LA GINESTRA
La ginestra, composta nel 1836
in una villetta alle falde del
Vesuvio ed edita postuma nel
1845, rappresenta il momento di
suprema realizzazione della
"nuova poetica" leopardiana, di
una poetica in altri termini non
più "idillica" ma "eroica".
Questa lirica costituisce anche
una sorta di testamento
spirituale del poeta, che la
volle posta a conclusione dei
Canti. In essa il Leopardi;
sviluppando una polemica, già
altrove affrontata, contro ogni
forma di antropocentrismo e
soprattutto contro il risorto
spiritualismo ottocentesco,
riafferma in termini fieri e
ormai definitivi la propria
concezione materialistica e
pessimistica del mondo. E
tuttavia nel suo radicale
pessimismo egli si apre
suggestivamente ad elaborare
un'utopia solidaristica, che
vorrebbe gli uomini consociati
nella lotta contro il comune
nemico, la Natura.
La ginestra, nell'ambito del
pensiero e della poesia
leopardiana, rappresenta un
esito affascinante e
problematico che da allora non
ha cessato di far discutere
critici e' lettori, stimolandoli
a confrontarsi fra loro e con un
testo che, anche da opposti
versanti, è ormai da molti
riconosciuto come uno dei
vertici della lirica di ogni
tempo.
L'arido vero e la poesia.
Il Leopardi ha già da tempo e
ormai definitivamente maturato
la piena consapevolezza della
propria altezza spirituale e
acutezza intellettuale, e in
particolare della validità del
proprio sistema di pensiero.
Dopo momenti di riflessione e
poesia almeno in parte
diversamente orientati (ad
esempio la tentazione di una
consolazione nel "canto" o
nell'immaginazione, nella sua
fase più propriamente idillica;
la poetica dell'indefinito, del
vago o della ricordanza; gli
stessi canti pisano-recanatesi,
in cui tra «vero» e «illusione»
si istituiva una sorta di
rapporto dialettico), negli
ultimi suoi anni è giunta
definitivamente a maturazione
anche la convinzione della
necessità di affrontare
virilmente I'« arido vero»,
facendone materia di una poesia
che non conceda più nulla sul
piano formale al linguaggio
concepito in termini di bellezza
e vaghezza, ma si adegui
totalmente alla realtà
rappresentata e alle verità
filosofiche comunicate.
L'arido vero e le superbe
fole.
Nella Ginestra la necessità di
affrontare l"'arido vero" è il
nucleo vitale di pensiero da cui
deriva ogni altra affermazione e
presa di posizione. È una
necessità morale, filosofica,
pragmatica. Questa convinzione
profondissima e saldissima si
manifesta innanzi tutto come
disprezzo e riso nei confronti
di quanti si illudono, per
volontà consolatoria e debolezza
o viceversa per superbia
intellettuale (ridicola superbia
se si guarda alla
pochezza-nullità dell'uomo
nell'universo, tema questo
topico della riflessione
leopardiana, ribadito
soprattutto attraverso le
vertiginose prospettive spaziali
delineate nella stanza IV), che
l'uomo sia senz'altro destinato
all'immortalità o comunque a
«magnifiche sorti e
progressive». Ma quali sono gli
esatti obiettivi polemici del
Leopardi in queste affermazioni?
In primo luogo,, non c'è dubbio,
lo spiritualismo cristiano (il
cui ottimismo storico e
provvidenzialistico egli aveva
già attaccato nei Nuovi
credenti) e ogni forma di
spiritualismo e misticismo
romantico (si pensi
all'esaltazione del Medioevo
come età della fede, che egli
giudica invece semplicemente età
di «barbarie», v. 75). Precisa è
la polemica, ad esempio, contro
il dogma della divinità ai'
Cristo - oltre che nei confronti
dei miti antichi - nei versi 189
segg.: «quante volte / favoleg
giar ti piacque, in questo
oscuro / granel di sabbia, il
qual di terra ha nome, / per tua
cagion, dell'universe
cose/scendergli autori, ecc.».
