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È il secondo dei tre Romanzi della Rosa di D'Annunzio,
pubblicato nel 1892, pochi mesi dopo il Giovanni Episcopo.
La "rosa" allude alla voluttà, tema comune dei tre
romanzi. Il protagonista, Tullio
Hermil, è un'altra incarnazione di
Andrea Sperelli del Piacere, di
lucidissima coscienza nel proprio sensuale egoismo, ma
messo in una situazione dove quanto gli resta di moralità
(sia pure come sofferenza di non averne) dovrebbe dare
tanto più il senso e il tono al romanzo. Infinite volte
colpevole di fronte alla moglie, Giuliana, che sempre lo
perdonò, quando finalmente torna a lei con l'amore di una
volta, trova che anche lei, frattanto, in un inganno
momentaneo dei sensi, gli è stata infedele; disperata ora,
più che mai devota al marito, ma portando in sé
ineliminabile il frutto della colpa. E, moralmente
costretto a perdonare a Giuliana che tante volte gli
perdonò, Tullio non sopporta senza odio l'innocente
bambino, presente ostacolo a dimenticare; finché lo
uccide. Autentico nel romanzo è il senso disperato e
mortale che sta in fondo alla voluttà, e da cui nasce
l'immaginata vicenda; autentico specie negli ultimi
capitoli, dove la vicenda dà occasione a un suono sordo e
cupo. Meno autentico invece lo sforzo, tanto maggiore che
nel Piacere e nel Giovanni Episcopo, di accentrare
l'ispirazione sulla bontà, sui contrasti morali. Il
sentimento rigenerante da cui Tullio si sente attratto
verso la moglie, sul punto di particolarizzarsi nei
pensieri che lo compongono, non è altro che desiderio
sessuale; parimenti l'asserita spiritualità di Giuliana
(come quella di Maria Ferres nel Piacere) è un tono
estremamente languido e voluttuoso di struggimento
d'amore. Il D'Annunzio continua insomma nell'Innocente, e
più o meno con gli stessi risultati, lo sforzo cominciato
nell'Intermezzo di rime, di costruirsi un'interiorità di
sentimenti e pensieri sul modulo di tutta l'arte
romantica; l'inadeguata esperienza della "bontà",
suggerita nel Giovanni Episcopo dall'esempio del
Dostoevskij, qui è ispirata al Tolstoj, di cui ricorrono
molte citazioni da Guerra e pace: una bontà che in
D'Annunzio rende un suono falso e appiccicoso, benché di
una falsità sempre squisitamente atteggiata e sempre
autentica nella voluttà che le giace al fondo. Notevole al
riguardo l'uso frequentissimo dei corsivi, e le
ripetizioni da pagina a pagina di intere frasi; modi, nei
modelli da cui son tolti, di approfondire l'introspezione
psicologica, che si risolvono in una musicalità più
espressa che nel Giovanni Episcopo, ma in compenso tanto
più esplicita nel tornare a una canorità, nel genere
languido, sontuosa. Parallelo all'allontanarsi dal nucleo
autobiograficamente psicologico, che Il piacere aveva
stretto assai davvicino, è nell'Innocente quel narrare in
prima persona (come nel Giovanni Episcopo), tentando cioè
il D'Annunzio di impersonarsi in casi, quanto più
peccaminosi, tanto meno autobiografici; parallela dunque
la fluidità, quasi diremmo la disinvoltura, della macchina
narrativa, che nasce, come s'è detto, nel solito giro dei
pensieri più cupi quanto più voluttuosi, ma subito li
risolve in una casistica dei sentimenti d'amore, per cui,
meglio che il Tolstoj, vale nominare il Bourget. Perciò
manca all'Innocente la frequenza di voluttuose descrizioni
che nel Piacere arrestano di continuo il racconto, ma
arricchiscono di poesia la pagina; quelle che
s'incontrano, quanto più si adeguano agli stati
psicologici cui s'accompagnano, tanto più cedono alla
molle e un po'falsa musica del rimanente; compreso il
famoso canto dell'usignolo (cap. IX), che, più disteso di
ogni altra descrizione, risulta quasi un fuordopera, e per
quella maggiore distensione si vale abbastanza
meccanicamente di alcuni spunti tolti a una novella della
Casa Tellier del Maupassant. In conclusione, l'Innocente
rimane il più leggibile dei romanzi dannunziani. ma il più
leggibile sul piano dei romanzi cosiddetti ameni, che non
vuol dire il più bello.
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