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IL DECADENTISMO
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GIOVANNI PASCOLI
I) Nasce a San Mauro di Romagna
nel 1855. Il padre,
amministratore di una vasta
tenuta agricola dei principi
Torlonia, fu assassinato per
essersi opposto al brigantaggio
che allora era molto diffuso in
Regione. Il Pascoli allora aveva
12 anni e si trovava a studiare
nel collegio dei padri Scolopi a
Urbino. Poco dopo gli moriranno
anche la madre, una sorella e
due fratelli. Questi lutti,
soprattutto quello del padre,
segnarono profondamente la
sensibilità del giovane Pascoli.
II) Nonostante ciò egli poté
proseguire gli studi al liceo di
Rimini e poi dal '73, con una
borsa di studio vinta dopo un
esame sostenuto alla presenza
del Carducci, poté iscriversi
alla facoltà di Lettere
dell'Università di Bologna. Qui
si avvicinò agli ambienti del
socialismo emergente,
caratterizzato dall'anarchismo
di Andrea Costa, e si iscrisse
all'Internazionale socialista.
Privato della borsa di studio
per aver partecipato a una
manifestazione contro il
ministro dell'Istruzione allora
in carica, vive in grande
miseria e per ben 5 anni
(1875-80) è costretto a
interrompere gli studi. Nel '79
viene coinvolto nelle agitazioni
che seguirono alla condanna a
morte dell'anarchico che attentò
alla vita del re Umberto I a
Napoli: arrestato, per più di
tre mesi resterà in carcere.
III) Il carcere fu un'esperienza
che lo segnò, interiormente, in
maniera decisiva. Decide di
abbandonare l'attività politica
e di laurearsi; con l'aiuto del
Carducci ottiene la cattedra di
latino e greco al liceo di
Matera. Successivamente si
trasferisce a Massa, ove si
riunisce a due sorelle, di cui
una resterà con lui tutta la
vita; poi passa a Livorno, dove
rimarrà 7 anni. Nel corso di
questi anni, per aumentare il
magro stipendio si dedica a vari
incarichi intellettuali e a
lezioni private.
IV) Nel '91 (era ancora a
Livorno) pubblica il suo primo
volumetto di poesie, Myricae,
che resta la sua opera più
famosa (l'altra è Canti di
Castelvecchio del 1903), mentre
l'anno seguente vince il primo
premio al concorso
internazionale di poesia latina
ad Amsterdam (lo vincerà per
altre 12 volte!). La sua fama di
latinista gli permette nel '95
di abbandonare l'insegnamento
liceale per quello
universitario. Diventa docente
di latino e greco a Bologna, poi
di latino a Messina fino al
1903. Nel 1906 ottiene la
cattedra di letteratura italiana
dell'ateneo bolognese, lasciata
vacante dal Carducci. Muore nel
1912, per un cancro all'addome,
a Bologna; viene sepolto a
Castelvecchio di Barga (prov. di
Lucca), paese in cui nel '95 si
era comprato una casa.
IDEOLOGIA E POETICA
I) Pascoli si è formato fuori
del Risorgimento, è cresciuto
cioè in un periodo in cui alle
contraddizioni della società
borghese si stava cercando una
soluzione nel socialismo
emergente, che in Italia si
presentava nella variante
anarchica, mentre la grande
borghesia, alleata con gli
agrari del Sud, la cercava in un
governo forte e reazionario.
II) Quando il Pascoli rinuncia
alle idee del socialismo
anarchico (politicamente
impegnato), approda
progressivamente alla
convinzione che il mondo e la
nuova società borghese sono
dominati da forze negative
troppo superiori per essere
vinte. Al massimo -pensa il
Pascoli- è possibile attenuare
l'impatto di queste forze sugli
uomini, mediante una sorta di
socialismo umanistico e
filantropico (nel senso che
tutte le classi sociali devono
trovare ai loro conflitti una
relativa conciliazione, nella
consapevolezza di sentirsi
reciprocamente indispensabili),
e mediante una sorta di
patriottismo-nazionalistico, per
il quale le classi oppresse
hanno il diritto a un'espansione
coloniale verso l'Africa e di
conquistare le terre irredente
del nord-Italia, al fine di
dimostrare le loro grandi
capacità lavorative e
civilizzatrici: in tal modo il
Pascoli sperava di attenuare le
forti tensioni sociali che erano
scoppiate in tutta la nazione.
Il suo discorso La grande
proletaria, pronunciato nel
1911, al tempo dell'impresa
libica, destò grandi entusiasmi
nella stampa e nei teatri.
III) Il Pascoli eredita
chiaramente la fine delle
illusioni del secondo Ottocento
nelle capacità della
scienza-tecnica-industrializzazione
di superare il dolore, la
sofferenza, le contraddizioni
degli uomini. Tutte queste cose
non hanno tolto ma hanno anche
creato nuovi dolori (la scienza
-per il Pascoli- è solo servita
a togliere le illusioni della
religione). Il male, per lui,
non è generato dalla natura (che
anzi è "madre dolcissima") ma
dall'uomo sociale (ritenuto
assai diverso dall'uomo
primitivo, "buono per natura").
IV) Unico rimedio al male
consiste nel fuggire tutto ciò
che è prodotto di civiltà,
rifugiandosi nel puro
sentimento, nella solitudine, in
un contatto più stretto con la
natura, vista esteticamente ma
anche come fonte di
consolazione, come luogo
simbolico in cui poter rievocare
un passato, un'innocenza perduta
definitivamente.
