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Tragedia in quattro atti in prosa , rappresentata nel 1899
da Eleonora Duse ad Ermete Zacconi, e pubblicata nello
stesso anno. Anche qui, come nella Città morta, un artista
(questa volta uno scultore), Lucio Settala, incerto fra la
pietà per la moglie, Silvia, e l'amore per colei che è la
sua modella e la sua musa, Gioconda Dianti, afferma il
proprio diritto a realizzare sé di là dai divieti morali,
e si unisce a costei; e la moglie, nel vano tentativo di
salvare una statua del marito, che la Gioconda (credutasi
abbandonata) distrugge, resta mutilata delle bellissime
mani. Il tema superumano è qui molto esplicito;
curiosamente, però, lo scultore, il Superuomo, non sembra
poi tanto sicuro di sé, anzi tenta risolvere nel suicidio
il contrasto in cui si dibatte: ma è la donna, Gioconda, a
proclamare la superiorità di lui oltre il Bene e oltre il
Male, in una scena di grande effetto, ma troppo gridata,
in cui il diverso contenuto non impedisce di riconoscere
la maniera di un Ibsen rifatto dal borghese Bernstein.
Anche qui però, come nella Città morta, il tono più
continuo dell'opera rimane fuori dal tema distesamente
superumano, riposando meno sulla figura dell'artista o
dell'amante vincitrice, e più sulla figura della moglie
sacrificata; la quale ripete un po'i casi e il tono di
Giuliana nell'Innocente, di Anna nella Città morta.
Tuttavia, anche il tema della sacrificata comincia a
essere stanco nel D'Annunzio; se il tono languido che gli
si addice non fosse ancor esso a suggerire, più che mai in
margine all'azione drammatica e soltanto come riposo della
stanca donna, la delicata e poetica fantasia della
Sirenetta: la quale meno che mai è personaggio di dramma,
ma vaghissima occasione di poesia, dove si continua, fatta
marina, l'immaginazione arborea del Sogno d'un mattino di
primavera e si anticipano le mitiche figure d'erba, foglie
e salsedine del libro di Alcione. In una specie di
cantilena messa in bocca alla Sirenetta, s'incontrano i
versi che vorrebbero illudere e consolare il destino della
sacrificata, ma riescono a significare, con maggiore
suggestione di poesia, la poetica del "Verso è tutto"
proclamata nell'Isottèo: dove in tono di favola parla di
colei, più fortunata delle sorelle, che non chiese nulla
in cambio di quel che donò, ch'era il suo canto, ma cantò
"per cantare, per cantare - per cantare solamente". Col
titolo Le vittorie mutilate D'Annunzio riunì, nella
traduzione francese del 1903, La Gioconda, La Gloria e La
città morta.
La Gioconda vuol essere la giustificazione del piacere, in
nome di un'eroica morale dell'arte. (F.
Flora) |