Antonietta Fagnani Arese, con la
quale il Foscolo tra il 1800 e
il 1802, a Milano, aveva
intrecciato una relazione
amorosa, era stata ammalata
nell'inverno 1801-02 e si era
ristabilita nella primavera
successiva. L'ode Alla amica
risanata composta tra la
primavera del 1802 e quella del
1803, per celebrare tale
guarigione, venne pubblicata per
la prima volta nell'edizione
Destefanis delle Poesie (1803).
Pur sollecitata da una
contingenza precisa, e da questo
punto di vista (esterno
certamente) non dissimile da
tanta "poesia d'occasione"
tardo-settecentesca (per
nascita, per nozze, ecc.), l'ode
deriva la sua fisionomia
specifica, la sua "cifra", da
due dati: la trasfigurazione
della realtà e del vissuto del
poeta in una prospettiva
classicistica, cioè una sorta di
travestimento del quotidiano per
mezzo di una costante
ornamentazione mitologica; e la
concezione della poesia come
dispensatrice di immortalità,
come (l'unica) attività che
riscatta dai limiti propri della
condizione umana (la morte,
l'oblio) ciò che essa canta:
proprio perché celebrata ora dal
poeta, della mortale bellezza
dell'amica risanata durerà per
lo meno la memoria. Una
concezione, questa, che verrà
ripresa e approfondita nel carme
Dei Sepolcri.
Nota metrica: strofe di cinque
settenari e un endecasillabo
rimati secondo lo schema a b a c
d D; il secondo e il quarto
verso sono sdruccioli; tutti gli
altri sono piani.
Versi 1-54.
La donna celebrata, l'amica, è
guarita dopo una erga malattia;
col rifiorire della sua bellezza
cambiano le occupazioni delle
sue giornate, non più dedicate
come prima alle cure, ma ai riti
mondani - all'abbigliamento, al
suono dell'arpa e al canto, alla
danza - che la rendono oggetto
di trepida ammirazione da parte
di tutti. Può, una bellezza di
tale splendore, tramontare o
cadere nell'oblio?
|
Qual dagli antri marini
l'astro più caro a
Venere
co' rugiadosi crini
fra le fuggenti tenebre
appare, e il suo viaggio
orna col lume
dell'eterno raggio,
sorgon così tue dive
membra dall'egro talamo
e in te beltà rivive,
l'aurea beltate ond'ebbero
ristoro unico a' mali
le nate a vaneggiar
menti mortali. |
|
Le due strofe sviluppano una
comparazione tra la stella
Lucifero (v. 1, Qual) e la
riacquistata bellezza dell'amica
(v. 7, così). Come (Qual) la
stella più cara a Venere (detta
appunto Venere o Lucifero) al
mattino, quando le tenebre
notturne sono già in fuga,
appare emergendo dagli abissi
del mare (dagli antri marina)
con i suoi raggi sparsi di
rugiada simili ad una chioma
femminile (rugiadosi crani) e
adorna il suo percorso con la
luce che le deriva dai raggi
solari (eterno raggio), allo
stesso modo il tuo corpo divino
sorge dal letto (talamo) dove è
giaciuto durante la malattia (e
perciò chiamato per metonimia,
egro, cioè malato) e in te
ritorna a risplendere (rivive)
la bellezza, quella preziosa
(aurea) bellezza che fornisce
l'unico ristoro, l'unico
risarcimento all'animo umano
(menti mortala) destinato a
inseguire vane passioni (nate a
vaneggiar).
|
Fiorir, sul. caro viso
veggo la rosa, tornano
i grandi occhi al
sorriso
insidiando; e vegliano
per te in novelli pianti
trepide madri, e
sospettose amanti. |
|
Il ritorno alla primitiva
bellezza - sintetizzata nel
colorito del volto nuovamente
roseo e nei grandi occhi che
riprendono a sorridere insidiosi
(insidiándo) - non è privo di
conseguenze: perdono i sonni e
di nuovo versano lacrime
(novelli pianta) le madri e le
innamorate gelose in apprensione
per causa tua (per te).
|
Le Ore che dianzi meste
ministre eran de'
farmachi,
oggi l'indica veste,
e i monili cui gemmano
effigiati Dei
inclito studio di
scalpelli achei,
e i candidi coturni
e gli amuleti recano
onde a' cori notturni
te, Dea, mirando
obbliano
i garzoni le danze,
te principio d'affanni e
di speranze. |
|
Le Ore, mitiche personificazioni
del trascorrere del tempo (cfr.
Sepolcri, v.7), che prima si
succedevano l'una all'altra come
somministratrici di medicine
(ministre dei farmachi) - ed
erano rattristate per la tua
malattia e per il loro ingrato
compito - oggi ti portano (v.
