Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Le canzoni della gesta d'oltremare
 

Sono dieci canzoni di Gabriele d'Annunzio stampate nel 1912, quale IV libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, intitolato a Merope. Scritte in occasione della guerra di Libia, son da dirsi poesia d'occasione, non nel senso goethiano della parola, ma nemmeno con troppo facile spregio; perché la loro vera occasione non è la giornalistica necessità della propaganda, sì il sentimento che esaltò allora il poeta di essere stato egli annunziatore e quasi preparatore all'Italia, in tempi di lassitudine e di oblio, dei nuovi tempi guerrieri. Perciò tutto il libro, nel testo nell'epigrafe e nelle note, cita luoghi del libro di Elettra, e altri ne poteva citare, dall'Armata d'Italia, dalle Odi navali, dal Più che l'amore e dalla Nave. Ma codesta esaltazione, se testimoniava a buon diritto il non mai intermesso patriottismo del cittadino, riallacciava però il poeta ai motivi meno autentici della sua poesia, quelli celebratori e superumani; proprio ora che, dalla Fedra e dal Forse che sì forse che no fino alle contemporanee Faville del maglio, il tema superumano, col suo correlativo tono "ore rotundo", sempre più gli scadeva come tono di poesia, cercata, invece, nei toni segreti d'ansia di mistero e d'ombra. È dunque da imputarsi al troppo frettoloso entusiasmo, in quanto gli impedì di avvicinarsi alla nuova sua musa, se gli antichi temi patriottici e superumani perdono anche la novità metrica e stilistica del libro di Elettra, così viva per es. nella Canzone di Garibaldi, come pure la fredda sostenutezza che condusse, quasi esercizio di stile, i sonetti della Città del Silenzio; accontentandosi di srotolarsi in facili e sempre eguali terzine rimate, con sovrabbondanza di empito. Povero compenso alla spicciola oratoria riesce la metodica erudizione che travalica continuamente dal presente al passato per ricercarvi altre glorie da glorificare, e segni e incitamenti per oggi; povero compenso, e mal fuso col rimanente, il linguaggio erudito che gli si appiglia dai documenti consultati all'uopo, secondo un gusto marginalmente sensuale già affermatosi nel linguaggio cruschevole della Vita di Cola di Rienzo, nel francese del Martirio di San Sebastiano, ma tanto meno a posto qui dove l'ispirazione vorrebbe farsi storica ben sì, ma nel senso eticamente robusto dell'aggettivo. Tuttavia il negativo giudizio non sarebbe giusto senza salvare, più e meglio che il timbro sincero dell'oratoria se non della poesia, i molti luoghi dove antichi temi, o paesistici, o turpemente feroci, o elegiaci, si affacciano più o meno liberi; senza salvare soprattutto quello che, nelle prime strofe della "Canzone di Umberto Cagni", nelle ultime della "Canzone di Mario Bianco", e in tutta "L'ultima canzone", è il tema più veramente vicino alla poesia del contemporaneo D'Annunzio: una scontentezza di sé che lo empie a paragone di forme di vita diverse dalla sua propria, l'ansia di trasumanare dalla propria a quelle altre forme di vita. È un'ansia per cui anche Le canzoni della gesta d'oltremare si affiancano, contrariamente all'apparenza, alle opere "notturne"; ed è per essa che la prossima sete di azione del D'Annunzio guerriero appartiene legittimamente alla storia della sua poesia.

Niente è così grave come quei pezzi di cronaca versificata, in cui le lunghe e sensuali descrizioni hanno un realismo di bravura senza scopo, proprio come l'enfasi delle esaltazioni a freddo. (Serra)

 

Luigi De Bellis