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 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIACOMO LEOPARDI

NATURA MATRIGNA


Gli elementi che già erano affiorati in precedenti riflessioni e che indicavano il superamento della fase di pessimismo storico (di stampo tardo settecentesco e poi romantico) si precisano in questo testo fondamentale. Quello di natura non è, come voleva Rousseau, uno stato perfetto da cui l'uomo sì sarebbe colpevolmente allontanato con il cosiddetto "progresso"; Natura non è l'antitesi felice di una Ragione negativa, Natura è la sorgente prima dei mali dell'uomo. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese quelli che erano elementi ancor marginali o non pienamente definiti, eppur presenti, nelle precedenti Operette e nelle precedenti riflessioni dello Zibaldone divengono ora un preciso sistema.

La Natura è dentro di noi.


Qui anzi metaforicamente, attraverso la vicenda dell'Islandese, la fuga dalla civiltà nella natura è capovolta nella fuga dalla natura. Ma il Leopardi alle attese del suo personaggio oggettivamente replica che non è possibile fuggire dalla natura, essendo questa non al di fuori di noi, ma profondamente radicata in noi. La Natura, oggettivata nel personaggio < di volto mezzo tra bello e terribile», - per quanto la critica abbia mostrato che quello di natura è un concetto complesso e non univoco nella riflessione leopardiana - è anche la natura umana. «Svuotando di ogni senso l'idea classica di una vita nascosta e appartata», - scrive il Damiani «Leopardi annulla nello stesso tempo la concezione moderna del viaggio e della fuga verso un altro cielo e un altro spazio più propizi. La meta dell'Islandese, in un circolo vizioso senza uscite, è infatti la stessa Natura da lui rifuggita».
Le due fasi della ricerca dell'Islandese, il classico rifugiarsi nella solitudine, l'allontanarsi dagli uomini da un lato (che presuppone l'origine del male nella degenerazione dell'uomo e concepisce la natura come porto felice) e il moderno vagare dall'altro (che porta a scoprire che non c'è rifugio naturale dal male, che il male è nella natura stessa), il suo itinerario materiale e spirituale, insomma, rispecchiano da vicino l'itinerario filosofico del Leopardi dal pessimismo storico a quello cosmico, ne costituiscono la più compiuta metafora.

La Natura indifferente.


Emergono nel dialogo elementi noti della concezione del mondo leopardiana e in particolare la teoria del piacere: I'«insaziabile avidità di piacere», l'impossibilità di ottenerlo, l'iniquo rapporto tra piaceri e dolori particolari sono dati costitutivi della condizione umana, e ora esplicitamente, tramite le parole dell'Islandese, nella Natura viene additata la vera colpevole: «mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il vivere quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; [...] e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere». Anche l'invecchiare, cioè l'intima struttura del vivere, il progredire verso la morte vedendosi privare delle giovanili speranze, è uno strumento di tortura voluto dalla natura per infierire sull'uomo.
La replica della Natura alle accuse dell'Islandese è terribile: il suo tentativo di scagionarsi, adducendo la propria inconsapevolezza nell'arrecare male all'uomo, non fa che aggravare la valutazione leopardiana della condizione umana. La Natura cori ciò dichiara in sostanza la propria assoluta indifferenza al destino umano e sottolinea l'insignificanza dell'uomo nell'universo. Neppure come oggetto di persecuzione l'uomo può considerarsi al centro del mondo. La considerazione ci riporta allo scenario del Dialogo di un folletto e di uno Gnomo, di una Terra in cui l'uomo è ormai estinto e in cui tutto procede come se nulla fosse accaduto, perché nella prospettiva universale nulla di significativo è effettivamente accaduto (moltissime altre specie viventi, «altre qualità di bestie», già si erano estinte in precedenza, aveva osservato il Folletto).

Un universo privo di senso.