V) La natura è anche un luogo in
cui si può meditare sul problema
del dolore, della morte, della
sofferenza degli uomini in
maniera distaccata, cioè senza
cercare nel conflitto delle
classi una soluzione alle
contraddizioni sociali. La
meditazione sul dolore e sul
mistero di una vita che ci fa
nascere felici e ci fa diventare
infelici, deve portare l'uomo ad
avere pietà del suo simile. Il
dolore infatti ha qualcosa di
sacro e di necessario e per
renderlo più sopportabile
occorre la fraternità
universale. Quella del Pascoli
viene chiamata "poetica
decadentistica della
consolazione".
VI) Egli però definì la propria
poetica con l'espressione
"poetica del fanciullino". Il
poeta cioè è un fanciullo che
sogna e vede cose che gli altri
non vedono né possono vedere,
essendo abituati ai nessi
logici, razionali delle cose. Il
"fanciullino" privilegia
l'intuizione alla ragione, il
sogno al vero, l'invenzione alla
riproduzione, l'arbitrarietà
della parola alla normalità
comunicativa (grandissimo, in
questo senso, fu il contributo
stilistico del Pascoli).
Pascoli nascosto
In certi manuali di storia della
letteratura, generalmente,
trattando il Pascoli, si
considera il suo periodo
giovanile (quello politicamente
impegnato in direzione del
socialismo anarchico) con
sfumature diverse ma di
contenuto analogo: sprezzante,
sarcastica, ironica,
paternalistica, patetica... E si
usano espressioni così
superficiali e vergognose che,
volendo, potremmo tradurle nel
modo seguente: "non avrebbe
dovuto", "era un povero illuso",
"era giovane", "era spiantato",
e via dicendo. Il che, in
sostanza, lascia ben capire come
l'autore del manuale intenda
l'impegno politico
rivoluzionario.
Ciò fa sì che di quel periodo lo
studente non venga a sapere
praticamente nulla. Il silenzio
(ma sarebbe meglio dire la
"censura") viene giustificata
col dire che il vero "poeta", il
vero "artista" è maturato
soltanto molti anni dopo,
allorché comprese la vanità dei
suoi ideali giovanili.
Subito dopo, la censura viene
ulteriormente rafforzata
presentando, del poeta, solo
quei testi che unanimemente
(cioè anche da parte di molti
altri manuali di letteratura),
vengono considerati più
significativi: e qui la scelta
cade ovviamente su quelli che
hanno un pregio estetico o
stilistico rilevante, oppure su
quelli che confermano la
necessità del superamento delle
istanze giovanili.
Alla fine, dopo aver ridotto il
poeta a un fallito come
"politico", a uno che
praticamente era sopravvissuto a
se stesso, cioè dopo aver
rigorosamente circoscritto la
sua originalità a pochissimi
testi poetici, si conclude, non
senza compiacimento, ch'egli era
un decadente, cioè uno che né
dal punto di vista "borghese" né
da quello "anti-borghese" aveva
qualcosa da dire.
Si badi: i manuali di
letteratura italiana non
plaudono esplicitamente alla
cultura borghese -meno che mai
quelli orientati a sinistra-;
tuttavia, ogniqualvolta essi
delimitano l'opposizione alla
società capitalistica nel
ristretto ambito della mera
coscienza interiore,
psicologica, il limite della
loro ideologia piccolo-borghese
si evidenzia subito.
Naturalmente, per non apparire
troppo sbrigativi, tali manuali
riconoscono al Pascoli dei
meriti a livello linguistico,
metrico, formale, ecc., ma sul
piano del contenuto ideale il
giudizio resta negativo: il
Pascoli che aveva cercato di
superare (si precisa:
"ingenuamente") le
contraddizioni del capitalismo e
che poi si era accorto (si
precisa: "realisticamente") che
quelle contraddizioni non
potevano essere superate, va
considerato, più o meno con
disprezzo, un decadente.
Detto altrimenti: il suo
decadentismo è il frutto di una
posizione sbagliata assunta in
gioventù. Egli s'era per così
dire "intestardito" a seguire
una via che non aveva sbocchi.
Non che per questo egli dovesse
allinearsi subito alle esigenze
della borghesia (come quando
appoggiò nella maturità il
colonialismo in Africa). Sarebbe
stato sufficiente ch'egli avesse
contestato la società borghese
sul piano morale, non politico:
in tal modo, anche se alla
classe borghese del suo tempo
egli non sarebbe apparso un
"vincente", gli odierni critici
letterari borghesi forse non
l'avrebbero messo tra i
decadenti. Il decadentismo,
insomma, non viene colto come
l'esito di un dramma personale
del poeta, ma come una sorta di
punizione per aver preteso cose
ingiustificate.
In questi manuali, per
concludere, non si vuole
assolutamente ammettere
l'eventualità che un individuo
si "rifugi" nella letteratura
allo scopo di superare le
proprie tensioni accumulate in
sede politica. La letteratura
italiana -così come viene
trattata nella maggior parte dei
manuali- deve restare separata
dalla politica: laddove esiste
un nesso, una qualche relazione,
il riferimento alla politica
deve restare molto indiretto,
molto nascosto, altrimenti la
letteratura diventa "mediocre".
Il giovane Pascoli, dunque, non
solo era un illuso sul piano
politico, ma aveva anche perso
del tempo prezioso per le
esigenze della "vera"
letteratura.
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