IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIACOMO LEOPARDI

LA GINESTRA


La ginestra, composta nel 1836 in una villetta alle falde del Vesuvio ed edita postuma nel 1845, rappresenta il momento di suprema realizzazione della "nuova poetica" leopardiana, di una poetica in altri termini non più "idillica" ma "eroica". Questa lirica costituisce anche una sorta di testamento spirituale del poeta, che la volle posta a conclusione dei Canti. In essa il Leopardi; sviluppando una polemica, già altrove affrontata, contro ogni forma di antropocentrismo e soprattutto contro il risorto spiritualismo ottocentesco, riafferma in termini fieri e ormai definitivi la propria concezione materialistica e pessimistica del mondo. E tuttavia nel suo radicale pessimismo egli si apre suggestivamente ad elaborare un'utopia solidaristica, che vorrebbe gli uomini consociati nella lotta contro il comune nemico, la Natura.
La ginestra, nell'ambito del pensiero e della poesia leopardiana, rappresenta un esito affascinante e problematico che da allora non ha cessato di far discutere critici e' lettori, stimolandoli a confrontarsi fra loro e con un testo che, anche da opposti versanti, è ormai da molti riconosciuto come uno dei vertici della lirica di ogni tempo.

L'arido vero e la poesia.


Il Leopardi ha già da tempo e ormai definitivamente maturato la piena consapevolezza della propria altezza spirituale e acutezza intellettuale, e in particolare della validità del proprio sistema di pensiero. Dopo momenti di riflessione e poesia almeno in parte diversamente orientati (ad esempio la tentazione di una consolazione nel "canto" o nell'immaginazione, nella sua fase più propriamente idillica; la poetica dell'indefinito, del vago o della ricordanza; gli stessi canti pisano-recanatesi, in cui tra «vero» e «illusione» si istituiva una sorta di rapporto dialettico), negli ultimi suoi anni è giunta definitivamente a maturazione anche la convinzione della necessità di affrontare virilmente I'« arido vero», facendone materia di una poesia che non conceda più nulla sul piano formale al linguaggio concepito in termini di bellezza e vaghezza, ma si adegui totalmente alla realtà rappresentata e alle verità filosofiche comunicate.

L'arido vero e le superbe fole.


Nella Ginestra la necessità di affrontare l"'arido vero" è il nucleo vitale di pensiero da cui deriva ogni altra affermazione e presa di posizione. È una necessità morale, filosofica, pragmatica. Questa convinzione profondissima e saldissima si manifesta innanzi tutto come disprezzo e riso nei confronti di quanti si illudono, per volontà consolatoria e debolezza o viceversa per superbia intellettuale (ridicola superbia se si guarda alla pochezza-nullità dell'uomo nell'universo, tema questo topico della riflessione leopardiana, ribadito soprattutto attraverso le vertiginose prospettive spaziali delineate nella stanza IV), che l'uomo sia senz'altro destinato all'immortalità o comunque a «magnifiche sorti e progressive». Ma quali sono gli esatti obiettivi polemici del Leopardi in queste affermazioni? In primo luogo,, non c'è dubbio, lo spiritualismo cristiano (il cui ottimismo storico e provvidenzialistico egli aveva già attaccato nei Nuovi credenti) e ogni forma di spiritualismo e misticismo romantico (si pensi all'esaltazione del Medioevo come età della fede, che egli giudica invece semplicemente età di «barbarie», v. 75). Precisa è la polemica, ad esempio, contro il dogma della divinità ai' Cristo - oltre che nei confronti dei miti antichi - nei versi 189 segg.: «quante volte / favoleg giar ti piacque, in questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome, / per tua cagion, dell'universe cose/scendergli autori, ecc.». Ma, in secondo luogo, anche quel pensiero laico illuministico ottimista circa le possibilità di un 'progresso' legato allo sviluppo delle scienze e delle tecniche, e divulgato dalle «gazzette» e dai giornali (contro cui il Leopardi manifesta dà sempre una radicale avversione, in quanto diffusione di un sapere superficiale), un pensiero fiducioso insomma circa la «perfettibilità» del genere umano. Ma secondo alcuni, più inclini a interpretare il pensiero leopardiano in termini assolutamente nichilistici, la polemica si indirizza contro ogni qualsivoglia forma di umanesimo, laico o religioso che sia. Comunque, è decisivo notare che l'asprezza della polemica leopardiana, oltre che essere giustificata da ragioni personali (il veder misconosciuta e sottovalutata la portata del proprio pensiero, come risulta dal Tristano), si fonda essenzialmente sulla constatazione di un palese 'regresso' della cultura e del pensiero ottocentesco rispetto alle acquisizioni, dal Leopardi giudicate qui e altrove fondamentali, compiute a partire dal Rinascimento sino al vertice dell'illuminismo (il «lume» che «fe' palese» il vero [v. 81 ], riecheggiato nell'epigrafe giovannea «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce», che dal poeta è capovolta di significato rispetto alla fonte evangelica). Il Leopardi, richiamandosi qui all'illuminismo, non allude - come si è detto - alle sue componenti ottimistiche, fiduciose nella perfettibilità umana e nel progresso storico, bensì alle acquisizioni in campo conoscitivo relative alla condizione naturale e biologíca dell'uomo, al materialismo, cioè, e al disvelamento del vero e «dell'aspra sorte e del depresso loco / che natura ci diè» (vv. 79-80). Acquisizioni, insomma, i cui riflessi in campo esistenziale sono sostanzialmente negativi (dalla teoria del piacere, cioè da un esame della condizione biologica dell'uomo egli deriva l'ineluttabilità dell'infelicità umana).
L'itinerario rinascimento-illuminismo, come distanziamento dalla barbarie medievale e dal suo spiritualismo, è anche per il Leopardi un ritorno all'antico, alla saggezza degli antichi e dei popoli primitivi che - lo abbiamo visto per il Canto notturno - avevano già avuto una compiuta conoscenza o intuizione dei mali della condizione umana, senza presumere di essere al centro dell'universo o di particolari disegni provvidenziali. In questo senso è possibile che il Leopardi accogliesse anche suggestioni di antiche tradizioni di pensiero, elementi singoli di filosofie e religioni che egli aveva studiato, tutti però - ci pare - confluiti nelle superiori certezze della ragione e del materialismo settecentesco.

