NATURA MATRIGNA
Gli elementi che già erano
affiorati in precedenti
riflessioni e che indicavano il
superamento della fase di
pessimismo storico (di stampo
tardo settecentesco e poi
romantico) si precisano in
questo testo fondamentale.
Quello di natura non è, come
voleva Rousseau, uno stato
perfetto da cui l'uomo sì
sarebbe colpevolmente
allontanato con il cosiddetto
"progresso"; Natura non è
l'antitesi felice di una Ragione
negativa, Natura è la sorgente
prima dei mali dell'uomo. Nel
Dialogo della Natura e di un
Islandese quelli che erano
elementi ancor marginali o non
pienamente definiti, eppur
presenti, nelle precedenti
Operette e nelle precedenti
riflessioni dello Zibaldone
divengono ora un preciso
sistema.
La Natura è dentro di noi.
Qui anzi metaforicamente,
attraverso la vicenda
dell'Islandese, la fuga dalla
civiltà nella natura è capovolta
nella fuga dalla natura. Ma il
Leopardi alle attese del suo
personaggio oggettivamente
replica che non è possibile
fuggire dalla natura, essendo
questa non al di fuori di noi,
ma profondamente radicata in
noi. La Natura, oggettivata nel
personaggio < di volto mezzo tra
bello e terribile», - per quanto
la critica abbia mostrato che
quello di natura è un concetto
complesso e non univoco nella
riflessione leopardiana - è
anche la natura umana.
«Svuotando di ogni senso l'idea
classica di una vita nascosta e
appartata», - scrive il Damiani
«Leopardi annulla nello stesso
tempo la concezione moderna del
viaggio e della fuga verso un
altro cielo e un altro spazio
più propizi. La meta
dell'Islandese, in un circolo
vizioso senza uscite, è infatti
la stessa Natura da lui
rifuggita».
Le due fasi della ricerca
dell'Islandese, il classico
rifugiarsi nella solitudine,
l'allontanarsi dagli uomini da
un lato (che presuppone
l'origine del male nella
degenerazione dell'uomo e
concepisce la natura come porto
felice) e il moderno vagare
dall'altro (che porta a scoprire
che non c'è rifugio naturale dal
male, che il male è nella natura
stessa), il suo itinerario
materiale e spirituale, insomma,
rispecchiano da vicino
l'itinerario filosofico del
Leopardi dal pessimismo storico
a quello cosmico, ne
costituiscono la più compiuta
metafora.
La Natura indifferente.
Emergono nel dialogo elementi
noti della concezione del mondo
leopardiana e in particolare la
teoria del piacere: I'«insaziabile
avidità di piacere»,
l'impossibilità di ottenerlo,
l'iniquo rapporto tra piaceri e
dolori particolari sono dati
costitutivi della condizione
umana, e ora esplicitamente,
tramite le parole
dell'Islandese, nella Natura
viene additata la vera
colpevole: «mi avveggo che tanto
ci è destinato e necessario il
patire, quanto il non godere;
tanto impossibile il vivere
quieto in qual si sia modo,
quanto il vivere inquieto senza
miseria: e mi risolvo a
conchiudere che tu sei nemica
scoperta degli uomini, e degli
altri animali, e di tutte le
opere tue; [...] e che, per
costume e per instituto, sei
carnefice della tua propria
famiglia, de' tuoi figliuoli e,
per dir così, del tuo sangue e
delle tue viscere». Anche
l'invecchiare, cioè l'intima
struttura del vivere, il
progredire verso la morte
vedendosi privare delle
giovanili speranze, è uno
strumento di tortura voluto
dalla natura per infierire
sull'uomo.