26, recano) ornamenti per la tua
bellezza: vesti di seta indiana
(indica); gioielli adorni di
gemme recanti incise (cui è
compl. oggetto retto da gemmano,
transitivo col significato di
"ordinare a modo di gemma") le
immagini di antiche divinità,
mirabile lavoro (inclito studio)
di cesellatori greci (scalpelli
achei, per sineddoche);
stivaletti a mezza gamba di raso
bianco (candidi coturni);
ninnoli di vario genere (d'oro o
d'avorio). A causa (onde) di
questi ornamenti (che aggiungono
fascino alla tua bellezza) nei
balli (cori) notturni i giovani
(garzoni) dimenticano (obliano)
le danze, tutti dediti a
"mirare", a contemplare te che,
simile a una dea, susciti
affanni e speranze (stati
d'animo degli innamorati). La
quotidianità (una donna
anagraficamente determinata, una
malattia, gli oggetti, le
occasioni mondane ecc.) viene
trasfigurata in una dimensione
classica, e il lessico adottato
coturni, scalpelli achei, cori,
ecc. - è perfettamente
funzionale e adeguato a questa
operazione.
|
O quando l'arpa adorni
e co' novelli numeri
e co' molli contorni
delle forme che facile
bisso seconda, e intanto
fra il basso sospirar
vola il tuo canto |
|
(I giovani dimenticano le danze)
quando suoni l'arpa e le
conferisci ornamento e fascino
(adorni) sia con insoliti
(novella) ritmi (numeri,
latinismo), sia con le flessuose
(molli) linee del tuo corpo che
la morbida e pieghevole (facile)
veste pregiata (bisso) mette in
evidenza assecondandole
(seconda); e intanto tra i
sommessi (basso) sospiri dei
tuoi ammiratori si leva il tuo
canto più ammaliante, «più
pericoloso della tua stessa
bellezza» (De Robertis).
|
più periglioso; o quando
balli disegni, e l'agile
corpo all'aure fidando
ignoti vezzi sfuggono
dai manti, e dal
negletto
velo scomposto sul
sommosso petto. |
|
O quando, lasciando che nella
danza il tuo corpo sia lambito
dall'aria, nascoste bellezze
(vezzi) si intravvedono per lo
scomporsi degli abiti (manta) e
del velo - negletto, trascurato
- sul petto ansante.
|
All'agitarti, lente
cascan le trecce, nitide
per ambrosia recente,
mal fide all'aureo
pettine
e alla rosea ghirlanda
che or con l'almà salute
april ti manda. |
|
Col movimento della danza si
allentano, sciogliendosi, le
trecce brillanti per gli
unguenti profumati (ambrosia)
che vi sono stati sparsi da poco
(recente), non trattenute (mal
fide) dal pettine d'oro e dalla
ghirlanda di rose: il dono,
questo, che ora, insieme alla
vivificante (alma =
alimentatrice) salute, ti manda
l'aprile. L'ambrosia (ricorre
nei Sepolcri, ai vv. 62 e 252)
era il profumo che rivelava la
presenza degli dei; l'uso che
qui ne fa il poeta per indicare
un profumo femminile è
un'ulteriore testimonianza, a
livello lessicale, di quella
trasfigurazione della realtà in
prospettiva classicistica che è
la cifra specifica di questa
ode.
|
Così ancelle d'Amore
a te d'intorno volano
invidiate l'Ore,
meste le Grazie mirino
chi la beltà fugace
ti membra, e il giorno
dell'eterna pace. |
|
Le Ore, prima ministre de'
farmachi, ora sono invece al tuo
servizio per questo rituale (il
canto, la danza) in cui domina
Amore e sono invidiate da quelle
donne che non ricevono gli
stessi servigi che ne ricevi tu.
A questo punto, per cogliere
bene il senso degli ultimi tre
versi della strofe, occorre
rendere esplicito il nesso con
ciò che precede: proprio quando
la tua bellezza è nel suo
fulgore, qualcuno potrebbe
ricordarti (ti membra) che la
bellezza si dilegua rapidamente
e che l'approdo degli esseri
umani è la morte (il giorno
dell'eterna pace); sia maledetto
(ma con modalità tipicamente
neoclassica: "le Grazie lo
guardino male!") chi in questo
momento ti richiama a pensieri
del genere.
