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Con questo titolo Gabriele d'Annunzio (1863-1938) pubblicò
sul "Corriere della Sera", fra il 1911 e il 1914, prose
varie, scritte si direbbe, a caso, su argomenti di
autoconfessione e autobiografici. Il titolo torna come
sopratitolo dei due volumi del 1924, Il venturiero senza
ventura e altri studii del vivere inimitabile e del 1928,
Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii del
vivere inimitabile, che accolgono le prose del "Corriere
della Sera" e altre di varia epoca similmente ispirate.
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Con questo titolo furono
pubblicati (1924 e 1928) due volumi di prose, molte
autobiografiche, che (alcune in una differente stesura
erano apparse sul « Corriere della Sera», nei primi del
secolo. Di notevole interesse Il compagno dagli occhi
senza cigli, sul quale negli ultimi decenni i critici
hanno richiamato l'attenzione.
Nel Compagno dagli occhi senza cigli D'Annunzio rievoca
l'adolescenza trascorsa in collegio, e di contro a quell'ambiente
chiuso e gretto, ai pedagoghi meschini, a quel sentore dì
muffa che emana da sonnolente consuetudini di vita e di
studio, si levano le aspirazioni e i vagheggiamenti di un
mondo eroico, di cui pullula l'animo del giovane
collegiale col suo amore del rischio, della grandezza,
dell'avventura. Ma su tutto questo si riflette un'intensa
malinconia, un'intima disperazione a volte, in quanto la
rievocazione di tanta tensione giovanile è fatta alla luce
di una ben triste realtà: Dario, il compagno più caro, che
in quegli anni di collegio ha nutrito i suoi sogni di
gloria con lo studio e l'infatuazione delle imprese
napoleoniche, torna dopo vent'anni a trovare il poeta: è
malato, misero, ridotto ormai una triste larva umana. Da
qui un contrappunto tra passato e presente, un conseguente
bilancio fallimentare: e in ciò precisamente consiste la
validità di questo testo. Già parecchi decenni fa il
MomIgliano aveva definito il compagno dagli occhi senza
cigli «la migliore tra le cose di D'Annunzio di una certa
ampiezza e la sola che gli sopravviverà intera»; di
recente il Salinari, dopo aver affermato che «si toccano
le cime più alte dell'opera dannunziana quando il tema
della sconfitta si spiega in tutta la sua terribile
consapevolezza». |