La replica della Natura alle
accuse dell'Islandese è
terribile: il suo tentativo di
scagionarsi, adducendo la
propria inconsapevolezza
nell'arrecare male all'uomo, non
fa che aggravare la valutazione
leopardiana della condizione
umana. La Natura cori ciò
dichiara in sostanza la propria
assoluta indifferenza al destino
umano e sottolinea
l'insignificanza dell'uomo
nell'universo. Neppure come
oggetto di persecuzione l'uomo
può considerarsi al centro del
mondo. La considerazione ci
riporta allo scenario del
Dialogo di un folletto e di uno
Gnomo, di una Terra in cui
l'uomo è ormai estinto e in cui
tutto procede come se nulla
fosse accaduto, perché nella
prospettiva universale nulla di
significativo è effettivamente
accaduto (moltissime altre
specie viventi, «altre qualità
di bestie», già si erano estinte
in precedenza, aveva osservato
il Folletto).
Un universo privo di
senso.
L'Islandese incalza: non sono
stato io a chiedere di venire al
mondo, tu mi ci hai posto, tu
sei dunque oggettivamente
colpevole della mia esistenza e
della mia sofferenza. La Natura
replica: l'universo è «un
perpetuo circuito di produzione
e distruzione», che impone a
ogni essere particolare di
soffrire e perire affinché la
vita stessa dell'universo si
mantenga. II dialogo si conclude
con l'interrogativo supremo
dell'Islandese, destinato a
rimanere senza risposta:
assodato che è materia in
perpetuo, doloroso divenire, che
senso ha l'universo? a chi giova
che esso esista? La domanda e il
lasciarla senza risposta sono
una forma retorica per
insinuare, se non affermare
recisamente, che l'intero
universo, non solo l'esistenza
dell'uomo, non ha senso alcuno,
né scopo alcuno (se non quello
di mantenere temporaneamente in
vita il sistema stesso). Questa
conclusione può essere presa
come rappresentazione
emblematica della visione del
mondo dell'uomo moderno che
adotti una filosofia
materialistica (qui echeggiata
esplicitamente nel ciclo di
produzione e di distruzione
della materia in cui consiste la
vita dell'universo), che scopra
o affermi la non esistenza dì
Dio, che neghi cioè l'esistenza
di un finalismo che in qualche
modo possa giustificare la
propria costitutiva sofferenza.
Bisogna però subito notare che:
a) l'adozione di una concezione
materialistica del mondo non
necessariamente porta a un
pessimismo così radicale come
quello leopardiano;
b) al pessimismo della ragione
per usare con libertà una
formula nota - può corrispondere
anche un ottimismo della
volontà;
c) il Leopardi stesso, specie
nella fase terminale della sua
riflessione e in particolare con
La ginestra, proprio muovendo da
una visione radicalmente
negativa dell'universo e
dell'esistenza umana, approda
non già a un integrale
nichilismo, ma a quellá che per
ora definiamo un'utopia
solidaristica, a un invito a
tutti gli uomini affinché si
consocino per alleviarsi
reciprocamente il dolore
dell'esistenza e per combattere
la malignità della natura. La
critica, poi, accanto al tema
della titanica protesta contro
l'infelicità esistenziale
dell'uomo, ha sottolineato
l'importanza nel pensiero del
Leopardi della pietà per la
sofferenza degli altri uomini e
di tutti gli esseri viventi, che
costituisce la necessaria
premessa per il solidarismo
attivo della Ginestra.
Importantissima in questo senso
è inoltre una nota del 2 gennaio
1829, che riportiamo negli
Approfondimenti, in cui il
Leopardi protesta che la sua
filosofia non conduce alla
misantropia, tutt'altro.
Bisogna infine notare che il
constatare il carattere
essenzialmente doloroso
dell'esistenza umana non è né
una peculiarità del pensiero
leopardiano, né una novità: si
pensi ad esempio alla cristiana
"valle di lacrime" (ma nel
Dialogo di Tristano e di un
amico vengono citate anche fonti
classiche). Anzi, è proprio
l'individuazione di alcune
premesse comuni al pensiero
cristiano e in particolare il
tema della vita umana come
sofferenza, che ha indotto una
parte della critica cattolica
(trascurando qui i del tutto
inaccettabili e infondati
tentativi di ricondurre
globalmente il pensiero
leopardiano al cristianesimo)
ora a sottolineare la natura
«fondamentalmente mistica» del
Leopardi, (Getto, Storia della
poesia leopardiana, in Saggi
leopardiani, Sansoni, Firenze
1966), ora a rimpiangere il
mancato esito fideistico di
quelle premesse, considerate, a
torto o a ragione, comuni a
quelle cristiane. Ma altri
studiosi interessati a sondare
la "religiosità" leopardiana
hanno riconosciuto nel Leopardi
influssi di tradizioni diverse
da quella cristiana. A noi
tuttavia pare - pur
nell'indubbia complessità del
problema - che tali
interpretazioni colgano quanto
meno aspetti minoritari della
sensibilità e della riflessione
leopardiana.
