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Uno dei più noti lavori drammatici di D'Annunzio è pure un
tragedia Fedra, in tre atti, in versi, rappresentata e
pubblicata nel 1909. Come tutte le opere dannunziane,
dalle Vergini delle Rocce in poi, s'ispira all'ideologia
suprema, anzi la ripete puntualmente dalla Città morta:
ché, come Leonardo uccise Bianca Maria, così Fedra uccide
Ippolito non per vendicarsi della repulsa, ma per vincere
Afrodite, per domare in sé l'incestuoso amore per il
figliastro. E potrà dunque ella infine celebrare il
proprio nome "come il nome di chi sovverte antiche-leggi
per porre una sua legge arcana", e chiamare su di sé a
bella posta l'ira di Artemide, ingiuriandola come casta e
inutile protettrice dell'ucciso Ippolito, mentre anche
nella morte è lei la vittoriosa, lei che, pura ormai di
colpa, si ricongiunge all'amato. Quanto al tema, dunque,
nessuna novità, se non fosse il dominio, la compostezza,
magari la rigidità stilistica, che salva quest'opera a
paragone della verbosissima Nave; una compostezza che
volge in graffito decorativo l'esempio dei tragici greci,
evidentissimo nella nobiltà dell'eloquio, nei pezzi lirici
inseriti qui e là come strofe di cori, nell'invenzione e
conduttura degli episodi. Tuttavia l'opera,
nell'evoluzione della poesia dannunziana, importa per
altro, e precisamente perché in essa, prima che nel
romanzo Forse che si forse che no, si coglie il nascere
del D'Annunzio non più solare, ma "notturno", che si
preparava nelle prose ancora inedite delle Faville del
maglio: un D'Annunzio, cioè, in cui l'ebrezza panica è
diventata fremito d'ombra, nulla perdendo della propria
sensualità, ma ottenendo, in un ripiegamento sopra se
stesso, il massimo di spiritualità concesso alla sua
natura sensibile. Così nell'antico tema superumano, nel
più antico tema della disperazione mortale insita alla
voluttà, si avverte una cadenza sorda e vibrante che è
altra cosa dal languore del Poema paradisiaco e dalla
naturalistica cupezza del San Pantaleone: precisamente è
un'inquietudine, un'ansia d'ombra, di negata pace e di
morte. "Avevi l'ombra - delle cose invisibili - su la tua
voce triste", è detto a un certo punto di Ippolito che
parla nel sonno; nella sua stessa vaghezza l'imagine dice
bene il tono dell'opera. Perciò il meglio va ricercato
fuori dai luoghi che ripetono gli antichi temi eroici: va
ricercato più che mai nei luoghi disperati e voluttuosi,
soffusi della nuova ombra che si è detto, dove si allunga
spaventosa la minaccia del Fato, che è poi lo stesso peso
dell'invincibile voluttà. Si veda particolarmente la scena
tra Fedra e Ippolito nell'atto II. |