L'utopia solidaristica.


È su questo fondamento di certezze negative, di un vero spiacevole che bisogna però saper guardare e affrontare nella sua interezza e tragicità, che il Leopardi edifica quella che già abbiamo chiamato «utopia solidaristica». Il Leopardi dapprima afferma che è in virtù di quel «pensiero» sorto dall'allontanamento dalla barbarie medievale che «si cresce in civiltà», condizione essenziale per migliorare i «pubblici fati», le sorti dei popoli (vv. 76-77). Poi nella stanza III, attraverso la metafora dell'«uom di povero stato e di membra inferme» (v. 87 e segg.), risolta nell'affermazione che è necessario prendere coscienza del «mal che ci fu dato in sortè» e del «basso stato e frale» e mostrarsi «grandi e forti [...] nel soffrir» (vv. 115-119), si giunge all'utopia o al progetto di una confederazione di tutti gli uomini contro la natura «matrigna» (vv. 119-135). È questa un'utopia o un progetto che nasce dal sentimento, ormai profondamente radicato nei Leopardi, di profonda pietà per la condizione dell'uomo e anzi di tutti gli esseri viventi.
Di fronte a una sorte negativa, di fronte a una natura che lo minaccia di totale, improvvisa distruzione ad ogni istante (la grande metafora del Vesuvio distruttore e della lava che minaccia la ginestra), che lo destina comunque ineluttabilmente all'annientamento e prima alla sofferenza, che può fare l'uomo se non difendersi dal "brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera» (A se stesso, v. 15)? Difendersi beninteso come può, nei limiti in cui può, conscio della propria sorte e della «infinita vanità del tutto» (ivi, v. 16). Ogni ipotesi di convivenza sociale per il Leopardi di questi versi deve fondarsi dunque:

a) sul vero, sull'esatta coscienza del proprio tragico stato e sull'identificazione del nemico comune;
b) sulla pietà, sul senso di umana solé darietà che questo vero deve instillare nell'uomo.

