Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Alcione (o Alcyone)
 

È il terzo libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, di Gabriele D'Annunzio, pubblicato nel 1904. Già i luoghi più poetici dei libri superumani del D'Annunzio, e ultimamente della Laus vitae, non nascono come attuazione del tema superumano, sì come pause intermesse in quel tema; tale da capo a fine è la poetica situazione di questo libro, fin dalla lirica iniziale, che appunto chiede al dèspota, nel cui nome il poeta ha durato il travaglio superumano, una tregua dove soltanto godere gli aspetti della divina Estate: "le rive i boschi i prati i monti - i cieli". In vario metro, dalle terzine ai sonetti, dalle quartine di novenari ed endecasillabi alle saffiche, dalle canzoni e ballate alle strofe libere, le 88 liriche del libro cantano l'Estate, da quando è al colmo del suo trionfo e splendore, a quando si spegne nell'imminente autunno; un disegno che nasce da sé, con ancora più dispontaneità e di grazia della simile storia d'amore accennata psicologicamente nei paesaggi delle Elegie romane, e dà al libro quella sola unità che si conviene a codesta poesia, l'unità del tono musicale nell'infinita e sempre nuova libertà delle movenze e dei temi. Non che il tema esplicitamente superumano manchi nella raccolta, specie nel "Ditirambo IV", il ditirambo di Icaro, l'eroe che (come dice un sonetto di simile ispirazione) "lungi dal medio limite si tenne -…, e ruinò nei gorghi solo". Anche in questo componimento il tema eroico si mescola al tema sensuale, ché la spinta all'atto sublime viene all'eroe dalla repugnante gelosia e amarezza di vedere la donna amata, Pasife, preda al bestiale amore del toro; e anche qui, fra tanti splendidi pezzi di bravura, la poesia s'incontra nel tono della disperata sensualità, lo stesso del San Pantaleone, soprattutto nella figurazione di Pasife vista non veduta da Icaro dopo il congiungimento obbrobrioso. Vero è che, se così isolato ed esplicito il tema superumano non compare più nel volume, spesso lo s'incontra, come frenetica celebrazione delle biade o dell'Estate ("Ditirambo I e II"), come pànica dissoluzione del poeta nel meriggio e nelle acque ("Meriggio", "Ditirambo II"), come episodica enfasi sulla creatività e sulla gloria della Poesia ("Le madri", "L'oleandro", "L'onda"), come acre ferocia a cui il bestiale è anch'esso un modo di andare oltre l'umano ("La morte del cervo"). Ma in tutti codesti casi, giova bensì indicare i luoghi, che non mancano, di eccitamento verbale che non diventa intimo fremito; meno però che nella Laus vitae giova cercare la poesia nei soli momenti di pausa del tono superumano; qui si vede infatti che le pause idilliche, senza il tema superumano, mancherebbero di una vibrazione più intima, l'ebrezza di voluttà, il tono, alto che vien loro dal sentirsi il poeta, nelle più fuggevoli sensazioni di idillio, squisitamente in preda a sensazioni oltre l'umano. Perciò soltanto nei luoghi meno riusciti può distinguersi in Alcione l'uno o l'altro estremo della tonalità poetica del D'Annunzio: il solare e il languido. Si capisce dunque come mai l'esplodente gioia del Canto novo, quella continua lode di tutte le apparenze sensibili, può ripetersi senza il tono naturalistico di allora che non andava oltre le cose esterne e bozzettistiche. Ora invece le cose apparenti non sono nulla, sono l'occasione per il poeta di ascoltare la sé altri fremiti: e qui anche le collane di immagini (che la scrittura troppo rotonda del Fuoco, lasciava esternamente visibili e canore), anche le mere enumerazioni diventano un modo di accarezzare in sé insieme quella sensibilità e quel mistero. Tutte le esperienze languide e simbolistiche culminate nel Poema paradisiaco, nulla qui se ne perde, ma diventano altra cosa, come si vede nella poesia più esplicitamente simbolica "Lungo l'Affrico", dove non tanto importano (come sarebbe accaduto nel Poema paradisiaco) i simboleggiati veri dell'anima, quanto il brivido delle apparenze in cui questi trascolorano. Così dicasi dell'esperienza parnassiana, culminata già nell'Isottèo. Anche qui s'incontrano ballate ("Il fanciullo", "Beatitudine") e none rime ("L'oleandro"), ma anche la gioia parnassiana sfuma tutta nel sentimento lirico che del cantare per il cantare è una malinconica voluttà; perfino le saffiche che vorrebbero dirsi più accademiche ("L'ulivo", "Anniversario orfico", "Feria d'agosto" hanno una levità di tocco in cui l'accademismo, risolvendosi, è una grazia di più; o si veda l'anima aerea che sostiene, nella "Sera fiesolana", lo sforzo (non più sforzo) di reggere tutta una strofa senza l'aiuto di una virgola, o, nell'ultima parte dell'"Ippocampo", il prolungarsi del respiro, di virgola in virgola, quasi per mero giuoco virtuosistico, fino al verbo finale. Ma come sempre, nelle opere di raggiunta poesia, di nessun aspetto di Alcione si può parlare fuori dalla composita unità di tono in cui si risolve. Così l'autocelebrazione del poeta male convince dove talvolta è più esplicita. Così il tema della voluttà perde il suo specifico peso essendo anzitutto voluttà di cantare, riversata per di più sul paesaggio, che sempre, fin dal Piacere, le tolse corporeità e acredine; o creando figure di donna, ma donne-favola, donne-alberi o spuma, Dafne, Versilia, Undulna, restando sempre presente nel poeta la consapevolezza della favola. L'unica donna di sangue che qui s'incontra, anch'essa ha un nome di favola, Ermione, e tornano tanto più delicate le fantasie del Sogno d'un mattino di primavera a dissolverla in creatura arborea (per esempio "La pioggia nel pineto"): lei come lei resta soltanto quel nome, una presenza diffusa su tutto come la segreta e impalpabile anima voluttuosa del paesaggio, una tonalità del sospiro di chi dinanzi a lei ma non per lei parla.
 

 

Luigi De Bellis