L'Islandese incalza: non sono stato io a chiedere di venire al mondo, tu mi ci hai posto, tu sei dunque oggettivamente colpevole della mia esistenza e della mia sofferenza. La Natura replica: l'universo è «un perpetuo circuito di produzione e distruzione», che impone a ogni essere particolare di soffrire e perire affinché la vita stessa dell'universo si mantenga. II dialogo si conclude con l'interrogativo supremo dell'Islandese, destinato a rimanere senza risposta: assodato che è materia in perpetuo, doloroso divenire, che senso ha l'universo? a chi giova che esso esista? La domanda e il lasciarla senza risposta sono una forma retorica per insinuare, se non affermare recisamente, che l'intero universo, non solo l'esistenza dell'uomo, non ha senso alcuno, né scopo alcuno (se non quello di mantenere temporaneamente in vita il sistema stesso). Questa conclusione può essere presa come rappresentazione emblematica della visione del mondo dell'uomo moderno che adotti una filosofia materialistica (qui echeggiata esplicitamente nel ciclo di produzione e di distruzione della materia in cui consiste la vita dell'universo), che scopra o affermi la non esistenza dì Dio, che neghi cioè l'esistenza di un finalismo che in qualche modo possa giustificare la propria costitutiva sofferenza. Bisogna però subito notare che:
a) l'adozione di una concezione materialistica del mondo non necessariamente porta a un pessimismo così radicale come quello leopardiano;
b) al pessimismo della ragione per usare con libertà una formula nota - può corrispondere anche un ottimismo della volontà;
c) il Leopardi stesso, specie nella fase terminale della sua riflessione e in particolare con La ginestra, proprio muovendo da una visione radicalmente negativa dell'universo e dell'esistenza umana, approda non già a un integrale nichilismo, ma a quellá che per ora definiamo un'utopia solidaristica, a un invito a tutti gli uomini affinché si consocino per alleviarsi reciprocamente il dolore dell'esistenza e per combattere la malignità della natura. La critica, poi, accanto al tema della titanica protesta contro l'infelicità esistenziale dell'uomo, ha sottolineato l'importanza nel pensiero del Leopardi della pietà per la sofferenza degli altri uomini e di tutti gli esseri viventi, che costituisce la necessaria premessa per il solidarismo attivo della Ginestra. Importantissima in questo senso è inoltre una nota del 2 gennaio 1829, che riportiamo negli Approfondimenti, in cui il Leopardi protesta che la sua filosofia non conduce alla misantropia, tutt'altro.
Bisogna infine notare che il constatare il carattere essenzialmente doloroso dell'esistenza umana non è né una peculiarità del pensiero leopardiano, né una novità: si pensi ad esempio alla cristiana "valle di lacrime" (ma nel Dialogo di Tristano e di un amico vengono citate anche fonti classiche). Anzi, è proprio l'individuazione di alcune premesse comuni al pensiero cristiano e in particolare il tema della vita umana come sofferenza, che ha indotto una parte della critica cattolica (trascurando qui i del tutto inaccettabili e infondati tentativi di ricondurre globalmente il pensiero leopardiano al cristianesimo) ora a sottolineare la natura «fondamentalmente mistica» del Leopardi, (Getto, Storia della poesia leopardiana, in Saggi leopardiani, Sansoni, Firenze 1966), ora a rimpiangere il mancato esito fideistico di quelle premesse, considerate, a torto o a ragione, comuni a quelle cristiane. Ma altri studiosi interessati a sondare la "religiosità" leopardiana hanno riconosciuto nel Leopardi influssi di tradizioni diverse da quella cristiana. A noi tuttavia pare - pur nell'indubbia complessità del problema - che tali interpretazioni colgano quanto meno aspetti minoritari della sensibilità e della riflessione leopardiana.

Il finale ironico.


Il finale dell'operetta aggiunge una nota amaramente ironica: a togliere di mezzo l'Islandese, impedendo che la Natura risponda al più inquietante interrogativo, sono forse due leoni macilenti che mangiandolo riescono per quel giorno (e solo per quello) a sopravvivere. La vita dell'Islandese, in altri termini, poco giova anche ai due leoni. Ma forse neppure questo piccolo tributo è offerto, forse l'Islandese, travolto da un turbine di vento, finisce mummificato in qualche museo: la temporanea sospensione della distruzione del corpo poco gli giova però, visto che, comunque, è morto.

Una "souffrance" universale.


Nel passo del Dialogo che si è citato la Natura è detta nemica non solo degli uomini, ma anche degli animali e di tutte le altre opere sue. Una considerazione analoga è fatta a conclusione della penultima battuta dell'Islandese: «E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura». La sofferenza agli occhi del Leopardi appare già in questi anni condizione non solo umana, ma generale di tutti gli esseri viventi, universale insomma. Celebre, fra gli altri che si potrebbero addurre ad esempio, è un pensiero dello Zibaldone del 22 aprile 1826, che illustra eloquentemente questa visione dell'infelicità universale.
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, male specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassiscè,- Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. [41761 II dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta.
Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna, 19 Aprile 1826).

"La mia filosofia non conduce alla misantropia". Si consideri ora il seguente pensiero:

**La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi ec.ec.
(Recanati, 2 Gennaio 1829).**

Ritroveremo affermazioni simili a quelle del primo dei due passi citati nel finale del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Questa componente del suo pensiero dà luogo nel Leopardi a un sentimento di profonda pietà, oltre che per gli altri esseri umani, com'è testimoniato nel secondo passo, per ogni essere vivente.
Quello del viaggio-fuga da una società o da una condizione esistenziale vissute come negative è tema diffusissimo nella letteratura otto-novecentesca, e assai ricco di implicazioni.
La concezione della Natura matrigna - pur senza attingere la profondità e la pregnanza di significato che ha in Leopardi - ricorre anche in altri scrittori ottocenteschi. In questo passo dell'Ortis (Lettera del 17 aprile 1798), il Foscolo, che sappiamo muovere da una concezione del mondo meccanicistico-materialistica affine a quella del Leopardi, propone anche l'espressione «matrigna» che il Leopardi più tardi utilizzerà nella Ginestra.

**Io non ho l'anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo: nella mia prima gioventù avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi: chi mi ha fatto così rigido e ombroso verso la più parte degli uomini, se non la loro ipocrita crudeltà? Perdonerei tutti i torti che mi hanno fatto. Ma quando mi passa dinanzi la venerabile povertà che mentre s'affatica, mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati, affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi - ah no, io non mi posso riconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di tapini co' quali divido il pane e le lagrime; e ardisco ridomandare in lor nome la porzione che hanno ereditato dalla Natura, madre benefica e imparziale - la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?
Sì, Teresa, io vivrò teco; ma io non vivrò se non potrò vivere teco. Tu sei uno di que' pochi angioli sparsi qua e là su la faccia della terra per accreditare la virtù, ed infondere negli animi perseguitati ed afflitti l'amore dell'umanità. Ma s'io ti perdessi, quale scampo si aprirebbe a questo giovine infastidito di tutto il resto del mondo?.

 

© 2009 - Luigi De Bellis