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Tragedia in tre atti in versi rappresentata nel 1904 e
pubblicata nello stesso anno. Massima opera teatrale del
D'Annunzio, s'ispira al quadro omonimo del Michetti. Narra
di una meretrice campestre, Mila, destinata a portare il
lutto nelle famiglie, pur quando il ricambiato amore per
Aligi la purifica spiritualmente; ché anche Lazaro, padre
di Aligi, la vuole, e per sottrarla alla violenza di lui,
Aligi commette il parricidio. Del quale Mila si accusa,
quasi in voluttà di martirio, per sostituirsi all'amato
nell'estremo supplizio. Come si vede torna lo stesso tema
incestuoso, lussurioso (a suo modo superumano), presente,
a cominciare dalla Città morta, in tante opere del
D'Annunzio. Ma la novità e la grazia dell'opera, che
subito afferra, è nella stilizzazione arcaica e pastorale
a cui quel tema resta soggetto, e con esso la psicologia,
il tema morale e drammatico, il movimento dell'azione; una
stilizzazione che sottomette anche il ritmo e il
linguaggio, senza arrivare alla canora esternità dell'Isottèo,
né d'altra parte all'assurdo delle Vergini delle Rocce,
tuttavia costringendo il dramma nella leggiadria un
po'legnosa di una tavola nella decoratività di un
pannello. Se dunque i personaggi del D'Annunzio furono
sempre mere occasioni di toni di musica, donde viene la
scarsa narratività e teatralità delle sue opere, il pregio
della Figlia di Iorio sta invece nel contemporaneo
permanere e dissolversi dei personaggi come tali, in tutto
ciò che di tipico e di estremo v'è nei loro caratteri,
com'è proprio delle favole: nel sacrificio sublime di Mila
non meno che nell'assorto e incantato sonno di Aligi;
nell'efferato affermarsi dell'autorità paterna, non meno
che nelle figure più convenzionali e astratte, la madre
austera, le sorelle inconsapevoli, la triste sposa senza
nozze. Lo stesso è da osservare per quello che mal si
direbbe mero contorno al dramma: il tema dell'"antico
sangue" ricordato nella dedica, cioè le credenze, i riti,
gli usi patriarcali e aviti, che anch'essi dànno in
psicologia, in sentimento, in racconto, ciò che nelle
altre opere del D'Annunzio è esplicitamente paesaggio. Già
nel Trionfo della morte il tema paesano sfuggiva
talora alla pesantezza naturalistica che pareva più di
solito derivare dall'esempio dello Zola, per comporsi in
episodiche stilizzazioni e figure di ritmo; l'episodio di
allora diventa qui il respiro stesso dell'invenzione, e il
tema drammatico ancor più si alleggerisce e ancor più,
viceversa, perdura, quanto più diventa un momento e
un'occasione di quell'altro tema. Tuttavia la grazia
dell'opera indica i suoi difetti; perché se il suo pregio
consiste nel fondere in un sol tono dramma e paesaggio,
psicologia e decoratività, pathos e stilizzazione la
fusione tanto più si verifica dove il dramma è quasi
assente, come nelle primissime scene dell'atto I, in cui
il tema descrittivo si colora di ritmi e di invenzioni
deliziosamente cantabili, o dove resta sospeso in una
malinconia assorta e fatale (come nel seguito dell'atto),
di cui massima immagine poetica è il sonnoso incanto di
Aligi. Fuori di questi momenti è aperta la via alle solite
stonature della musa psicologica e umana del poeta più
genuina semmai dove, nella ferocia paterna, l'antico gusto
della voluttuosa ferocia dà il massimo di corpulenza
realistica riscontrabile nella tragedia; e meno dove la
stilizzazione è esercitata su temi sempre inafferrati dal
D'Annunzio (la bontà, l'amore delle anime ecc.),
marginalmente eterei, vittimistici, tenui. I quali proprio
allora coincidono col tema che più li nega, il Superumano;
così nell'ebbrezza finale della vittima volontaria, che
nel punto di subire per amore sul rogo il supremo
martirio, non sa altro che esaltare la bellezza simbolica
della fiamma. A ragione dunque sono stati còlti nella
tragedia quasi due linguaggi coesistenti: il linguaggio
quasi realistico di certe scene violente, simile a quello
del San Pantaleone, e il linguaggio preziosamente
artefatto delle Vergini delle Rocce. Ma come l'uno e
l'altro trovano il proprio comun denominatore nella
leggiadria arcaica e pastorale, così un terzo linguaggio è
da cogliersi nell'opera, laddove la fusione avviene con
delicata coerenza, e a esso resta affidato nel regno della
poesia il ricordo della tragedia.
