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Romanzo pubblicato nel 1892. Il protagonista,
che narra di sé in prima persona, è un tipo dostoevskiano
di "umiliato e offeso", succube di un amico prepotente e
sanguigno, Wanzer, e della moglie, Ginevra, cui lo lega
una sensualità avvilente e miserabile; avendo per unico
bene lo struggente amore per il figlio decenne, Ciro, che
col muto soffrire dell'avvilimento di lui lo eccita
all'impeto di ribellione per cui infine ucciderà Wanzer,
diventato amante di Ginevra. Evidentemente il breve
romanzo è ispirato dalla lettura dei libri del Dostoevskij,
Delitto e castigo, Krotkaja, Umiliati e offesi; perciò è scritto a convulso monologo, rompendo la
prosa stata di così sontuosa magniloquenza nel Piacere. Ma del modello gli manca ciò che l'arricchiva
dall'intimo, il senso complesso della vita e dell'animo
umano; la sensualità, e gli aspetti vilmente feroci della
sensualità, ancora come nel San Pantaleone, è l'unica
corda viva del Giovanni Episcopo: meno genuina, perché
vuole mascherarsi di vittimismo cristiano. Ne risulta un
senso molliccio, falso, appiccicoso, dove si salva
soltanto l'intuizione della prepotente sessualità di
Ginevra, il bianco e feroce sole intorno alla miseria
fisica del protagonista, le disgustevoli piaghe del
suocero, come tante turpitudini fisiche del San
Pantaleone: un'intuizione tuttavia che s'intravvede, senza
mai arrivare a espressione; e la rotta scrittura del
monologo, volendo nascere come convulso singhiozzo del
pover'uomo che parla, si risolve in un modo di ritmare la
pagina non meno goduto per sé del parnassianesimo altrove,
una macchinetta che va avanti per conto suo
indipendentemente dal sentimento che vorrebbe esserci
sotto. Nella prefazione al romanzo s'incontra il celebre
motto "O rinnovarsi o morire", alla luce del quale
conviene giudicare il libro, se non in sé, nella storia
dell'evoluzione della poesia dannunziana; bisogno di
rinnovarsi, dopo Il piacere, nel senso di una prosa più
intimamente modulata e variamente orchestrata, nel senso
medesimo dell'approfondimento sentimentale e morale
tentato nell'Intermezzo di rime. Il problema del
D'Annunzio era dunque narrare casi e persone quanto più
lontani dallo schema idoleggiato di sé che era stato
Andrea Sperelli. Ora come ora il tentativo si può
considerare fallito, e certamente devia dalla rigida linea
di svolgimento dal Canto novo alla Laus vitae;
ma è quell'ansia di rinnovamento fuori della più recente
sua formula che riporta continuamente il D'Annunzio dal
solare al languido e viceversa, anzi essa stessa nasce
dalla coesistenza perpetua di quei due toni ed è il legame
segreto di ciascuno dei due. E non importa se, per
apprezzare il Giovanni Episcopo nella storia della poesia
dannunziana, bisogna guardare molto avanti, pensandolo
come aurorale e inefficace premessa alle Faville del
maglio e al Notturno. Il romanzo fu poi incluso
con Terra vergine nell'Edizione Nazionale delle opere
di D'Annunzio sotto il titolo Le primavere della mala
pianta (1931).
Il D'Annunzio, per inclinazioni particolari del suo
ingegno fine propenso a sensualità e a passionalità quasi
alessandrine, era esposto più d'ogni altro fra noi al
pericolo di lasciarsi sedurre dalle qualità del romanzo
russo: e vi si è infatti abbandonato, trasmodando. Nel
Giovanni Episcopo c'è quasi un'ebrezza del nevrotismo
russo. (Capuana). È un'allegoria di lussuria; e dove
questo non è, anfana nell'insincero e nel passivo. ( F.
Flora).
Giovanni Episcopo più che ogni altra opera dannunziana ha
la rigorosa coerenza della falsità, senza la grazia
neanche di uno di quei sorrisi o toni violenti di
paesaggio che pur hanno trovato nel D'Annunzio un
interprete mirabile e che sono stati da lui modulati altre
volte in maestrevole accordo con lo stato d'animo
fondamentale del racconto. (L. Russo) |