IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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GIACOMO LEOPARDI

ULTIMO CANTO DI SAFFO


Questa canzone venne composta dal Leopardi nel maggio del 1822 e appartiene al ciclo delle sei canzoni degli anni 1821-1822 (fra cui spicca ancbe il Bruto minore); è quindi successiva alla serie degli "idilli" cui appartengono L'infinito, Alla luna e La sera del dì di festa (1819-1820), ma ad essi venne fatta precedere nelle edizioni dei Canti curate dal poeta.
Scopo dicbiarato di questa canzone, dedicata alla celebre poetessa greca, morta - secondo tradizione - suícida, è «rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane». La situazione e i contenuti sentimentali sono palesemente autobiografici, ma l'attribuirli al monologo di un personaggio diverso da sé assolve la funzione di oggettivarli e distanziarli, evitando il pericolo di un'eccessiva e impoetica concentrazione di pathos. Vedremo tuttavia che, secondo autorevoli interpreti, questo canto trascende il motivo autobiografico e avvia la corrosione dell'idea della natura come ente benigno per l'uomo.

Nota metrica: strofe di 18 versi (tutti endecasillabi, meno il penultimo, che è settenario) sciolti, tranne gli ultimi due che hanno rima baciata.
 

  Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
 


Notte e raggio sono vocativi; vereconda, cioè modesta e pudica, è la luce della luna rispetto a quella del sole. (della cadente: perché già tramonta.
e tu: è la stella del mattino, Lucifero, nunzio del giorno; si tratta, propriamente, del pianeta Venere.
oh... miei: immagini (sembianze) gradite (care) e fonte di gioia (dilettose) per me, fintantoché (mentre) non conobbi le furie della passione amorosa (erinni, le dee vendicatrici) e il crudele destino.
 

  Spettacol molle ai disperati affetti.  


più non sorride (cioè più non incanta) un dolce spettacolo agli occhi di chi è disperato; nota la sinestesia di spettacol molle, a proposito della quale lo stesso Leopardi annota: «Consento che la metafora sia ardita, ma quante n'ha Orazio delle più ardite. E se il poeta, massime il lirico, non è ardito nelle metafore, e teme l'insolito, sarà anche privo del nuovo».
 

  Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
 


Noi.. ravviva: noi, anime infelici (il plurale scrive il Ruffo - «sembra alludere alla comune infelicità di tutti i mortali») siamo rianimate da una gioia ormai rara (insueta, tanto raramente ne facciamo esperienza)...; alle anime tormentate non si addice che lo spettacolo della natura tempestosa.
Per l'etra... si volve: attraverso l'aria (etra, dal latino aethera) instabile (fluido) turbina.
trepidanti: latinismo: tremolanti, agitati.
il flutto... Noti: la bufera (il flutto) dei venti (Noti, sono propriamente i venti del sud) carica di polvere.
e quando... di Giove: il pesante carro di Giove è il tuono; «comunemente soleasi dai poeti riguardare il tuono come il carro di Giove» (Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi).
il tenebroso aere divide: squarcia le tenebre con il fulmine.
 

  Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
 


Noi... tra' nembi: a noi piace (giova è costruito alla latina, con l'accusativo della persona cui giova) immegerci (natar, nuotare) tra le nubi, andando per dirupi (balze) e valli profonde.
e noi... sbigottiti: sottintendi giova: il fuggire disordinato (vasta, cioè qua e là, per ogni dove) dei greggi spaventati.
o d'alto... dell'onda: o lo scroscio (suono) e la furia distruttrice (vittrice ira) delle onde contro (alla) la sponda mal sicura (dubbia, «cioè pericolosa», come annota a margine Leopardi) di un fiume profondo (alto, perché in piena).
 

  Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. A' tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
 


rorida: aspersa di rugiada mattutina.
i numi: gli dèi.
fermo: fecero.
A' tuoi... intendo: io, o natura, destinata (addetta) come un'estranea di nessun valore e mal sopportata (vile... e grave ospite) al tuo splendido creato (superbi, con una sottolineatura della loro distanza, della loro indifferenza), e come un'amante non ricambiata (dispregiata, dalla natura che non ricambia l'amore di Saffo), inutilmente sollevo (intendo) in atto di supplica i miei occhi e il mio pensiero alle tue bellezze; cfr. Zibaldone, p. 507: «L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore».
aprico margo: la campagna (margo, termine latino) soleggiata.
eterea porta: la porta del cielo, dalla quale, ad oriente, entra il sole.
augelli: uccelli.
murmure: mormorio.
 

  Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
 


inclinati: cadenti.
dispiega... seno: un limpido ruscello distende le sue pozze d'acqua (seno) trasparenti.
al mio... spiagge: il fiumiciattolo, non volendo essere da me sfiorato (disdegnando), sottrae al mio incerto (lubrico) piede le sue acque serpeggianti (flessuose) e fuggendo via (in fuga) urta (preme) contro le sue rive (spiagge) profumate (per i fiori che vi crescono).
fallo: peccato, eccesso, come dirà subito appresso.
 

  Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
 


anzi il natale: prima di nascere.
onde... il volto?: per cui poi dovessero essermi così ostili (torvo) il cielo e l'aspetto della sorte (fortuna, alla latina)?
scemo: «scemo qui non vuol dire diminuito, ma assolutamente mancante» (Leopardi).
e disfiorato: in quanto privato della giovinezza, che è il fiore della vita.
al fuso... mio stame?: l'oscuro~(ferrigno, «cioè del colore della ruggine», Leopardi) filo (stame) della mia vita si avvolgesse intorno al fuso della Parca irremovibile (indorriità, che non si lascia piegare); allusione al mito delle Parche chef avvolgono e troncano il filo dell'esistenza.
Incaute... labbro: Saffo parla a se stessa: la tua bocca pronuncia parole avventate, non sufficientemente meditate.
destinati: già prefissati, ormai immutabili.
Move: dirige, governa. 46. arcano consiglio: una misteriosa «mente, i cui fini ci sfuggono, ma che ha un suo fine, che opera secondo un disegno prestabilito» (Fubini-Bigi).
 

  Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
De' più verd'anni! Alle sembianze il Padre;
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
 


Negletta... si posa: figli trascurati (negletta prole) del destino siamo nati per piangere, e il senso di tutto ciò è nella mente degli dèi (letteralmente, sulle ginocchia degli dei, espressione ricorrente in Omero, come annota lo stesso Leopardi).
Oh cure... verd'anni!: aspirazioni e speranze della giovinezza (letteralmente, degli anni più verdi).
Alle sembianze... genti: la divinità (il Padre, Giove) ha garantito dominio (regno) eterno tra gli uomini alle apparenze, alle belle apparenze, beninteso.
e per virili:.. ammanto: e nonostante eroiche imprese compiute o dimostrazioni di sapienza e di arte, il merito (virtù) non risplende in assenza di un bell'aspetto, cioè in un corpo deforme, «in cui niente è bello fuorchè l'anima» (Leopardi, Lettera a Pietro Giordani del 2 marzo 1818).
Morremo: lo stesso Leopardi richiama il virgiliano «moriemur» di Didone (Eneide, rv, 659).
Il velo... sparto: una volta che il corpo (velo, perché nasconde l'anima) indegno dello spirito che riveste sarà stato gettato (sparto) a terra.
a Dite: il regno dei morti, così chiamato da Dite (Plutone), il re degli inferi.
 

  È il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
 


E il crudo... de' casi: correggerà (emenderà) il tragico errore del destino, indicato attraverso la circonlocuzione cieco dispensator...
E tu: Faone, il ,giovane di. Lesbo, per amore del quale, non corrisposta, Saffo si sarebbe gettata in mare. 58. cui: al quale. 59. fede: fedeltà d'amore.
e vano... furor: «un inutile furore di desiderio mai soddisfatto» (Puppo).
nato mortali l'aggettivo mortal non è pleonastico, poiché «gli Dei, secondo gli antichi, erano nati, e non mortali» (Leopardi).
 

  Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra. età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
 


Me... fanciullezza: Giove non mi bagnò (asperse) col dolce liquido contenuto nel vaso (doglio) da cui raramente attinge (avaro), da quando passarono le illusioni e i sogni della fanciullezza; nel mito Giove aveva accanto al suo trono due otri, l'uno pieno di felicità, l'altro di dolore: a quest'ultimo egli attingeva con maggiore frequenza.
Ogni... s'invola: «i giorni più lieti sono i primi a fuggire» (Fubini-Bigi); primo va collegato a s'invola. Cfr. Virgilio, Georgicbe.
Sottentra: subentra, al posto dei giorni lieti.
il morbo: la malattia.
l'ombra: la minaccia, lo spettro.
gelida: perché spegne nell'uomo la fiamma della vita prima ancora che egli muoia.
 

  Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
 


Ecco di tante... m'avanza: ecco, di tutte le glorie (palme) sperate e di tante piacevoli illusioni, m'è rimasta solo la morte (il Tartaro); annota Leopardi: «Di tanti beni non m'avanza altro che il Tartaro, cioè un male. Oltracciò si può spiegare questo luogo anche esattamente, e con un senso molto naturale. Cioè, queste tante speranze e questi errori così piacevoli si vanno a risolvere nella morte».
e il prode... riva: e il mio nobile spirito posseggono (ban, latinismo) Proserpina, regina dell'inferno (il cui ingresso era collocato presso capo Tenaro, nel Peloponneso), la cupa oscurità (atra notte) del mondo sotterraneo e <de rive silenziose dei fiumi dell'Averno» (Fubini-Bigi).

La struttura del componimento - monologo lirico della poetessa greca - delinea un significativo itinerario sentimentale e conoscitivo che va dall'attrazione nei confronti della natura (paesaggio e fenomeni atmosferici), all'affermazione-scoperta della propria esclusione dalla. comunione con la natura, alla volontà di autoannientamento. Seguiamone stanza per stanza lo sviluppo.

Stanza I:
un tempo Saffo era attratta e appagata dalla contemplazione della natura in stato di quiete, ora solo i paesaggi sconvolti e tempestosi le procurano gioia. Tra un tempo e l'altro si collocano «I'erinni», cioè la passione amorosa, e «il fato», cioè-s'intuisce-la scoperta di un destino infelice che la riguarda. II motivo della consonanza con diversi fenomeni naturali, a seconda dei diversi stati d'animo, è tipicamente romantico: cfr. il Werther(vol. III, T 164) e l'Ortis.
Stanza II:
Saffo è esclusa dalla comunione con la natura, che le ha negato ciò che nella vita conta di più, la bellezza. Invano la poetessa supplice protende lo sguardo verso la natura, che le si mostra bella sì, ma superba e ostile (è già un'anticipazione della Natura dal volto «di mezzo tra bello e. terribile» del Dialogo della Natura e di un Islandese?).

Stanza III:
Saffo si interroga sui motivi della sua esclusione, della sua impossibilità di partecipare della felicità naturale e ipotizza una propria colpa (addirittura prenatale o infantile) che le avrebbe - secondo una concezione antica - attirato l'ira degli dei. Ma può solo concludere che «arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor»: è un'ammissione dell'incomprensibilità dell'esistenza e delle leggi dell'universo che è motivo ricorrente nell'opera leopardiana.

Stanza IV:
solo la morte, solo il suicidio le è concesso per correggere l'errore del destino, «cieco / dispensator de' casi». Viva felice Faone, il giovane vanamente amato, se può un essere mortale essere felice (vv. 61-62). La canzone si chiude con la visione di un tenebroso paesaggio d'oltretomba.

Alcuni di questi elementi rimandano certamente ad una visione del mondo che concepisce l'infelicità come evento personale, dovuto a un "errore" del fato; altri elementi tuttavia paiono insinuare il dubbio almeno che l'infelicità non sia problema meramente individuale, ma possa investire più generalmente l'uomo. Su questo, cfr. i successivi Approfondimenti.

1) La protesta di Saffo.
Sul posto che questa canzone occupa nello sviluppo della concezione del mondo e della poesia del Leopardi, proponiamo uno stralcio di un importante saggio di Walter Binni, La protesta del Leopardi.