L'importuna riflessione di chi
ricorda la fugacità della
bellezza e l'ineluttabilità
della morte è confutata in
questa seconda parte dell'ode:
la bellezza può conseguire una
fama immortale, può sfuggire
all'inesorabile approdo di ciò
che è umano, se è celebrata
dalla poesia. E' quanto è
successo a Diana, a Venere a
bellona, creature mortali alle
quali la celebrazione poetica ha
conferito immortalità; è quanto
succederà, per il medesimo
tramite, all' "amica risanata".
|
Mortale guidatrice
d'oceanine vergini
la Parrasia pendice
tenea la casta Artemide
e fea terror di cervi
lungi fischiar d'arco
cidonio i nervi. |
|
Una volta, creatura mortale che
guidava le vergini oceanine
(divinità delle acque), Artemide
abitava le pendici del monte
Parrasio (nell'Arcadia) ed era
un'abile cacciatrice, capace di
scagliare lontano dardi
micidiali; quest'ultimo concetto
è tradotto però in un'immagine
complessa: faceva risuonare
lontano (lunga) il fischio delle
corde del suo arco, che era
stato fabbricato a Cidone (città
dell'isola di Creta famosa per
tale produzione) e che era
motivo di terrore per i cervi
(ma terror di cervi può essere
apposizione anche di Artemide
oltre che di arco cidonio).
|
Lei predicò la fama
olimpia prole; pavido
diva il mondo la chiama,
e le sacrò l'Elisio
soglio, ed il certo
telo,
e i monti, e il carro
della luna in cielo. |
|
I primi due versi della strofe
vanno letti in contrapposizione
ai versi precedenti: Artemide
era una comune mortale e
tuttavia la fama - generata dai
poeti, come è precisato al v. 69
- la proclamò (predicò) di
stirpe divina (olimpia), cioè
figlia di Giove e di Latona; il
mondo, con religioso timore
(pavido), la invoca come dea
sotto un triplice aspetto: le ha
consacrato il trono (soglio) dei
Campi Elisi, l'oltretomba dei
beati, adorandola come Persefone
o Proserpina; ne ha fatto,
attribuendole infallibilità nel
colpire (certo telo = freccia
infallibile) e dominio sui
monti, la dea della caccia (col
nome di Diana); le ha assegnato
il governo del carro della luna
(e l'ha chiamata perciò Selene).
|
Are così a Bellona
un tempo invitta
amazzone,
die' il vocale Elicona;
ella il cimiero e
l'egida
or contro l'Anglia avara
e le cavalle ed il furor
prepara. |
|
Anche a Bellona, la quale in
vita non era altro che
un'amazzone, procurarono fama
divina e culto (are) i poeti
(ispirati dalle Muse che abitano
sul monte Elicona, detto perciò
vocale, cioè risonante di
canti); Bellona, adorata come
dea della guerra, prepara ora
l'elmo (cimiero) e lo scudo
(egida) contro l'Inghilterra
(definita avara, cioè avida,
secondo un luogo comune della
propaganda antribritannica
dell'età napoleonica). Questo
accenno polemico alla
contingenza politica - i
preparativi della campagna
contro l'Inghilterra intrapresi
da Napoleone tra il 1802 e il
1803 - resta estraneo, sul piano
poetico, allo spirito che anima
l'ode: si tratta di «uno scotto
che il Foscolo paga ai luoghi
comuni del tempo» (Binni).
|
E quella a cui di sacro
mirto te veggo cingere
devota il simolacro,
che presiede marmoreo
agli arcani tuoi lari
ove a me sol
sacerdotessa appari
regina fu, Citera
e Cipro ove perpetua
odora primavera
regnò beata, e l'isole
che col selvoso dorso
rompono agli euri e al
grande Ionio il corso. |
|
Ancora un esempio della funzione
eternatrice della poesia: Venere
da mortale - era regina di Cipro
- diventata dea. Colei (Venere
appunto) la cui statua (simolacro)
ti vedo devotamente adornare
(cingere) con corone di mirto
(che era sacro proprio a
Venere), quella statua di marmo
che domina (presiede) la parte
più riposta della tua casa (gli
arcani tuoi lari, cioè la camera
da letto), nella quale tu
soltanto a me appari
sacerdotessa (di un rito
amoroso), Venere quindi, fu in
origine una regina, e perciò
donna mortale, che regnò beata
su Citera (oggi Cerigo), su
Cipro e sulle isole (le Ionie)
che coi loro monti ricoperti di
selve (dorso montuoso) si
oppongono ai venti e al mare
Ionio.
|
Ebbi in quel mar la
culla,
ivi erra ignudo spirito
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando sui flutti spira
suonano i liti un
lamentar di lira: |
|
Lo spirito di Saffo - che
secondo la leggenda, per amore
di Faone, si gettò dalla rupe di
Leucade - erra in quel mare e al
soffiare di una leggera brezza
notturna, quei lidi risuonano
del triste canto della sua lira.
