Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Fedra
 

Uno dei più noti lavori drammatici di D'Annunzio è pure un tragedia Fedra, in tre atti, in versi, rappresentata e pubblicata nel 1909. Come tutte le opere dannunziane, dalle Vergini delle Rocce in poi, s'ispira all'ideologia suprema, anzi la ripete puntualmente dalla Città morta: ché, come Leonardo uccise Bianca Maria, così Fedra uccide Ippolito non per vendicarsi della repulsa, ma per vincere Afrodite, per domare in sé l'incestuoso amore per il figliastro. E potrà dunque ella infine celebrare il proprio nome "come il nome di chi sovverte antiche-leggi per porre una sua legge arcana", e chiamare su di sé a bella posta l'ira di Artemide, ingiuriandola come casta e inutile protettrice dell'ucciso Ippolito, mentre anche nella morte è lei la vittoriosa, lei che, pura ormai di colpa, si ricongiunge all'amato. Quanto al tema, dunque, nessuna novità, se non fosse il dominio, la compostezza, magari la rigidità stilistica, che salva quest'opera a paragone della verbosissima Nave; una compostezza che volge in graffito decorativo l'esempio dei tragici greci, evidentissimo nella nobiltà dell'eloquio, nei pezzi lirici inseriti qui e là come strofe di cori, nell'invenzione e conduttura degli episodi. Tuttavia l'opera, nell'evoluzione della poesia dannunziana, importa per altro, e precisamente perché in essa, prima che nel romanzo Forse che si forse che no, si coglie il nascere del D'Annunzio non più solare, ma "notturno", che si preparava nelle prose ancora inedite delle Faville del maglio: un D'Annunzio, cioè, in cui l'ebrezza panica è diventata fremito d'ombra, nulla perdendo della propria sensualità, ma ottenendo, in un ripiegamento sopra se stesso, il massimo di spiritualità concesso alla sua natura sensibile. Così nell'antico tema superumano, nel più antico tema della disperazione mortale insita alla voluttà, si avverte una cadenza sorda e vibrante che è altra cosa dal languore del Poema paradisiaco e dalla naturalistica cupezza del San Pantaleone: precisamente è un'inquietudine, un'ansia d'ombra, di negata pace e di morte. "Avevi l'ombra - delle cose invisibili - su la tua voce triste", è detto a un certo punto di Ippolito che parla nel sonno; nella sua stessa vaghezza l'imagine dice bene il tono dell'opera. Perciò il meglio va ricercato fuori dai luoghi che ripetono gli antichi temi eroici: va ricercato più che mai nei luoghi disperati e voluttuosi, soffusi della nuova ombra che si è detto, dove si allunga spaventosa la minaccia del Fato, che è poi lo stesso peso dell'invincibile voluttà. Si veda particolarmente la scena tra Fedra e Ippolito nell'atto II.

 

Luigi De Bellis