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Titolo goethiano ripreso da D'Annunzio per una raccolta di
poesie, edita nel 1892, similmente ispirate a Roma e a una
donna. Sono 25 elegie, in distici barbari, disposte in
modo che vi si disegna la storia di un amore, prima
fiorente, poi caduto dal cuore dell'uomo, che non cessa
tuttavia di sentir pietà per la donna disamata e respinta.
Nel senso di quella poesia d'introspezione psicologica,
lungamente cercata in verso e in prosa nell'Intermezzo di
rime, nel Piacere, nell'Innocente, è forse il libro più
convincente del D'Annunzio; perché l'introspezione
psicologica vi trova aiuto nella disegnata vicenda, la
quale comunque comunichi alcunché di volontaristico e di
extralirico ai singoli componimenti, non è più di quanto
possa sciogliere la psicologia in musica. i momenti
migliori sono dunque quelli dove la celebrazione
superumana della beltà amata si attenua e si estenua quasi
nel sospiro di un madrigale, aggiungendo talvolta, per più
di musica, la rima sulle cesure e a fine verso dei distici
barbari; o dove la pietà e la durezza nel cuore dell'uomo,
il pianto della disamata, dànno luogo a quello stesso
molliccio dell'Innocente, ma tenendolo in una zona dove
più genuinamente è struggimento, voluttà, autocompianto,
musica ancora. E in questo clima sentimentale, i cieli e
le fontane, le chiese e le ville, cioè le stesse visioni
di Roma che diedero respiro e voluttà al Piacere, si
stemprano come un solo palpito del sentimento, diciamo
così psicologico, senza la frattura fra vicenda e
descrizione che si avvertiva in quel romanzo. Le Elegie
romane furono poi comprese nel volume Femmine e Muse
(1929) dell'Edizione Nazionale delle opere di D'Annunzio. |