della donna di cui era
innamorato prima di diventare
pazzo e vorrebbe farla sua,
essendone però impedito
dall’amante della madre. Egli
allora uccide il rivale ed è
così costretto a perpetuare la
finzione della pazzia che lo
scagiona dal delitto.
La fortuna
La sua fortuna, dapprima
contrastata al punto da apparire
egli, il Pirandello, al pur
sensibilissimo Renato Serra un
novelliere di terza pagina,
conobbe poi una risonanza
mondiale, quando si rivolse
quasi esclusivamente al teatro.
Col passare degli anni la fama
gli si è sempre più venuta
consolidando ed oggi è unanime
il riconoscimento che alla sua
opera competa un posto di primo
piano nella letteratura mondiale
del Novecento.