L'uomo non deve insomma aggravare con la propria azione una condizione già disperata, non illuminata da alcuna luce di speranza, né giustificata da nessuna ipotesi di disegno provvidenziale o di compensazione ultraterrena. L'assenza di ogni ipotesi di trascendenza e provvidenza, il fondamento materialistico è ciò che distanzia dal cristianesimo una pietà e un solidarismo che in superficie mostra affinità con la morale evangelica e che con quella può convergere a patto di riconoscere col Binni che nel Leopardi «alla fine non c'è "speranza", ma volontà disperata, disillusa, faticosa». Quello leopardiano è un obiettivo mìnimale - non bisogna dimenticarlo - che esula da ogni ottimismo, da ogni facile fiducia progressista, eppure indica una via di (relativo) progresso per l'uomo, almeno nei limiti che si son detti, nei limiti di un solidarismo 'resistenziale', che si configuri cioè come un'attiva resistenza dell'uomo alla forza negativa che domina l'universo.
È poi possibile discutere (come e anche vivacemente ha discusso la critica) se questa via si radichi nel dibattito politico del suo tempo o possa costituire un'indicazione per i dibattiti politici delle età successive. Com'è noto, in proposito si sono espresse posizioni anche diametralmente opposte, da chi lo ha visto come precursore del socialismo e della società delle nazioni, a chi lo ha giudicato comunque un reazionario, da chi ne ha messo in luce il «profondo sentimento democratico», a chi lo ha definito un nichilista o un anarchico (qui non è possibile approfondire questo dibattito).

Il canto della ginestra.


Non deve ingannare l'espressione «non renitente», attribuita alla ginestra all'atto di essere travolta dalla lava del Vesuvio (v. 305), in apparente contrasto con il «renitente» di A se stesso. L'espressione significa la consapevolezza dell'inutilità di ogni sforzo che miri a violare le leggi naturali, biologiche della vita umana e dell'universo, non investe viceversa il piano solidaristico o dei doveri morali del singolo individuo: la ginestra continuerà a diffondere il proprio profumo pur nell'imminenza della distruzione, «saggia» perché consapevole, senza la codardia di un'inutile supplica, senza il forsennato orgoglio di chi si finge un destino di immortalità. La ginestra è una metafora del Leopardi stesso, dell'uomo che ha raggiunto una profonda consapevolezza filosofica, o ancora una metafora della poesia che leva la sua voce nonostante la definitiva caduta di ogni illusione.

Lo stile della Ginestra.


Nell'affrontare il problema del 'messaggio' della Ginestra, o ancora nel delineare il profilo ideologico del Leopardi non bisogna dimenticare che prima che 'filosofo' (non sistematico) il Leopardi fu poeta e che le riflessioni formulate nello Zibaldone trovano spesso espressione nei suoi testi poetici. È dunque fondamentale prestare attenzione, accanto ai contenuti di pensiero, anche alla forma in cui si realizzano. Di Walter Binni, che anche recentemente ha parlato per La ginestra di «tensione scabra e scagliosa», di «musica arditamente sinfonica e "senza canto" », di «linguaggio anti-melodico e aggressivo, che morde ed esacerba la realtà», e di «ritmo grandioso, sprezzante della "misura" elegante ed equilibrata», proponiamo da un suo precedente celebre saggio alcune osservazioni sullo stile del componimento.

La poetica da cui nasce la Ginestra risente del bisogno non improvviso di un discorso lirico (si sottolinei la particolarità in questo caso della espressione indivisa) capace di svolgersi sì per immagini, ma interne e non ornamentali, per motivi di musica, ma non per cadenze di canto, per succedersi di posizioni di persuasione sviluppate coerentemente in misure musicali, sinfoniche. E riprende le forme energiche già adoperate fino in A se stesso ed Aspasia adibendole ad una funzione più larga e più sintetica su quella linea di espressione unitaria che aveva portato il Leopardi più in là (e non diciamo perciò più in alto) dei miti dolenti ed armonici, delle conclusioni divinamente pittoresche degli idilli. Certo con pericolo di prosa che si realizza però solo sporadicamente come momento di debolezza lirica, come residuo di posizioni forti non interamente consumate poeticamente, allo stesso modo che negli idilli vi era un pericolo di canto arcadico, di succedaneo sentimentale di intensa liricità non pienamente concretata. Non contando che nel periodo prosastico della Ginestra rientra oltre il residuato di certa aridità illuministica che pure è indispensabile alla luce fosca del canto, al suo sapore di concretezza materialistica, anche la suggestione del motivo machiavellico-alfieriano già notato nella Palinodia e qui presente, fuori della luminosa eleganza foscoliana, nella sua durezza scabra di filosofia della forza, nella sua approssimativa soluzione alfieriana.