Ma, in secondo luogo, anche quel
pensiero laico illuministico
ottimista circa le possibilità
di un 'progresso' legato allo
sviluppo delle scienze e delle
tecniche, e divulgato dalle
«gazzette» e dai giornali
(contro cui il Leopardi
manifesta dà sempre una radicale
avversione, in quanto diffusione
di un sapere superficiale), un
pensiero fiducioso insomma circa
la «perfettibilità» del genere
umano. Ma secondo alcuni, più
inclini a interpretare il
pensiero leopardiano in termini
assolutamente nichilistici, la
polemica si indirizza contro
ogni qualsivoglia forma di
umanesimo, laico o religioso che
sia. Comunque, è decisivo notare
che l'asprezza della polemica
leopardiana, oltre che essere
giustificata da ragioni
personali (il veder
misconosciuta e sottovalutata la
portata del proprio pensiero,
come risulta dal Tristano), si
fonda essenzialmente sulla
constatazione di un palese
'regresso' della cultura e del
pensiero ottocentesco rispetto
alle acquisizioni, dal Leopardi
giudicate qui e altrove
fondamentali, compiute a partire
dal Rinascimento sino al vertice
dell'illuminismo (il «lume» che
«fe' palese» il vero [v. 81 ],
riecheggiato nell'epigrafe
giovannea «E gli uomini vollero
piuttosto le tenebre che la
luce», che dal poeta è capovolta
di significato rispetto alla
fonte evangelica). Il Leopardi,
richiamandosi qui
all'illuminismo, non allude -
come si è detto - alle sue
componenti ottimistiche,
fiduciose nella perfettibilità
umana e nel progresso storico,
bensì alle acquisizioni in campo
conoscitivo relative alla
condizione naturale e biologíca
dell'uomo, al materialismo,
cioè, e al disvelamento del vero
e «dell'aspra sorte e del
depresso loco / che natura ci
diè» (vv. 79-80). Acquisizioni,
insomma, i cui riflessi in campo
esistenziale sono
sostanzialmente negativi (dalla
teoria del piacere, cioè da un
esame della condizione biologica
dell'uomo egli deriva
l'ineluttabilità dell'infelicità
umana).
L'itinerario
rinascimento-illuminismo, come
distanziamento dalla barbarie
medievale e dal suo
spiritualismo, è anche per il
Leopardi un ritorno all'antico,
alla saggezza degli antichi e
dei popoli primitivi che - lo
abbiamo visto per il Canto
notturno - avevano già avuto una
compiuta conoscenza o intuizione
dei mali della condizione umana,
senza presumere di essere al
centro dell'universo o di
particolari disegni
provvidenziali. In questo senso
è possibile che il Leopardi
accogliesse anche suggestioni di
antiche tradizioni di pensiero,
elementi singoli di filosofie e
religioni che egli aveva
studiato, tutti però - ci pare -
confluiti nelle superiori
certezze della ragione e del
materialismo settecentesco.
L'utopia solidaristica.
È su questo fondamento di
certezze negative, di un vero
spiacevole che bisogna però
saper guardare e affrontare
nella sua interezza e tragicità,
che il Leopardi edifica quella
che già abbiamo chiamato «utopia
solidaristica». Il Leopardi
dapprima afferma che è in virtù
di quel «pensiero» sorto
dall'allontanamento dalla
barbarie medievale che «si
cresce in civiltà», condizione
essenziale per migliorare i
«pubblici fati», le sorti dei
popoli (vv. 76-77). Poi nella
stanza III, attraverso la
metafora dell'«uom di povero
stato e di membra inferme» (v.