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Tragedia pastorale
rappresentata per la prima volta nel marzo 1904. Il
giovane figlio di Lazzaro di Roio, sta per andare a nozze
con Vienda di Giave: nella casa le sorelle e la madre e i
parenti dello sposo assolvono i doveri prescritti da un
antico rituale (scelta della veste, doni, benedizione).
Questa atmosfera di arcaica solennità è turbata
dall'irrompere di Mila, figlia del mago Jorio, «bagascia
di palo e di frasca», che seguita da una torma di
mietitori infoiati, per sfuggirli si rifugia presso il
focolare, tra lo sgomento delle donne. Ma Aligi la difende
e pone sulla soglia una croce di cera di fronte alla quale
i mietitori indietreggiano. Appare intanto Lazzaro
sostenuto da due uomini e insanguinato, essendo stato
ferito in una rissa per il possesso di Mila: il rito
nuziale è profanato e interrotto.
Aligi è ritornato col suo gregge in montagna; lo segue,
compagna casta e fedele, Mila. Tra i due presto,
irresistibile, nasce l'amore, come consonanza di anime e
forza di natura: Mila lo sente come una colpa, ma ha anche
coscienza del suo riscatto («Rinata fui quando l'amore
nacque»). Arriva intanto Lazzaro di Roio bramoso dì Mila,
si scontra per questo col figlio Aligi, che alla fine lo
uccide. Quando il parricida è condannato dalla comunità ad
essere chiuso in un sacco con un mastino e buttato nel
fiume, sopraggiunge Mila che per salvarlo si assume la
colpa di tutto, dichiarando di averlo «affatturato» e
spinto al delitto. Anche Aligi, a cui prima del supplizio
è stata data una pozione smemorante, crede alla
fascinazione di Mila. Questa affronta il rogo - cui il
popolo come «magalda» l'ha condannata - come sacrificio e
purificazione («La fiamma è bella!»).
Nella produzione teatrale dannunziana prevalgono
complessivamente il motivo superomistico e quella
tipologia femminile perversa e fatale di cui abbiamo
offerto esempio col testo precedente. La fisionomia de La
figlia di Jorio in questa produzione è piuttosto
particolare e merita qualche sia pur rapida considerazione
in vista di una lettura integrale dell'opera.
Sul piano specifico delle forme teatrali l'opera si
presenta come una singolare contaminazione tra dramma
sacro e favola pastorale, e tutta la vicenda è proiettata
su uno sfondo che, al di là di qualche accenno al folklore
abruzzese, è una sorta di mondo arcaico nel quale vigono
le eterne e metastoriche pulsioni del sesso, del sangue e
dell'amore. E per colorire di "primitivo", di "natura" il
mondo che rappresenta D'Annunzio si serve di vari artifici
formali: dall'adozione di un lessico impreziosito da una
sua patina dialettale (v. 43, coscina; v. 48, làmpana) o
arcaica (v. 16, origlieri; v. 22, partisco) alla
particolare cadenza da canto popolare («si cammina cammina
lungo il mare»; «Lungo è il cammino, ma l'amore è forte»)
che assumono gli endecasillabi. |