Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Il fuoco
 

Primo e unico dei Romanzi del Melagrano di Gabriele D'Annunzio. Come il melagrano del sopratitolo è simbolo di abbondanza, di regalità e di gioia, così il titolo allude al prepotere distruggitore e creatore e all'indomabilità del fuoco. Simboli tutti del Superuomo, secondo la dottrina affacciatasi primamente nel Trionfo della morte; che non vuole però, come allora, restare tutt'al più un lievito alle altre e contraddittorie qualità del Superuomo, e nemmeno, come nelle Vergini delle Rocce, si accontenta di isolarlo nel dispregio degli altri uomini, che è anch'essa una forma di rinuncia. Nelle prime pagine del Fuoco Stelio Èffrena, il protagonista, esce in parole che suonano condanna al rammarico "d'esser nati troppo tardi o troppo presto", lo stesso rammarico del protagonista delle Vergini delle Rocce. Il Fuoco è per eccellenza il romanzo del Dominatore che ignora limiti e catene, sia pure quelli dell'umano dolore: "creare con gioia" è il suo motto, poiché (proiezione e amplificazione dello stesso D'Annunzio) si tratta di un poeta e musicista glorioso, cui fa da pungolo assiduo la presenza, nella città dove vive, di un enorme artista trionfatore, il vecchio Wagner. E la stessa città, Venezia, sentita come città lussuriosa, autunnale e regale - un po'nel clima del Sogno d'un tramonto d'autunno -, gli esalta i pensieri di voluttà e di gloria, che anche nel Fuoco, come nella Gloria, sono una cosa sola; così glieli esalta la donna amata, Foscarina, grande e celebre artista drammatica (in cui può riconoscersi la Duse), col dono che gli fa di sé: proprio per gli impuri desideri di mille folle che egli vede su lei, per il suo passato di amori randagi, per la sua età non più giovine, non meno che per la devozione con cui lo ama, fino a sacrificargli in ultimo il proprio amore prima che gli diventi un peso. È chiaro che l'esperienza antipsicologica e disumana delle Vergini delle Rocce non poteva essere stata invano; e la si avverte nella scrittura, che se non tende più alla stilizzazione preraffaellita, rifiuta parimenti il modulo naturalistico e psicologico dei primi romanzi per intonarsi a una continua celebrazione. "L'Imaginifico" è definito il poeta Stelio Èffrena; non mai infatti le analogie si moltiplicarono talmente nel D'Annunzio, se non in quello che sarà il poema in versi del Superuomo, la Laus vitae, come questo ne è il romanzo (e della Laus vitae, come già Le vergini delle Rocce, anticipa puntualmente luoghi). Ma proprio qui sono i difetti del romanzo, la sua delusoria perfezione che è vacuità; il lirismo sempre esaltato lo si avverte come un metodo, sotto cui la falsariga descrittiva permane spesso terra terra, e il lirismo si applica invano a dissolverla punto per punto. Analogamente per quanto si attiene più davvicino al Superuomo; soprattutto i discorsi d'arte, di una vacuità quasi comica; notevole per questa parte l'interpretazione autentica che il D'Annunzio offre della Città morta, che figura essere l'opera a cui lavora Stelio Èffrena, La Vittoria dell'Uomo; interpretazione che fa centro sul delitto dell'incestuoso fratello, come vittoria superumana ch'egli ottiene sulla propria passione. Ma una volta ancora, la vera poesia del romanzo è nelle parti malinconiche, elegiache e idilliche: soprattutto nella figura patetica della donna amante, nella gelosia che la punge, nel senso della propria età accanto all'uomo giovine e ardente, nella pietà di sé e di lui che infine la piega; e nei paesaggi ed episodi che commentano quella malinconia, quella disperazione e quella grazia, il sole di novembre, la laguna, le statue sul Brenta, san Francesco, il labirinto di Strà, la fondamenta di Murano. Non che codesto tema non abbia coscienza di essere uno solo col tema del Superuomo: infatti, tanto più è Superuomo Stelio Èffrena, quanto più grande è il dolore di chi per lui si sacrifica; ma nel tratteggiare la donna, le tonalità celebrative e superumane (fuori dai momenti in cui anch'ella è la Superfemmina, come Pantea del Sogno d'un tramonto d'autunno) le comunicano nient'altro che un ardore disperato, un'ebbrezza di sacrifizio, e insomma un nuovo modo struggente di quella mortale voluttà che dal San Pantaleone in poi è musa perenne del D'Annunzio.

 

Luigi De Bellis