87 e segg.), risolta
nell'affermazione che è
necessario prendere coscienza
del «mal che ci fu dato in sortè»
e del «basso stato e frale» e
mostrarsi «grandi e forti [...]
nel soffrir» (vv. 115-119), si
giunge all'utopia o al progetto
di una confederazione di tutti
gli uomini contro la natura
«matrigna» (vv. 119-135). È
questa un'utopia o un progetto
che nasce dal sentimento, ormai
profondamente radicato nei
Leopardi, di profonda pietà per
la condizione dell'uomo e anzi
di tutti gli esseri viventi.
Di fronte a una sorte negativa,
di fronte a una natura che lo
minaccia di totale, improvvisa
distruzione ad ogni istante (la
grande metafora del Vesuvio
distruttore e della lava che
minaccia la ginestra), che lo
destina comunque
ineluttabilmente
all'annientamento e prima alla
sofferenza, che può fare l'uomo
se non difendersi dal "brutto /
poter che, ascoso, a comun danno
impera» (A se stesso, v. 15)?
Difendersi beninteso come può,
nei limiti in cui può, conscio
della propria sorte e della
«infinita vanità del tutto»
(ivi, v. 16). Ogni ipotesi di
convivenza sociale per il
Leopardi di questi versi deve
fondarsi dunque:
a) sul vero, sull'esatta
coscienza del proprio tragico
stato e sull'identificazione del
nemico comune;
b) sulla pietà, sul senso di
umana solé darietà che questo
vero deve instillare nell'uomo.
L'uomo non deve insomma
aggravare con la propria azione
una condizione già disperata,
non illuminata da alcuna luce di
speranza, né giustificata da
nessuna ipotesi di disegno
provvidenziale o di
compensazione ultraterrena.
L'assenza di ogni ipotesi di
trascendenza e provvidenza, il
fondamento materialistico è ciò
che distanzia dal cristianesimo
una pietà e un solidarismo che
in superficie mostra affinità
con la morale evangelica e che
con quella può convergere a
patto di riconoscere col Binni
che nel Leopardi «alla fine non
c'è "speranza", ma volontà
disperata, disillusa, faticosa».
Quello leopardiano è un
obiettivo mìnimale - non bisogna
dimenticarlo - che esula da ogni
ottimismo, da ogni facile
fiducia progressista, eppure
indica una via di (relativo)
progresso per l'uomo, almeno nei
limiti che si son detti, nei
limiti di un solidarismo 'resistenziale',
che si configuri cioè come
un'attiva resistenza dell'uomo
alla forza negativa che domina
l'universo.
È poi possibile discutere (come
e anche vivacemente ha discusso
la critica) se questa via si
radichi nel dibattito politico
del suo tempo o possa costituire
un'indicazione per i dibattiti
politici delle età successive.
Com'è noto, in proposito si sono
espresse posizioni anche
diametralmente opposte, da chi
lo ha visto come precursore del
socialismo e della società delle
nazioni, a chi lo ha giudicato
comunque un reazionario, da chi
ne ha messo in luce il «profondo
sentimento democratico», a chi
lo ha definito un nichilista o
un anarchico (qui non è
possibile approfondire questo
dibattito).
Il canto della ginestra.
Non deve ingannare l'espressione
«non renitente», attribuita alla
ginestra all'atto di essere
travolta dalla lava del Vesuvio
(v. 305), in apparente contrasto
con il «renitente» di A se
stesso. L'espressione significa
la consapevolezza dell'inutilità
di ogni sforzo che miri a
violare le leggi naturali,
biologiche della vita umana e
dell'universo, non investe
viceversa il piano solidaristico
o dei doveri morali del singolo
individuo: la ginestra
continuerà a diffondere il
proprio profumo pur
nell'imminenza della
distruzione, «saggia» perché
consapevole, senza la codardia
di un'inutile supplica, senza il
forsennato orgoglio di chi si
finge un destino di immortalità.
La ginestra è una metafora del
Leopardi stesso, dell'uomo che
ha raggiunto una profonda
consapevolezza filosofica, o
ancora una metafora della poesia
che leva la sua voce nonostante
la definitiva caduta di ogni
illusione.
