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Primo
e unico dei Romanzi del Melagrano di Gabriele D'Annunzio.
Come il melagrano del sopratitolo è simbolo di abbondanza,
di regalità e di gioia, così il titolo allude al prepotere
distruggitore e creatore e all'indomabilità del fuoco.
Simboli tutti del Superuomo, secondo la dottrina
affacciatasi primamente nel Trionfo della morte; che non
vuole però, come allora, restare tutt'al più un lievito
alle altre e contraddittorie qualità del Superuomo, e
nemmeno, come nelle Vergini delle Rocce, si accontenta di
isolarlo nel dispregio degli altri uomini, che è anch'essa
una forma di rinuncia. Nelle prime pagine del Fuoco Stelio
Èffrena, il protagonista, esce in parole che suonano
condanna al rammarico "d'esser nati troppo tardi o troppo
presto", lo stesso rammarico del protagonista delle
Vergini delle Rocce. Il Fuoco è per eccellenza il romanzo
del Dominatore che ignora limiti e catene, sia pure quelli
dell'umano dolore: "creare con gioia" è il suo motto,
poiché (proiezione e amplificazione dello stesso
D'Annunzio) si tratta di un poeta e musicista glorioso,
cui fa da pungolo assiduo la presenza, nella città dove
vive, di un enorme artista trionfatore, il vecchio Wagner.
E la stessa città, Venezia, sentita come città lussuriosa,
autunnale e regale - un po'nel clima del Sogno d'un
tramonto d'autunno -, gli esalta i pensieri di voluttà e
di gloria, che anche nel Fuoco, come nella Gloria, sono
una cosa sola; così glieli esalta la donna amata,
Foscarina, grande e celebre artista drammatica (in cui può
riconoscersi la Duse), col dono che gli fa di sé: proprio
per gli impuri desideri di mille folle che egli vede su
lei, per il suo passato di amori randagi, per la sua età
non più giovine, non meno che per la devozione con cui lo
ama, fino a sacrificargli in ultimo il proprio amore prima
che gli diventi un peso. È chiaro che l'esperienza
antipsicologica e disumana delle Vergini delle Rocce non
poteva essere stata invano; e la si avverte nella
scrittura, che se non tende più alla stilizzazione
preraffaellita, rifiuta parimenti il modulo naturalistico
e psicologico dei primi romanzi per intonarsi a una
continua celebrazione. "L'Imaginifico" è definito il poeta
Stelio Èffrena; non mai infatti le analogie si
moltiplicarono talmente nel D'Annunzio, se non in quello
che sarà il poema in versi del Superuomo, la Laus vitae,
come questo ne è il romanzo (e della Laus vitae, come già
Le vergini delle Rocce, anticipa puntualmente luoghi). Ma
proprio qui sono i difetti del romanzo, la sua delusoria
perfezione che è vacuità; il lirismo sempre esaltato lo si
avverte come un metodo, sotto cui la falsariga descrittiva
permane spesso terra terra, e il lirismo si applica invano
a dissolverla punto per punto. Analogamente per quanto si
attiene più davvicino al Superuomo; soprattutto i discorsi
d'arte, di una vacuità quasi comica; notevole per questa
parte l'interpretazione autentica che il D'Annunzio offre
della Città morta, che figura essere l'opera a cui lavora
Stelio Èffrena, La Vittoria dell'Uomo; interpretazione che
fa centro sul delitto dell'incestuoso fratello, come
vittoria superumana ch'egli ottiene sulla propria
passione. Ma una volta ancora, la vera poesia del romanzo
è nelle parti malinconiche, elegiache e idilliche:
soprattutto nella figura patetica della donna amante,
nella gelosia che la punge, nel senso della propria età
accanto all'uomo giovine e ardente, nella pietà di sé e di
lui che infine la piega; e nei paesaggi ed episodi che
commentano quella malinconia, quella disperazione e quella
grazia, il sole di novembre, la laguna, le statue sul
Brenta, san Francesco, il labirinto di Strà, la fondamenta
di Murano. Non che codesto tema non abbia coscienza di
essere uno solo col tema del Superuomo: infatti, tanto più
è Superuomo Stelio Èffrena, quanto più grande è il dolore
di chi per lui si sacrifica; ma nel tratteggiare la donna,
le tonalità celebrative e superumane (fuori dai momenti in
cui anch'ella è la Superfemmina, come Pantea del Sogno
d'un tramonto d'autunno) le comunicano nient'altro che un
ardore disperato, un'ebbrezza di sacrifizio, e insomma un
nuovo modo struggente di quella mortale voluttà che dal
San Pantaleone in poi è musa perenne del D'Annunzio. |