Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


La figlia di Iorio
 

Tragedia in tre atti in versi rappresentata nel 1904 e pubblicata nello stesso anno. Massima opera teatrale del D'Annunzio, s'ispira al quadro omonimo del Michetti. Narra di una meretrice campestre, Mila, destinata a portare il lutto nelle famiglie, pur quando il ricambiato amore per Aligi la purifica spiritualmente; ché anche Lazaro, padre di Aligi, la vuole, e per sottrarla alla violenza di lui, Aligi commette il parricidio. Del quale Mila si accusa, quasi in voluttà di martirio, per sostituirsi all'amato nell'estremo supplizio. Come si vede torna lo stesso tema incestuoso, lussurioso (a suo modo superumano), presente, a cominciare dalla Città morta, in tante opere del D'Annunzio. Ma la novità e la grazia dell'opera, che subito afferra, è nella stilizzazione arcaica e pastorale a cui quel tema resta soggetto, e con esso la psicologia, il tema morale e drammatico, il movimento dell'azione; una stilizzazione che sottomette anche il ritmo e il linguaggio, senza arrivare alla canora esternità dell'Isottèo, né d'altra parte all'assurdo delle Vergini delle Rocce, tuttavia costringendo il dramma nella leggiadria un po'legnosa di una tavola nella decoratività di un pannello. Se dunque i personaggi del D'Annunzio furono sempre mere occasioni di toni di musica, donde viene la scarsa narratività e teatralità delle sue opere, il pregio della Figlia di Iorio sta invece nel contemporaneo permanere e dissolversi dei personaggi come tali, in tutto ciò che di tipico e di estremo v'è nei loro caratteri, com'è proprio delle favole: nel sacrificio sublime di Mila non meno che nell'assorto e incantato sonno di Aligi; nell'efferato affermarsi dell'autorità paterna, non meno che nelle figure più convenzionali e astratte, la madre austera, le sorelle inconsapevoli, la triste sposa senza nozze. Lo stesso è da osservare per quello che mal si direbbe mero contorno al dramma: il tema dell'"antico sangue" ricordato nella dedica, cioè le credenze, i riti, gli usi patriarcali e aviti, che anch'essi dànno in psicologia, in sentimento, in racconto, ciò che nelle altre opere del D'Annunzio è esplicitamente paesaggio. Già nel Trionfo della morte  il tema paesano sfuggiva talora alla pesantezza naturalistica che pareva più di solito derivare dall'esempio dello Zola, per comporsi in episodiche stilizzazioni e figure di ritmo; l'episodio di allora diventa qui il respiro stesso dell'invenzione, e il tema drammatico ancor più si alleggerisce e ancor più, viceversa, perdura, quanto più diventa un momento e un'occasione di quell'altro tema. Tuttavia la grazia dell'opera indica i suoi difetti; perché se il suo pregio consiste nel fondere in un sol tono dramma e paesaggio, psicologia e decoratività, pathos e stilizzazione la fusione tanto più si verifica dove il dramma è quasi assente, come nelle primissime scene dell'atto I, in cui il tema descrittivo si colora di ritmi e di invenzioni deliziosamente cantabili, o dove resta sospeso in una malinconia assorta e fatale (come nel seguito dell'atto), di cui massima immagine poetica è il sonnoso incanto di Aligi. Fuori di questi momenti è aperta la via alle solite stonature della musa psicologica e umana del poeta più genuina semmai dove, nella ferocia paterna, l'antico gusto della voluttuosa ferocia dà il massimo di corpulenza realistica riscontrabile nella tragedia; e meno dove la stilizzazione è esercitata su temi sempre inafferrati dal D'Annunzio (la bontà, l'amore delle anime ecc.), marginalmente eterei, vittimistici, tenui. I quali proprio allora coincidono col tema che più li nega, il Superumano; così nell'ebbrezza finale della vittima volontaria, che nel punto di subire per amore sul rogo il supremo martirio, non sa altro che esaltare la bellezza simbolica della fiamma. A ragione dunque sono stati còlti nella tragedia quasi due linguaggi coesistenti: il linguaggio quasi realistico di certe scene violente, simile a quello del San Pantaleone, e il linguaggio preziosamente artefatto delle Vergini delle Rocce. Ma come l'uno e l'altro trovano il proprio comun denominatore nella leggiadria arcaica e pastorale, così un terzo linguaggio è da cogliersi nell'opera, laddove la fusione avviene con delicata coerenza, e a esso resta affidato nel regno della poesia il ricordo della tragedia.

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Tragedia pastorale rappresentata per la prima volta nel marzo 1904. Il giovane figlio di Lazzaro di Roio, sta per andare a nozze con Vienda di Giave: nella casa le sorelle e la madre e i parenti dello sposo assolvono i doveri prescritti da un antico rituale (scelta della veste, doni, benedizione). Questa atmosfera di arcaica solennità è turbata dall'irrompere di Mila, figlia del mago Jorio, «bagascia di palo e di frasca», che seguita da una torma di mietitori infoiati, per sfuggirli si rifugia presso il focolare, tra lo sgomento delle donne. Ma Aligi la difende e pone sulla soglia una croce di cera di fronte alla quale i mietitori indietreggiano. Appare intanto Lazzaro sostenuto da due uomini e insanguinato, essendo stato ferito in una rissa per il possesso di Mila: il rito nuziale è profanato e interrotto.
Aligi è ritornato col suo gregge in montagna; lo segue, compagna casta e fedele, Mila. Tra i due presto, irresistibile, nasce l'amore, come consonanza di anime e forza di natura: Mila lo sente come una colpa, ma ha anche coscienza del suo riscatto («Rinata fui quando l'amore nacque»). Arriva intanto Lazzaro di Roio bramoso dì Mila, si scontra per questo col figlio Aligi, che alla fine lo uccide. Quando il parricida è condannato dalla comunità ad essere chiuso in un sacco con un mastino e buttato nel fiume, sopraggiunge Mila che per salvarlo si assume la colpa di tutto, dichiarando di averlo «affatturato» e spinto al delitto. Anche Aligi, a cui prima del supplizio è stata data una pozione smemorante, crede alla fascinazione di Mila. Questa affronta il rogo - cui il popolo come «magalda» l'ha condannata - come sacrificio e purificazione («La fiamma è bella!»).

Nella produzione teatrale dannunziana prevalgono complessivamente il motivo superomistico e quella tipologia femminile perversa e fatale di cui abbiamo offerto esempio col testo precedente. La fisionomia de La figlia di Jorio in questa produzione è piuttosto particolare e merita qualche sia pur rapida considerazione in vista di una lettura integrale dell'opera.

Sul piano specifico delle forme teatrali l'opera si presenta come una singolare contaminazione tra dramma sacro e favola pastorale, e tutta la vicenda è proiettata su uno sfondo che, al di là di qualche accenno al folklore abruzzese, è una sorta di mondo arcaico nel quale vigono le eterne e metastoriche pulsioni del sesso, del sangue e dell'amore. E per colorire di "primitivo", di "natura" il mondo che rappresenta D'Annunzio si serve di vari artifici formali: dall'adozione di un lessico impreziosito da una sua patina dialettale (v. 43, coscina; v. 48, làmpana) o arcaica (v. 16, origlieri; v. 22, partisco) alla particolare cadenza da canto popolare («si cammina cammina lungo il mare»; «Lungo è il cammino, ma l'amore è forte») che assumono gli endecasillabi.

 

Luigi De Bellis