Lo stile della Ginestra.
Nell'affrontare il problema del
'messaggio' della Ginestra, o
ancora nel delineare il profilo
ideologico del Leopardi non
bisogna dimenticare che prima
che 'filosofo' (non sistematico)
il Leopardi fu poeta e che le
riflessioni formulate nello
Zibaldone trovano spesso
espressione nei suoi testi
poetici. È dunque fondamentale
prestare attenzione, accanto ai
contenuti di pensiero, anche
alla forma in cui si realizzano.
Di Walter Binni, che anche
recentemente ha parlato per La
ginestra di «tensione scabra e
scagliosa», di «musica
arditamente sinfonica e "senza
canto" », di «linguaggio
anti-melodico e aggressivo, che
morde ed esacerba la realtà», e
di «ritmo grandioso, sprezzante
della "misura" elegante ed
equilibrata», proponiamo da un
suo precedente celebre saggio
alcune osservazioni sullo stile
del componimento.
La poetica da cui nasce la
Ginestra risente del bisogno non
improvviso di un discorso lirico
(si sottolinei la particolarità
in questo caso della espressione
indivisa) capace di svolgersi sì
per immagini, ma interne e non
ornamentali, per motivi di
musica, ma non per cadenze di
canto, per succedersi di
posizioni di persuasione
sviluppate coerentemente in
misure musicali, sinfoniche. E
riprende le forme energiche già
adoperate fino in A se stesso ed
Aspasia adibendole ad una
funzione più larga e più
sintetica su quella linea di
espressione unitaria che aveva
portato il Leopardi più in là (e
non diciamo perciò più in alto)
dei miti dolenti ed armonici,
delle conclusioni divinamente
pittoresche degli idilli. Certo
con pericolo di prosa che si
realizza però solo
sporadicamente come momento di
debolezza lirica, come residuo
di posizioni forti non
interamente consumate
poeticamente, allo stesso modo
che negli idilli vi era un
pericolo di canto arcadico, di
succedaneo sentimentale di
intensa liricità non pienamente
concretata. Non contando che nel
periodo prosastico della
Ginestra rientra oltre il
residuato di certa aridità
illuministica che pure è
indispensabile alla luce fosca
del canto, al suo sapore di
concretezza materialistica,
anche la suggestione del motivo
machiavellico-alfieriano già
notato nella Palinodia e qui
presente, fuori della luminosa
eleganza foscoliana, nella sua
durezza scabra di filosofia
della forza, nella sua
approssimativa soluzione
alfieriana.
Ricchezza dunque di motivi
vitali in una poetica che aspira
ad una espressione che in
termini romantici si potrebbe
dire più che poetica (cioè al di
là della linea tassesca-arcadica)
per quanto da certi conati
romantici teorizzati
specialmente fra i germanici
ilLeopardi fosse immunizzato
comunque dalla sua cultura
letteraria e dal suo lucido
illuminismo. E questa educazione
letteraria e questo razionalismo
si rivelano ancora nel disprezzo
di ogni approssimazione, di ogni
non finito, mentre si
subordinano ad una volontà di
tensione che provoca mosse
lunghe, rivoluzionarie e porta
un tono di recisa perentorietà
in ogni espressione che non
viene lasciata cadere più nel
proprio alone di canto, ma è
chiamata a farsi centro di
musica, promotrice di un ritmo
risoluto. [...]
Il paesaggio potente e arido
della Ginestra non è un
adattamento al tema,
l'ornamentazione di un contenuto
(come ad esempio la nota pagina
bettinelliana sul Vesuvio), ma
già sul presentimento di certi
toni più profondi dei
Paralipomeni, delle Sepolcrali,
è la più evidente manifestazione
di una poetica che non vuole
armoniche conclusioni e tende al
rilievo di una musica
articolata, robusta, rafforzata
e precisata da energiche
sottolineature, da mosse battute
e insistenti.