Infatti la spinta protestataria, antiprovvidenzialistica, atea (o meglio qui antiteistica) violentemente impostata nel Bruto minoré, ben riaffiora nell'Ultimo canto di Saffo e la stessa eccezionalità enorme del suo caso tanto più intimo e astorico (valido dunque anche nel pieno delle età antiche e naturali prima della loro caduta e dell'intervento della ragione corruttrice), la stessa delicatezza più indifesa del personaggio femminile e ricco di tensione affettuosa, permettono una più profonda e intensa corrosione del significato della natura madre benevola, anche se quel caso potrebbe ancora apparire come uno di quegli «inconvenienti necessari» del sistema su cui il Leopardi di questo periodo insisteva nello Zibaldone avvertendoli (al di là della sua stessa esperienza biografica) e insieme cercando di ridurne la portata come eccezioni inevitabili di un così complesso sistema.
Di fatto in quell'altissima poesia (il punto più alto della poesia del ciclo '21-'22), che si alimentava di suggerimenti romantici e preromantici (dalla Delphine e dalla Corinne della Staél alle Avventure di Saffo di Alessandro Verri, usufruite queste però in un senso opposto a quello dell'illuminista convertito al cattolicesimo, fino allo stimolo più profondo della Mirra alfieriana, innocente vittima di uno scelus in lei immesso dall'alto), la protesta si fa tanto più matura e decisiva quanto più appare graduata (e la graduazione è essenziale in questo campo dalla costruzione di perfetta favola drammatica tanto che lo stesso amore non corrisposto per Faone si dichiarerà solo all'ultimo pur colorando di allusioni amorose tante immagini dello stesso paesaggio animato nel corso precedente del componimento) e trattenuta dal complesso riserbo del personaggio, dal suo contrasto fra bisogno di «lamenti» e il senso della vanità di quelli. Sicché dalla verifica di quel «caso» tanto più erompe profondamente la verità lacerante del suo significato e la sua estensibilità alla generale condizione umana, tanto che il «noi» di Saffo oscilla fra pluralis-maiestatis e l'allusione a tutti gli uomini fino a farsi unificazione di tutto il genere umano nel finale e nella definitiva diagnosi della vita dell'uomo:
 

  Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
della gelida morte...
 


Una diagnosi di infelicità esistenziale che ormai traspare persino nella frase rivolta a Faone («vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal») in quella luce di generosità, di magnanimità affettuosa di Saffo che vuole essere superiore e diversa rispetto alla crudeltà e all'indifferenza della natura nello stesso momento supremo della decisione della morte volontaria, privata così della rivalsa «maligna» e titanica di Bruto, della sua voluttà vendicativa di totale annientamento e di rifiuto di ogni affetto.

A questa diagnosi - in cui la poesia nel suo lungo attrito, non privo inizialmente di aperte espansioni violente (il «gaudio» della natura tempestosa e ossianesca), coglie le sue note più profonde di vago e vero, di sobria e lucida densità fantastica - il componimento giunge attraverso un lungo svolgimento saldamente posseduto e dominato, che nel suo «filosofar poetando» ha evidenziato senza residui lo scacco supremo della persona innocente (voce di se stessa e di tutta l'umanità) nella sua vana ricerca dell'accordo con la natura, appassionatamente tentato e non ottenuto, la verità ambigua e terribile del sistema «provvidenziale» della natura nelle sue «amene sembianze», così effettivamente rappresentate e nella sua irrazionalità («il cieco dispensator de' casi») e, peggio, nella sua indifferenza e ostilità, rivelata - nel profondo di un'esperienza totale e totalmente sofferta in una voce implacabile e priva di ogni enfasi - dal paradosso di un possibile peccato prenatale o infantile:
 

  Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo i
l ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita...?
 


Nelle forme «vereconde» (quelle bellezze vereconde che sfuggono, secondo il Leopardi del Parini, al lettore impaziente e si imprimono più profondamente nell'animo del lettore degno del poeta) di questo canto così complesso e compatto e così nuovo nel linguaggio e nella sua stessa metrica affidata a strofe di endecasillabi sciolti, siglati da un settenario ed endecasillabo a rima baciata (una nuova nuova scelya nella strenua ricerca di una dissoluzione rinnovatrice dei metri lirici tradizionali), il Leopardi è giunto a tali posizioni sull'incolpevolezza degli uomini (seppure partendo da un caso eccezionale che ancora sulla linea del pensiero analitico poteva apparire non decisivo), sull'inutilità di fondare felicità e integralità umana sul piano della corrispondenza uomo-natura, che il tentativo di colmare la lacerazione inferta dalla poesia al suo sistema della natura con un'estrema difesa poetica (l'Inno ai Patriarchi o de' principii del genere umano) della felicità naturale nella biblica zona patriarcale appare indubbiamente più volenteroso che efficace, più una battaglia di retroguardia che un vero intervento persuaso ed inteso a ristabilire nella sua pienezza le ragioni e il sentimento del sistema della natura .

 

© 2009 - Luigi De Bellis