|
ond'io, pien del nativo
aer sacro, su l'Itala
grave cetra derivo
per te le corde eolie,
e avrai divina i voti
fra gl'inni miei delle
insubri nepoti. |
|
Per esser nato nello Ionio
(l'onde richiama con un rapporto
causale i dati dei versi
precedenti), nel quale permane
ancora la suggestiva eco della
poesia di Saffo, io animato
dagli antichi culti e
dall'antica poesia (pién...
sacro), trasporto (derivo) le
modalità (le corde) della poesia
eolica (alla quale Saffo
appartiene) che ha cantato la
bellezza e l'amore - nella
poesia italiana (itala cetra),
seria e solenne (grave), e in
tal modo tu, resa immortale
(divina) dalla mia poesia,
«avrai offerte votive (i voti
spettanti a una dea, sarai cioè
adorata come tale), dalle future
donne lombarde (insubre nepoti),
tra il canto dei miei inni» (Gavazzeni).
Sul piano concettuale e
strutturale, l'ode è nettamente
divisa in due parti: la prima
celebra la riacquistata salute e
la bellezza dell'amica (vv.
1-48); la seconda motiva il
ruolo della poesia dispensatrice
dì immortalità, di deificazione
(vv. 55-96); questa seconda
parte è giustificata e legata
alla prima da alcuni
"versi-cerniera" (vv. 49-54): a
chi importunamente ricorda alla
donna la fugacità della bellezza
si obietta il ruolo svolto dalla
poesia e la sua vittoria su
quella fugacità.
In realtà sul piano della
concreta realizzazione poetica
c'è un'inversione, in quanto gli
effetti della poesia
dispensatrice di divina
immortalità sono già evidenti
nella prima parte, ancor prima
che venga dichiarato questo
specifico ruolo della poesia: <
l'assunzione dell'amica
all'olimpo della poesia è già di
fatto realizzata nelle
raffigurazioni iniziali»
(Martinelli), e sin dai primi
versi dell'ode il paragone con
l'astro di Venere dà il la al
componimento, innalza la figura
della donna sulla comune
condizione umana.
La celebrazione della bellezza -
e di conseguenza il conferimento
ad essa dell'immortalità -
avviene secondo il gusto e i
moduli del neoclassicismo in
voga, cioè attraverso la
mitologizzazione del quotidiano:
i dati contingenti - una bella
donna, le occasioni mondane,
l'abbigliamento, ecc. - vengono
trasferiti su un piano di mitica
lontananza e perfezione,
perdendo così il loro carattere
transeunte per diventare
personificazione e testimonianza
di un valore assoluto: la
Bellezza. E la contemplazione
della Bellezza è per i mortali
compenso e alternativa
all'angoscia del vivere, fuga
dal quotidiano e nel contempo
conquista di un superiore
equilibrio (tema già accennato
nell'Ortis). Si tratta di
un'operazione, di un itinerario
fondato su una forte componente
intellettuale: non c'è posto in
questi versi per notazioni di
carattere affettivo-
sentimentale (e dire che con la
Fagnani Arese il poeta aveva
vissuto un'intensa esperienza
amorosa), tutto è trasferito su
un piano di apollinea (o,
secondo i punti di vista,
fredda) serenità e
contemplazione. E cade qui a
proposito I'osservazione del
Fubini, che ha parlato del
«dolce stil novo di Ugo
Foscolo», notando che «come dei
poeti dello stil novo, si può
dire che il Foscolo delle odi
canti, nella figura di una
donna, la donna nel suo essere
eterno [...]. Ogni contatto con
la terra non è evitato, ma
ignorato: il tono [...] non può
essere che uno solo, quello
della "loda", della trepida
adorazione del vagheggiato mondo
tutto bellezza e purità».
Anche il tema della poesia
eternatrice della seconda parte
dell'ode è tutto materiato di
riferimenti classici: sia per
quanto riguarda la rassegna
delle esemplificazioni
(Artemide, Bellona, ecc.), sia
per il rapporto Foscolo/Saffo
che in essa viene stabilito.
Rapporto, questo, che per quanto
riguarda la memoria della
nascita (v. 85, «Ebbi in quel
mar la culla») enuncia un tema
profondamente sentito dal poeta
(cfr. A Zacinto e Grazie) e per
quanto riguarda la funzione
della poesia rimanda al rapporto
Foscolo/Omero dei Sepolcri,
quando alla
celebrazione/deificazione della
bellezza subentrerà, con una più
virile consapevolezza del
destino dell'uomo, quella dei
«forti animi», degli eroi.
