IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL DECADENTISMO

ITALO SVEVO


Nacque a Trieste nel 1861 da famiglia discretamente agiata ma che pochi anni dopo cadde in dissesti finanziari. Aveva iniziato gli studi in Baviera, ma dopo le medie fu avviato a Trieste agli studi di indirizzo tecnico-commerciale e a 19 anni fu costretto ad impiegarsi in banca, ove rimase per ben venti anni a svolgere un lavoro che egli reputava alienante, attratto com’era da una grande passione per gli studi umanistici e da un forte desiderio di affermarsi come scrittore. La Trieste del suo tempo, ricca di traffici internazionali e gaudente, era piuttosto sonnacchiosa dal punto di vista culturale e si limitava ad una produzione letteraria e storiografica estremamente paesana, in qualche modo nobilitata dallo spirito irredentistico. Logico, quindi, che lo Svevo (il cui vero nome era Ettore Schmitz) rivolgesse altrove le sue attenzioni intellettuali, mostrando un vivo interesse per il pensiero filosofico germanico (fu un eccellente studioso e grande ammiratore dello Schopenhauer) e per la letteratura realistica europea (specialmente francese: Balzac, Flaubert, Maupassant).

La letteratura italiana contemporanea non lo attrasse molto, ma studiò con passione gli autori classici di stampo realistico (Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini).

Nel 1892 pubblicò il suo primo romanzo, “Una vita” che ebbe scarso successo e non destò alcun interesse da parte della critica. Sorte eguale ebbe, sei anni dopo, il secondo romanzo, “Senilità”. Nel 1899 lasciò la banca ed entrò in società col suocero nella conduzione di una industria per la produzione di vernici sottomarine. Il lavoro lo impegnò molto ma egli non trascurò le sue letture ed una qualche attività di scrittore. Nel 1905 conobbe James Joyce, lo scrittore di Dublino che diverrà famoso per i romanzi “I Dublinesi” (1914), “Dedalus” (1916) e soprattutto per “Ulisse” (1922), il più “psicanalitico” dei romanzi europei del Novecento. Joyce rimase a Trieste come insegnante di inglese dal 1904 al 1915 e durante questi anni il rapporto con lo Svevo divenne di autentica amicizia. Fu Joyce, in effetti, a spalancare le porte del successo allo Svevo, facendo conoscere il terzo romanzo del triestino, “La coscienza di Zeno” (1923), ai famosi critici francesi Cremieux e Larbaud, che operarono la cosiddetta “scoperta” dello Svevo, decretandogli un successo straordinario in campo europeo, dopo averlo segnalato come la personalità più significativa della letteratura e della coscienza contemporanee. In Italia solo il Montale, alcuni mesi prima, aveva stilato un giudizio altamente positivo sulla rivista “L’esame”.

Lo Svevo aveva finalmente coronato il suo sogno di veder riconosciuti i suoi meriti di scrittore, ma non poté godere a lungo del successo, perché solo due anni dopo, nel 1928, morì per un banale incidente d’auto.

La poetica e l'arte


Per definire la poetica e la natura dell’arte sveviana giova richiamarci a quanto scrisse il Montale a proposito dei tre romanzi: in essi c'è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Possiamo dire, in definitiva, che i due romanzi sono una specie di autobiografia che si completa poi col terzo romanzo, ove, anzi, assumerà la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio.

I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell'uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; nel terzo romanzo, “La coscienza di Zeno”, la prospettiva si ribalta e il problema esistenziale viene risolto con la “scoperta dell’azione”: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza, è possibile liberarci dal peso dell'angoscia. «L’unica età dell’oro - scrisse il Pampaloni e ben si addice allo Svevo - possibile sulla terra è quella dell'uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita... Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza». Ed è questa la conclusione cui pervenne lo Svevo, passando dal pessimismo tragico di “Una vita” all’ironia verso un mondo effimero de “La coscienza di Zeno”.

Le opere


“Una vita” è il primo romanzo scritto dall’autore triestino nel 1892. Il protagonista è Alfonso Nitti che dalla provincia si trasferisce a Trieste per lavorare come impiegato di banca. Prende alloggio presso la famiglia Lanucci e così è costretto a dividere la giornata tra un ambiente di lavoro scrupolosamente gretto e il pensionato non certo più allegro. Alfonso Nitti cade ben presto in crisi, combattuto tra un desiderio di affermazione (egli infatti vorrebbe fare lo scrittore) e la realtà che lo opprime e cui non sa reagire.

L’occasione di mettersi alla prova viene ad Alfonso dalla amicizia che si è instaurata tra lui e il suo datore di lavoro, il banchiere Maller, che lo ammette a frequentare la sua casa nella quale si innamora della figlia del banchiere, Annetta. La relazione cessa con un amplesso che costringe Alfonso a lasciare il lavoro e a tornare al paese natio, per evitare lo scandalo. Qui la vita gli è ancora più difficile per l’avversione dei paesani, che non gli perdonano la sua precedente evasione, e le disgrazie familiari, fra cui la morte dei genitori e una grave malattia che lo assale. Riuscito a guarire, vende la casa paterna e torna a Trieste nella speranza di riprendere il posto in banca e la relazione con Annetta. Questa, però, è prossima alle nozze con l’avvocato Macario e rifiuta di vederlo. Successivamente la ragazza gli concede un ultimo incontro, ma in sua vece manda il fratello che offende duramente Alfonso e lo sfida a duello. Il giorno prima della data stabilita per il duello Alfonso si uccide facendosi asfis­siare dalla esalazione della stufa a carbone.