Il finale ironico.
Il finale dell'operetta aggiunge
una nota amaramente ironica: a
togliere di mezzo l'Islandese,
impedendo che la Natura risponda
al più inquietante
interrogativo, sono forse due
leoni macilenti che mangiandolo
riescono per quel giorno (e solo
per quello) a sopravvivere. La
vita dell'Islandese, in altri
termini, poco giova anche ai due
leoni. Ma forse neppure questo
piccolo tributo è offerto, forse
l'Islandese, travolto da un
turbine di vento, finisce
mummificato in qualche museo: la
temporanea sospensione della
distruzione del corpo poco gli
giova però, visto che, comunque,
è morto.
Una "souffrance"
universale.
Nel passo del Dialogo che si è
citato la Natura è detta nemica
non solo degli uomini, ma anche
degli animali e di tutte le
altre opere sue. Una
considerazione analoga è fatta a
conclusione della penultima
battuta dell'Islandese: «E
questo che dico di me, dicolo di
tutto il genere umano, dicolo
degli altri animali e di ogni
creatura». La sofferenza agli
occhi del Leopardi appare già in
questi anni condizione non solo
umana, ma generale di tutti gli
esseri viventi, universale
insomma. Celebre, fra gli altri
che si potrebbero addurre ad
esempio, è un pensiero dello
Zibaldone del 22 aprile 1826,
che illustra eloquentemente
questa visione dell'infelicità
universale.
Non gli uomini solamente, ma il
genere umano fu e sarà sempre
infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma tutti
gli animali. Non gli animali
soltanto ma tutti gli altri
esseri al loro modo. Non
gl'individui, male specie, i
generi, i regni, i globi, i
sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di
piante, d'erbe, di fiori. Sia
pur quanto volete ridente. Sia
nella più mite stagione
dell'anno. Voi non potete volger
lo sguardo in nessuna parte che
voi non vi troviate del
patimento. Tutta quella famiglia
di vegetali è in istato di
souffrance, qual individuo più,
qual meno. Là quella rosa è
offesa dal sole, che gli ha dato
la vita; si corruga, langue,
appassiscè,- Là quel giglio è
succhiato crudelmente da un'ape,
nelle sue parti più sensibili,
più vitali. [41761 II dolce mele
non si fabbrica dalle
industriose, pazienti, buone,
virtuose api senza indicibili
tormenti di quelle fibre
delicatissime, senza strage
spietata di teneri fiorellini.
Quell'albero è infestato da un
formicaio, quell'altro da
bruchi, da mosche, da lumache,
da zanzare; questo è ferito
nella scorza e cruciato
dall'aria o dal sole che penetra
nella piaga; quello è offeso nel
tronco, o nelle radici; quell'altro
ha più foglie secche;
quest'altro è roso, morsicato
nei fiori; quello trafitto,
punzecchiato nei frutti. Quella
pianta ha troppo caldo, questa
troppo fresco; troppa luce,
troppa ombra; troppo umido,
troppo secco. L'una patisce
incomodo e trova ostacolo e
ingombro nel crescere, nello
stendersi; l'altra non trova
dove appoggiarsi, o si affatica
e stenta per arrivarvi. In tutto
il giardino tu non trovi una
pianticella sola in istato di
sanità perfetta.