Affrontiamo qui - per così dire,
in limine- un problema che si
pone per tutti gli altri testi
poetici riportati in questa
sezione.
È ormai giudizio acquisito che
il linguaggio poetico foscoliano
è tutto tramato di riferimenti,
attinti sia dai poeti greci e
latini sia dalla tradizione
letteraria italiana. Si tratta
ovviamente non di una semplice
utilizzazione, ma di una
rielaborazione del linguaggio
poetico del passato, che
perviene a risultati sicuramente
originali; ci sembra comunque
utile richiamare l'attenzione su
questo aspetto, che d'altra
parte non è proprio soltanto del
Foscolo. L'inglese Thomas Steams
Eliot - uno dei più
rappresentativi poeti del
Novecento - ha concepito la sua
poesia come «vivente unità» di
tutte le poesie scritte in
precedenza e ha sottolineato il
fatto che ogni prodotto poetico
non può non iscriversi in una
tradizione che è nel contempo
spirituale e linguistica, è
fatta di temi ma anche di moduli
poetici. La storia della poesia
è cioè un ininterrotto dialogo
che ogni poeta instaura con
quanti lo hanno preceduto,
pervenendo poi a risultati
personali che sono però tramati
di passato, di riferimenti
mediati. Riscontrabile quasi
sempre, questo dato è presente
soprattutto in epoche che
coscientemente si propongono dei
modelli, dei punti di
riferimento che considerano
ottimali: l'epoca neoclassica è
una di queste. Passiamo comunque
a qualche esempio concreto.
Rileggiamo i vv. 16-18 dell'ode:
«e vegliano / per te in novelli
pianti / trepide madri, e
sospettose amanti». Come notò
per primo il Carducci, c'è in
questi versi un riferimento
preciso a Orazio, Odi, u, 8,
21-24: «Te suis matres metuunt
iuvencis, / te senes parci,
miseraeque nuper lvirgines
nuptae, tua ne retardet/aura
maritos» [Le madri e i padri
avari e le recenti spose, ora
infelici, temono te: che il tuo
fascino non distolga da loro i
mariti]. Nei versi foscoliani -
rispetto a quelli oraziani - il
clima, lo spirito è però un
altro: come ha notato il Fubini,
«l'ironia galante di Orazio
assume un tono quasi tragico nel
Foscolo, che alle veglie della
sua donna contrappone altre
veglie ben dolorose e ci fa
sentire i pianti antichi e i
nuovi (« in novelli pianti») da
lei suscitati, e, traducendo con
due aggettivi (trepide;
sospettose) il verbo metuunt[temono],
non più ci parla come Orazio
dell'azione di un momento che
non impegna tutta I'anîma, ma di
uno stato abituale di afflizione
in cui si manifesta un
carattere, il carattere delle
madri, che la natura sembra aver
chiamato a trepidare, il
carattere delle amanti, in cui
il sospetto sembra essere nato
ad un punto con l'amore».
Ai vv. 9-10, «e in te beltà
rivive, / l'aurea beltate ond'ebbero»
la ripresa appena variata del
termine (beltà, beltate) è di
ascendenza pariniana: «con
opposto cristallo ove tu facci /
sovente paragon di tua beltade /
con la beltà della tua Donna»
(cfr. Mattino, vv. 736-38; e nel
Mezzogiorno, ai vv. 245-46,
ricorre la coppia voluttà /
voluttade).
Nel sonetto In morte del
fratello Giovanni, il v. 7 «ma
io deluse a voi le palme tendo»
nasce da una complessa
stratificazione culturale e
letteraria; come nota la
Martinelli, « il gesto, che
esprime desiderio, implorazione
affettuosa è ricorrente nei
classici: ma qui nettamente
prevale il calco da Virgilio,
Georgiche, IV, 498 "invalidasque
tibi tendens... palmas"
[tendendo a te le mie palme che
non riescono a toccarti]. La
resa di invalidas con deluse è
poi dovuta alla suggestione
dell'ode pariniana Il messaggio,
78 "con la delusa man cercando
vo" » .
Più che continuare con gli
esempi, ci sembra opportuno
precisare che questa trama di
echi e di rielaborazioni che
caratterizza il linguaggio
poetico foscoliano la si può
concretamente rilevare
attraverso un apparato di note e
un commento specialistici che
abbiano finalità e destinatari
diversi da quelli di questo
nostro lavoro (ad esempio,
l'edizione cit. delle Opere del
Foscolo a cura di F. Gavazzeni,
oppure, più accessibile,
l'edizione cìt. di Sepolcri,
odi, sonetti a cura di D.
Martinelli).