Il romanzo “Senilità” fu pubblicato a puntate nel 1898 sul quotidiano triestino “L’indipendente”. L’ambiente tratteggiato, piccolo- borghese, è identico a quello del romanzo precedente, ma qui lo scrittore si concentra di più sull’analisi psicologica del protagonista Emilio Brentani. Anche questi è oppresso, a Trieste, da un’esistenza grigia divisa fra ufficio e casa, ove vive con una sorella nubile, Amalia, sempre inferma e ossessiva nella protezione che elargisce, non richiesta, al fratello. Anche Emilio ha velleità letterarie, alle quali però ben presto rinunzia non tanto per rassegnazione nei confronti della vita, quanto perché incomincia a sognare qualche felicità che prima o poi dovrebbe arridergli. In età ormai matura incontra e incomincia a frequentare con assiduità una giovane di facili costumi che lo affascina con la sorprendente vitalità. Questa amica, Angiolina Zarri, introdotta nello studio dello scultore Stefano Balli dallo stesso Brentani, non tarda ad intrecciare una relazione intima con l’artista. Emilio si accorge della tresca ma finge di ignorarla per non perdere Angiolina. Questo strano rapporto mina a poco a poco l’equilibrio psicologico di Emilio e la situazione si aggrava perché la sorella, non potendo più condividere la solitudine del fratello, incomincia a drogarsi finché muore. Il Brentani, a causa della morte della sorella, interrompe il rapporto con Angiolina e si abbandona totalmente nell’inerzia. Anch’egli, quindi, dopo aver tentato di accettare la vita con una sorta di evasione dalla realtà, finisce con l’arrendersi giungendo ad una sorta di suicidio psicologico ben più grave di quello fisico attuato da Alfonso Nitti. Anche lui è, insomma, un inetto (cioè incapace di affrontare la vita realisticamente) ed uno sconfitto.

Il romanzo maggiore, “La coscienza di Zeno”, fu scritto tra il 1919 e il 1922 e pubblicato nel 1923. Protagonista del romanzo è Zeno Cosini, un modesto industriale che ha però lasciato sempre ad altri il compito di mandare avanti l’azienda, non meno inetto dei protagonisti dei due precedenti romanzi dello Svevo.

In età già avanzata, non riuscendo a venir fuori da una profonda angoscia esistenziale, decide di sperimentare le terapie di una nuova branca della medicina, la psicanalisi, e si affida alle cure di uno psichiatra. Questi gli suggerisce, in via preliminare, di raccogliere in una sorta di memoriale fatti sensazioni comportamenti della propria esistenza che a suo giudizio siano significativi in rapporto al suo stato complessivo di disagio. Zeno accetta l’invito del medico e raccoglie le proprie memorie, anche e soprattutto le più minute, raggruppandole in ordine ad alcuni argomenti che ritiene fondamentali: il fumo (ha sempre tentato di smettere senza mai riuscirvi), la morte del padre (con il quale ha avuto un rapporto di amore-odio), la storia del suo matrimonio (invaghitosi di una bella ragazza, che però lo respinge, finisce con lo sposare la più brutta delle sue sorelle, dalla quale insperabilmente riesce a trovare comprensione e dedizione), la torbida vicenda vissuta con un’amante giovanissima, la storia di un’associazione commerciale con il cognato Guido (il marito della donna che Zeno avrebbe voluto sposare, un giovane apparentemente brillante ma sostanzialmente incapace e irresponsabile, che egli aiuta per amore della cognata). L’ultimo capitolo del memoriale è dedicato proprio alla “psicoanalisi” ed in esso Zeno spiega le ragioni per cui, terminata la ricerca storica ordinatagli dallo psichiatra, ha poi rifiutato di sottoporsi alla vera e propria terapia (ragion per cui il medico, indispettito, decide di pubblicare il racconto del suo paziente, un po' per fargli dispetto e un po' per ricavarne un compenso economico al lungo lavoro di interpretazione dello scritto cui Zeno lo ha costretto.) Le ragioni per cui Zeno rifiuta la terapia sono principalmente due: l’aver capito che “la vita non può essere considerata una malattia perché duole” e l’avere sperimentato che, tuffandosi nel lavoro e negli affari, è possibile, se non guarire, almeno eludere le proprie angosce. La coscienza della “naturalità” del proprio malessere induce Zeno a liberarsi finalmente dell’ossessivo pensiero di sé ed a rivolgere l'attenzione sul destino dell’intera umanità. Ed ecco testualmente la conclusione del romanzo che, dopo l’esperienza storica del secondo conflitto mondiale, è apparsa come la profezia di una tragedia universale non tanto lontana dal proprio epilogo:

«La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!

Ma non è questo, non è questo soltanto.

Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c'era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi esistenti saranno considerati come innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.».

 

© 2009 - Luigi De Bellis