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Poema di Gabriele D'Annunzio pubblicato il 1903, nel primo
libro delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli
Eroi, intitolato a Maia. Si compone di 8400 versi ineguali
in strofe libere di 21 versi ciascuna. Per due terzi narra
un viaggio ideale e materiale in Grecia, cui fa da
auspicio l'incontro con colui che, fra gli eroi antichi,
pare al D'Annunzio il prototipo dei Superuomo: Ulisse. Il
viaggio si conclude in un canto di dominazione e sterminio
che sale dai campi delle antiche battaglie. Qui comincia
l'ultima parte del poema: poiché quel canto di dominatori
ricorda al poeta per affinità e per contrasto il canto non
meno feroce, ma antieroico, avvilente, che si alza dalle
"città terribili" della vita moderna; e per sottrarglisi
egli compie un secondo viaggio ideale fra gli eroi dipinti
da Michelangelo nella Cappella Sistina. Opera pletorica,
ineguale e difforme, tuttavia centrale nella poesia
dannunziana, perché ciò che in essa colpisce è
l'esaltazione sfrenata dei lati più evidentemente
impoetici di quella poesia. E prima di tutto, l'ambizione
del poema costruito, in cui si conclude il lungo sforzo
che anche nei romanzi (equilibrandosi fra gli schemi
naturalistici e l'ispirazione lirica) tentò di foggiare un
tipo "extra-legem" di poema-romanzo. Ma allora lo sforzo
costruttivo, come tale, riusciva più valido quanto più si
appoggiava proprio a ciò che frattanto negava, la
psicologia, lo schema narrativo e naturalistico: più nel
Piacere, nel Trionfo della Morte, nel Fuoco, e meno nelle
Vergini delle Rocce. Qui l'antico aiuto è invece
rifiutato; nulla vuol essere psicologia e tutto simbolo;
nulla racconto e tutto canto. Donde due difetti eguali e
contrari: il confusissimo aspetto del poema dove qualunque
disegno va perso sotto l'episodica efflorescenza delle
divagazioni liriche, e d'altronde lo sgradevole permanere
del disegno-base al di sotto, come una falsariga
realistica di fronte a cui il compito del poeta è di
abolirla con la stessa metodicità amplificativa,
imaginifica e celebratoria che aduggiò i lirismo del
Fuoco. Curioso è confrontare alla prima parte del poema i
taccuini del viaggio reale che sottostà al viaggio ideale
in Grecia, o le singole figurazioni di Michelangelo che
danno luogo ai gridi lirici della parte seconda: quel
metodo, che non annulla ma sottolinea la duplicità della
falsariga descrittiva e dell'amplificazione lirica, vi si
tocca con mano. E come nel Fuoco, anche qui la volontà
amplificatrice e celebratoria è una sola cosa col tema
superumano; il quale, se è inabolibile dalle pagine di più
raggiunta poesia, altrettanto rimane per sé enfatico,
impoetico, risolvendosi nei punti peggiori, come nella
Gloria, in una vacua affermazione di potenza cui fa
contrasto la voluttuosa ebbrezza che ci sta al fondo.
Meglio dunque i luoghi dove il tema superumano non è il
tema dell'infinito dominio, ma dell'infinito desiderio;
tipiche le strofe iniziali, in cui l'argomento del libro
si annunzia appunto come lode della "Diversità, sirena del
mondo", voluttuosa lode di ogni aspetto di vita, che
culmina in lode degli specifici aspetti della voluttà
d'amore, nell'apparizione notturna di Afrodite che si
concede al poeta. Ma per vedere qual è il tema
poeticamente maggiore, si noti come, appena raccolto da
Ulisse il muto incitamento a conseguire nientemeno che
l'Universo, subito il sentimento del poeta si risolva in
nostalgia, nel ricordo della madre e delle sorelle: che
sembra contraddire il tema esplicito del poema, ma non
contraddice, anzi attua, ciò per cui esso diventa poesia,
appunto la nostalgia, l'idillio, l'allentarsi della
volontà in voluttà. Così la più giustamente famosa oasi
lirica del poema, la rievocazione di Fiesole (versi
3424-3591), vorrebbe nascere come risalto alla maggiore e
maschia bellezza dei luoghi eroici, della cui lontananza
il poeta si duole, ma nasce invece come episodica
liberazione dal compito, poeticamente ingrato, di
esaltarli; e l'altra bellissima figurazione della Felicità
(versi 7813-7896) viene al poeta parimenti non cercata,
improvvisa, finito l'arduo compito superumano di tutto il
libro. Più aderenti al tema superumano possono sembrare
altri luoghi, come il "Canto amebèo della guerra", il
canto delle "Città terribili" (versi 5377-5838); ma anche
in essi si attua in fondo ancora, attraverso il tema
superumano, la cupa e feroce voluttà, antica musa del
D'Annunzio fin dal San Pantaleone.
Le figure della mia poesia insegnano la necessità
dell'eroismo. Uscito è dalle mie fornaci il solo poema di
vita totale - vera e propria "Rappresentazione di Anima e
di Corpo" - che sia apparsa in Italia dopo la Comedia.
Questo poema si chiama Laus Vitae. (D'Annunzio)
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