Qua un ramicello è rotto o dal
vento o dal suo proprio peso; là
un zeffiretto va stracciando un
fiore, vola con un brano, un
filamento, una foglia, una parte
viva di questa o quella pianta,
staccata e strappata via.
Intanto tu strazi le erbe co'
tuoi passi; le stritoli, le
ammacchi, ne spremi il sangue,
le rompi, le uccidi. Quella
donzelletta sensibile e gentile,
va dolcemente sterpando e
infrangendo steli. Il
giardiniere va saggiamente
troncando, tagliando membra
sensibili, colle unghie, col
ferro. (Bologna, 19 Aprile
1826).
"La mia filosofia non conduce
alla misantropia". Si consideri
ora il seguente pensiero:
**La mia filosofia, non solo non
è conducente alla misantropia,
come può parere a chi la guarda
superficialmente, e come molti
l'accusano; ma di sua natura
esclude la misantropia, di sua
natura tende a sanare, a
spegnere quel mal umore, quell'odio,
non sistematico, ma pur vero
odio, che tanti e tanti, i quali
non sono filosofi, e non
vorrebbono esser chiamati nè
creduti misantropi, portano però
cordialmente a' loro simili, sia
abitualmente, sia in occasioni
particolari, a causa del male
che, giustamente o
ingiustamente, essi, come tutti
gli altri, ricevono dagli altri
uomini. La mia filosofia fa rea
d'ogni cosa la natura, e
discolpando gli uomini
totalmente, rivolge l'odio, o se
non altro il lamento, a
principio più alto, all'origine
vera de' mali de' viventi ec.ec.
(Recanati, 2 Gennaio 1829).**
Ritroveremo affermazioni simili
a quelle del primo dei due passi
citati nel finale del Canto
notturno di un pastore errante
dell'Asia. Questa componente del
suo pensiero dà luogo nel
Leopardi a un sentimento di
profonda pietà, oltre che per
gli altri esseri umani, com'è
testimoniato nel secondo passo,
per ogni essere vivente.
Quello del viaggio-fuga da una
società o da una condizione
esistenziale vissute come
negative è tema diffusissimo
nella letteratura
otto-novecentesca, e assai ricco
di implicazioni.
La concezione della Natura
matrigna - pur senza attingere
la profondità e la pregnanza di
significato che ha in Leopardi -
ricorre anche in altri scrittori
ottocenteschi. In questo passo
dell'Ortis (Lettera del 17
aprile 1798), il Foscolo, che
sappiamo muovere da una
concezione del mondo
meccanicistico-materialistica
affine a quella del Leopardi,
propone anche l'espressione
«matrigna» che il Leopardi più
tardi utilizzerà nella Ginestra.
**Io non ho l'anima negra; e tu
il sai, mio Lorenzo: nella mia
prima gioventù avrei sparso
fiori su le teste di tutti i
viventi: chi mi ha fatto così
rigido e ombroso verso la più
parte degli uomini, se non la
loro ipocrita crudeltà?
Perdonerei tutti i torti che mi
hanno fatto. Ma quando mi passa
dinanzi la venerabile povertà
che mentre s'affatica, mostra le
sue vene succhiate dalla
onnipotente opulenza; e quando
io vedo tanti uomini infermi,
imprigionati, affamati, e tutti
supplichevoli sotto il terribile
flagello di certe leggi - ah no,
io non mi posso riconciliare. Io
grido allora vendetta con quella
turba di tapini co' quali divido
il pane e le lagrime; e ardisco
ridomandare in lor nome la
porzione che hanno ereditato
dalla Natura, madre benefica e
imparziale - la Natura? ma se ne
ha fatti quali pur siamo, non è
forse matrigna?
Sì, Teresa, io vivrò teco; ma io
non vivrò se non potrò vivere
teco. Tu sei uno di que' pochi
angioli sparsi qua e là su la
faccia della terra per
accreditare la virtù, ed
infondere negli animi
perseguitati ed afflitti l'amore
dell'umanità. Ma s'io ti
perdessi, quale scampo si
aprirebbe a questo giovine
infastidito di tutto il resto
del mondo?.