Questa poetica del presente che
si impone, dell'«hic et nunc»
del questo
(Qui su l'arida schiena...)
non convulso e allargato in un
respiro più grandioso rispetto
agli altri canti di questo
periodo, colloca questo
paesaggio così suggestivo (e i
versi sopra citati con quell'accordo
di sole ardente, lava inpietrata,
echi paurosi, il contorcersi
lugubre della serpe e la timida
fuga del coniglio, ne sono
l'esempio più alto proprio
perché non scendono in colore e
le parole vivono in un feroce
rilievo di immagine e di scatto)
non in un momento particolare,
ma in una linea generale di
costruzione coerente di cui può
mostrare in forma più evidente
la totale destinazione poetica,
quasi riprova più sensuosa di
una poesia che rivela la stessa
forza, lo stesso procedere per
impeti interni in forme
sprezzanti dei pericoli della
prosa. Lo scatto che anima il
meraviglioso
|
dove s'annida e si
contorce al sole
la serpe |
|
è lo stesso che tende la furia
virile e solenne della ripresa
del verso 63
|
Non io
con tal vergogna
scenderò sotterra |
|
o l'ardita affermazione del
verso 80
|
Per questo il tergo
vigliaccamente
rivolgesti al lume |
|
dove il «vigliaccamente» così
prosastico (tanto che
giustamente il Russo può
annotare « di cotesto avverbio
non conosco esempio alcuno nella
poesia antica»), può
rappresentarci l'«outrance»
della nuova poetica che adibisce
alla sua chiara sinfonia i mezzi
più adatti, senza pregiudizi, e
soprattutto proprio le parole
che, liberate da una certa
nozione di linguaggio eletto,
possono servire al tono scuro e
scabro, alla solennità decisa
del canto bruciando ogni
esitazione di «buon gusto». Per
questo invece gli avverbi, le
congiunzioni, i gerundi
ricorrono tanto frequenti nella
Ginestra apportando il loro peso
di energia, di colore tutto
interno, di funzione musicale
senza riferimenti comunemente
immaginosi, di possibilità di
slancio, di stacco e di
prolungamenti secondo la
struttura articolata e complessa
di queste strofe che hanno
dilatato la perentorietà breve
di A se stesso in una larga
tensione sinfonica e si
sostengono nelle loro campate
alte e muscolose su questi
sostegni nodosi ed energici.
Anche l'uso delle rime può
illuminare la natura di una
poetica che costituisce il più
deciso abbandono di strutture
convenzionali per l'interna
legge di aderenza agli impeti
della personalità: quando ci si
ricordi su quale piano di
responsabilità ci si muove,
lontani da ogni sospetto di
romanticismo zingaresco! Le rime
che ricorrono alla fine delle
strofe, dove la loro presenza
convalida e serra la separazione
dei momenti musicali, sono
adoperate nella maniera più
rivoluzionaria: ora lontanissime
fra loro come richiamo in
movimenti più lunghi (si veda,
ad esempio, ai versi 73-78,
75-83), ora raggruppate a tre o
quattro, insistenti e
addirittura portate da parole
uguali a battere un ritmo quasi
con ossessione (vedi i versi 40
e seguenti e specialmente i
versi 170 e seguenti).
Tutto vive in questo rilievo di
sinfonia eroica, cupa, solenne
in cui ogni momento più debole
si assimila almeno ad una
sostenuta energia, e sottomesso
ad una unica funzione di tono in
cui quelli che sono sembrati
motivi diversi ed autonomi
trovano la loro giustificazione
superiore, la loro vita
funzionale: come ad esempio quei
termini di paragone (versi
137-44 e 202-12) che servono
soprattutto, in quanto poesia, a
preparare lo slancio ulteriore,
ad accennare la linea che viene
poi svolta potentemente nella
parte principale che utilizza la
spinta del primo movimento
musicalmente omogeneo: come
chiaramente avviene per
l'eruzione del Vesuvio nella
strofa quinta.