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Pubblicato nel 1882, è la prima clamorosa rivelazione del
non ancora ventenne Gabriele D'Annunzio, dopo le
fanciullesche prove di Primo vere e di In memoriam .
Composto di odi barbare e di sonetti, il maggior interesse
del libro non è tanto in questi ultimi (che infatti son
lasciati cadere nella edizione definitiva 1896), per
quanto restino utili a segnare il passaggio dalle ingenue
e stecchettiane effusioni dei sonetti di In memoriam, alla
sostenutezza e al parnassiano decoro dell'Intermezzo di
rime. E non soltanto nei sonetti, ma in essi
particolarmente, la materia del canto scivola verso
quadretti umanitari e bozzettistici, fra lo Stecchetti, il
Fucini e il De Amicis: quadretti, cioè, che accento più
veramente dannunziano troveranno soltanto nella prosa di
Terra vergine. Della prima edizione resta, autentica ed
erompente poesia, l'esplosione panica, l'immedesimazione
nella natura, "l'immensa gioia di vivere, - d'essere
forte, d'essere giovine, - di mordere i frutti terrestri -
con saldi e bianchi denti voraci". Questa gioia
sembrerebbe elementare, ed è tale in parte; ma satura di
raffinata cultura, e di sensualità decadente si mostra
invece negli squisiti e alessandrini componimenti aggiunti
nel 1896, e più generalmente fin dalla prima edizione ove
la si paragoni agli atteggiamenti, toni e motivi che
sembra ripetere dal Carducci: l'amore al paesaggio, il
rivolgersi ai propri metri, la stessa pagana gioia di
vivere; ma al senso fiero e virile della storia e della
dignità umana, musa segreta del pagano Carducci, qui è
sostituito, diverso semmai moralmente ma non meno
autentico poeticamente, il puro senso del vivere per il
vivere, del cantare per il cantare, del gioire per
unicamente gioire. Il naturalismo un po'corposo che si
nota nelle imagini e nel vocabolario rappresenta i limiti
delle parti anche migliori del Canto novo come raggiunta
poesia, per il lettore d'oggi. Più giusto tuttavia è
vedervi il segno della cultura da cui moveva il
D'Annunzio, e la sicurezza con cui fin d'allora egli
tendeva a dissolvere anche i dati naturalistici, anche i
gridi che rimanevano troppo gridi, in tono e musica di là
dalla stessa immagine usata. Ciò si vede particolarmente
nelle poesie languide e sfumate, che qui e là dànno fiato
e riposo al canto solare, ponendo fin d'ora l'altro
estremo del doppio registro dannunziano, il solare e il
languido, rimaste celebri meritamente fra le più poetiche
del volume, benché nemmeno esse raggiungano la interiore
dissoluzione in musica del dato naturalistico che si
verifica in Alcyone, ma ne diano soltanto il preannuncio,
rimanendo per ora in un clima quasi da Di Giacomo.
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In Canto novo, che è ritenuto concordemente dai critici
come il capolavoro giovanile, si afferma prepotentemente
la sua ispirazione di barbaro ingenuo in accesa e anelante
comunicazione col mare, con la terra, col cielo, al di
fuori di ogni preoccupazione di carattere storico e
riflesso. (L. Russo). Questa poesia non è se non
l'irruzione violenta e qua e là scomposta di un sanissimo
e giustissimo e potentissimo senso della natura e della
vita. (E. Cecchi).
Nel Canto novo è espresso vividamente il senso della vita
universale, di cui il poeta è corporalmente partecipe, e
questa lussuria è ingenua nell'arte che non se ne
intorbida e non se ne vizia. (F.
Flora) |