Ricchezza dunque di motivi vitali in una poetica che aspira ad una espressione che in termini romantici si potrebbe dire più che poetica (cioè al di là della linea tassesca-arcadica) per quanto da certi conati romantici teorizzati specialmente fra i germanici ilLeopardi fosse immunizzato comunque dalla sua cultura letteraria e dal suo lucido illuminismo. E questa educazione letteraria e questo razionalismo si rivelano ancora nel disprezzo di ogni approssimazione, di ogni non finito, mentre si subordinano ad una volontà di tensione che provoca mosse lunghe, rivoluzionarie e porta un tono di recisa perentorietà in ogni espressione che non viene lasciata cadere più nel proprio alone di canto, ma è chiamata a farsi centro di musica, promotrice di un ritmo risoluto. [...]
Il paesaggio potente e arido della Ginestra non è un adattamento al tema, l'ornamentazione di un contenuto (come ad esempio la nota pagina bettinelliana sul Vesuvio), ma già sul presentimento di certi toni più profondi dei Paralipomeni, delle Sepolcrali, è la più evidente manifestazione di una poetica che non vuole armoniche conclusioni e tende al rilievo di una musica articolata, robusta, rafforzata e precisata da energiche sottolineature, da mosse battute e insistenti.
Questa poetica del presente che si impone, dell'«hic et nunc» del questo

(Qui su l'arida schiena...)

non convulso e allargato in un respiro più grandioso rispetto agli altri canti di questo periodo, colloca questo paesaggio così suggestivo (e i versi sopra citati con quell'accordo di sole ardente, lava inpietrata, echi paurosi, il contorcersi lugubre della serpe e la timida fuga del coniglio, ne sono l'esempio più alto proprio perché non scendono in colore e le parole vivono in un feroce rilievo di immagine e di scatto) non in un momento particolare, ma in una linea generale di costruzione coerente di cui può mostrare in forma più evidente la totale destinazione poetica, quasi riprova più sensuosa di una poesia che rivela la stessa forza, lo stesso procedere per impeti interni in forme sprezzanti dei pericoli della prosa. Lo scatto che anima il meraviglioso
 

  dove s'annida e si contorce al sole
la serpe
 


è lo stesso che tende la furia virile e solenne della ripresa del verso 63
 

  Non io
con tal vergogna scenderò sotterra
 


o l'ardita affermazione del verso 80
 

  Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
 


dove il «vigliaccamente» così prosastico (tanto che giustamente il Russo può annotare « di cotesto avverbio non conosco esempio alcuno nella poesia antica»), può rappresentarci l'«outrance» della nuova poetica che adibisce alla sua chiara sinfonia i mezzi più adatti, senza pregiudizi, e soprattutto proprio le parole che, liberate da una certa nozione di linguaggio eletto, possono servire al tono scuro e scabro, alla solennità decisa del canto bruciando ogni esitazione di «buon gusto». Per questo invece gli avverbi, le congiunzioni, i gerundi ricorrono tanto frequenti nella Ginestra apportando il loro peso di energia, di colore tutto interno, di funzione musicale senza riferimenti comunemente immaginosi, di possibilità di slancio, di stacco e di prolungamenti secondo la struttura articolata e complessa di queste strofe che hanno dilatato la perentorietà breve di A se stesso in una larga tensione sinfonica e si sostengono nelle loro campate alte e muscolose su questi sostegni nodosi ed energici.
Anche l'uso delle rime può illuminare la natura di una poetica che costituisce il più deciso abbandono di strutture convenzionali per l'interna legge di aderenza agli impeti della personalità: quando ci si ricordi su quale piano di responsabilità ci si muove, lontani da ogni sospetto di romanticismo zingaresco! Le rime che ricorrono alla fine delle strofe, dove la loro presenza convalida e serra la separazione dei momenti musicali, sono adoperate nella maniera più rivoluzionaria: ora lontanissime fra loro come richiamo in movimenti più lunghi (si veda, ad esempio, ai versi 73-78, 75-83), ora raggruppate a tre o quattro, insistenti e addirittura portate da parole uguali a battere un ritmo quasi con ossessione (vedi i versi 40 e seguenti e specialmente i versi 170 e seguenti).
Tutto vive in questo rilievo di sinfonia eroica, cupa, solenne in cui ogni momento più debole si assimila almeno ad una sostenuta energia, e sottomesso ad una unica funzione di tono in cui quelli che sono sembrati motivi diversi ed autonomi trovano la loro giustificazione superiore, la loro vita funzionale: come ad esempio quei termini di paragone (versi 137-44 e 202-12) che servono soprattutto, in quanto poesia, a preparare lo slancio ulteriore, ad accennare la linea che viene poi svolta potentemente nella parte principale che utilizza la spinta del primo movimento musicalmente omogeneo: come chiaramente avviene per l'eruzione del Vesuvio nella strofa quinta.

 

© 2009 - Luigi De Bellis