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Pubblicata nel 1918 sotto forma di taccuino, è il racconto
che Gabriele d'Annunzio fa della leggendaria impresa, a
cui partecipò volontario, di tre siluranti italiane
penetrate a portare l'offesa nel porto austriaco di
Buccari, la notte fra il 10 e l'11 febbraio 1918. Meglio
che nelle contemporanee orazioni di guerra, Per la più
grande Italia e La riscossa, la finzione del diario
permette alla scrittura di conservarsi piana e dimessa
come nelle Faville del maglio, assorbendo in mera
annotazione dei fatti l'ebrietà del rischio, che ancora
una volta è l'ispiratrice delle brevi pagine.
Esplicitamente si parla qui infatti del "fascino" del
rischio: qualcosa che, dopo, lascia l'anima triste "come
dopo la voluttà"; un indicibile rapimento "come la tregua
della poesia". Ancora una volta dunque, come nei discorsi,
il tema guerriero si adegua al fremito delle Faville; con
pari e sparsa felicità di paesaggi, baleni apparenti e
sparenti di volti umani, lievi immagini (come quando le
bottiglie col cartello di sfida vengono posate in mare) in
cui la beffa non travalica nell'invettiva. E pazienza
dunque se spesso l'asciutto assorbimento della retorica è
esso stesso retorica del compiaciuto contemplare sé nel
durissimo agire; pazienza la ritornante esaltazione di
venire realizzando figure della propria poesia, il compito
metodicamente celebrativo dei compagni di rischio, le
marginali contaminazioni di sentimento guerriero e
linguaggio mistico. Segue il diario (oltre ad alcuni
documenti riguardanti l'impresa) "La Canzone del Quarnaro",
in cui tornano, con fittizia popolarità di linguaggio e di
ritmo, la medesima ebrietà assorbita, il medesimo amor del
paesaggio, la medesima oratoria e retorica. In questi
limiti, però, non manca di sicura efficacia. Sarà
riaccolta poi nei Canti della guerra latina; inoltre, essa
e il diario di Buccari, nell'edizione 1932 di Per la più
grande Italia. |